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Giornata della memoria e dell'impegno in ricordo delle vittime delle mafie: sabato 16 marzo a Firenze

| Scritto da Redazione
Giornata della memoria e dell'impegno in ricordo delle vittime delle mafie: sabato 16 marzo a Firenze

La Giornata della Memoria e dell'Impegno ricorda ogni anno tutte le vittime innocenti delle mafie. Oltre 900 nomi di uomini e donne: semplici cittadini, magistrati, giornalisti, appartenenti alle forze dell'ordine, sacerdoti, imprenditori, sindacalisti, esponenti politici e amministratori locali morti in tutta Italia per mano delle mafie solo perché, con rigore e coerenza, hanno compiuto il proprio dovere civile di giustizia sociale e legalità democratica. Sabato 16 marzo, per l'appuntamento della Giornata di Firenze, da Cremona partiranno tre pullman organizzati dal coordinamento locale diLibera e dallo Sportello Scuola-Volontariato del Cisvol. Ecco come e perché partecipare.



La data
La data scelta, il sabato prossimo al 21 marzo, primo giorno di primavera, vuole rappresentare il simbolo di una grande speranza che si rinnova ogni anno. La manifestazione costituisce anche una grande occasione di incontro corale con i familiari delle vittime che insieme a Libera hanno trovato la forza di risorgere dal loro dramma, elaborando il lutto per una ricerca di giustizia vera e profonda, trasformando il dolore in uno strumento concreto d’impegno e d’azione per la pace.

Da Cremona a Firenze
I tre pullman diretti a Firenze partiranno da Cremona alle ore 6.30 dalla Stazione dei pullman in via Dante. Il rientro è previsto entro le ore 20.00. Quota di partecipazione: studenti 15 euro, adulti 20 euro. Iscrizioni entro venerdì 8 marzo scrivendo all’indirizzo mail: cremona@libera.it. Per informazioni: 3387215754

Perché a Firenze
La notte tra il 26 e il 27 Maggio 1993 un fiorino Fiat imbottito di esplosivo viene fatto esplodere in via dei Georgofili, all'angolo con via Lambertasca creando un cratere di 3 metri di diametro e 2 di profondità. L'esplosione provoca il crollo della Torre dei Pulci, sede dell'Accademia dei Georgofili, il danneggiamento dell'80 per cento delle abitazioni e di un'ala della Galleria degli Uffizi, distruggendo molte opere d'arte dal valore inestimabile. Le vittime sono 5: Angela Fiume, custode dell'Accademia, il marito Fabrizio Nencioni e le due figlie, Caterina e Nadia. Al civico numero 3 perde la vita Dario Capolicchio, studente universitario della facoltà di Architettura.

L'attentato viene inquadrato nell'ambito della feroce risposta del clan mafioso dei Corleonesi all'applicazione dell'articolo 41 bis, che consentiva al Ministro della Giustizia di sospendere per gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica le regole di “trattamento e gli istituti dell'ordinamento penitenziario nei confronti dei detenuti facenti parti dell'organizzazione criminale mafiosa”. Due mesi dopo l'attentato nel cuore del centro storico di Firenze, altri attentati mafiosi vengono compiuti a Roma e a Milano, a conferma di un disegno criminoso che voleva condizionare il funzionamento degli istituti democratici e lo svolgimento della vita civile del Paese. L’iter processuale per ristabilire le dinamiche dell’attentato avvenuto a via dei Georgofili è lungo e complesso. L’udienza preliminare si apre il 12 giugno 1996 quando il giudice Soresina dirà che dietro a questa strategia stragista si intravedono “menti più fini” di quelle mafiose di Cosa Nostra.

L'ipotesi di una regia “occulta” dietro Cosa Nostra aleggia per tutta la durata del processo per poi consolidarsi il 13 gennaio 1998, quando Giovanni Brusca parla in aula del “papello” con le “richieste” di Totò Riina presentate allo Stato per far cessare le bombe. Il 6 giugno 1998 la sentenza di primo grado si conclude con 14 ergastoli per le stragi di Firenze, Roma e Milano. Tra i nomi di spicco figurano Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella, Bernardo Provenzano, Matteo Messina Denaro.

Nel luglio del '99 viene depositata la motivazione della sentenza nella quale le inquietanti “trattative” tra Stato e mafia emergono con tutte le loro ombre. La sentenza dedica ampio spazio ad un episodio definito dagli inquirenti di allora l’anticamera delle stragi del 1993. Il 5 Novembre del 1992 nel giardino di Boboli a Firenze viene fatto ritrovare un proiettile di artiglieria, collocato ai piedi della statua del magistrato Marcus Cautius. L'episodio rafforza l’idea che la strage di Firenze non fosse stata voluta soltanto da Cosa Nostra.

La sentenza della Corte di Cassazione del 6 Maggio 2002 conferma 15 ergastoli per i boss di Cosa Nostra ritenuti mandanti ed esecutori delle stragi di Roma, Firenze e Milano. Ma il capitolo sui “mandanti esterni” è tutt'altro che chiuso. Una nuova svolta viene segnata dalle rivelazioni dell'ex boss di Brancaccio Gaspare Spatuzza, collaboratore dei fratelli Graviano e uomo di fiducia di Leoluca Bagarella. Collaboratore di giustizia dal 2008, rilascia dichiarazioni importantissime sulle stragi del '92 e del '93, tanto da far aprire un nuovo processo a Firenze nel 2010 a carico del mafioso del mandamento di Corso dei Mille, Francesco Tagliavia, accusato di aver messo a disposizione i suoi uomini per l'esecuzione delle stragi.

Lo stesso Tagliavia, condannato all'ergastolo per la strage di via D'Amelio, era già stato coinvolto nella prima indagine sulle stragi del '93, ma la sua posizione era stata poi archiviata. La sentenza del marzo 2012 condanna Francesco Tagliavia e altri mafiosi all’ergastolo per le stragi del '93 a Firenze, Roma e Milano. Nella prima pagina delle motivazioni della sentenza si legge: “una trattativa indubbiamente ci fu e venne quantomeno impostata su un do ut des. L'iniziativa fu assunta da rappresentati delle istituzioni e non dagli uomini di mafia”. La sentenza continua: “L'obiettivo che ci si prefiggeva, quantomeno al suo avvio, era di trovare un terreno d'intesa con "Cosa Nostra" per far cessare la sequenza delle stragi”. Secondo i giudici fiorentini, “è verosimile che tutti gli apparati, ufficiali e segreti, dello Stato temessero sommamente altri devastanti attentati dopo quello di Capaci (del 23 maggio 1992 in cui perse la vita il giudice Giovanni Falcone, ndr), nella consapevolezza che in quel momento non si sarebbe saputo come prevenirli... si brancolava abbastanza nel buio, soprattutto sul piano dell'intelligence”.

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