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LA STORIA DEL NOME DEL TORRONE | Agostino Melega (Cremona)

Iniziamo allora col ricordare che si è venuto ad affermare un dato linguistico, ossia che il dolce mandorlato cremonese derivi da torre (fatto a forma di torre), il cui prototipo – scrive Carla Bertinelli Spotti – sarebbe nato nel 1441, in occasione delle nozze di Bianca Maria Visconti.

| Scritto da Redazione
LA STORIA DEL NOME DEL TORRONE | Agostino Melega (Cremona)

LA STORIA DEL NOME DEL TORRONE | Agostino Melega (Cremona)

  Fra i misteri della città di Cremona vi è quello dell’origine del nome del torrone. Tant’è che molti si sono messi a strologare su questa questione, che poi è il vero perno dell’identità della città con il quartetto semantico di base formato da “Turòon, Turàs, Tetàs e Tugnàs (torrone, torrazzo, tette floride e Tognazzi Ugo)”.

  Iniziamo allora col ricordare che si è venuto ad affermare un dato linguistico, ossia che il dolce mandorlato cremonese derivi da torre (fatto a forma di torre), il cui prototipo – scrive Carla Bertinelli Spotti – sarebbe nato nel 1441, in occasione delle nozze di Bianca Maria Visconti.

  Altri invece fanno discendere il torrone dal tortone offerto da Francesco Sforza al suocero Filippo Maria Visconti, un personaggio che si dice fosse molto buono di cuore. Per modo di dire, si badi bene. Tant’è vero che pare che egli volesse subito togliere dalle spese il genero, ancor prima che entrasse nel talamo sponsale nella camera da letto sita nel castello di Santa Croce, un fortilizio di cui è rimasto ancora un mozzicone a Cremona, in via Ghinaglia.

 Ma nei filòs, nei ritrovi invernali nelle stalle del Cremonese, si raccontava però una storia ben diversa.   E si diceva che il cuoco del banchetto di nozze della celebre coppia si chiamasse Arturo, o meglio el Tùro. Il quale, in quel fatidico giorno,  si era nascosto in un sito segreto, perché nessuno potesse essere tentato de duciàa, ossia di scoprire la ricetta della sua ultima novità gastronomica, che stava per l’appunto predisponendo con tanta cura. Infatti, come un alchimista d’antico pelo, egli aveva trovato una magica pozione miscelando albume d’uovo, miele, mandorle tostate e una piccola quantità di zucchero a velo onde diluire gli aromi naturali.  E questo avveniva poco lontano dal banchetto di nozze ormai in via di conclusione, nell’attesa  fatidica di vedere ed assaggiare l’annunciato nuovissimo dolce.

Ma spéta che te spéta (ma aspetta un bel po’), il cuoco Arturo non dava proprio segni di sé. El se vedìiva mìia (non lo si vedeva nemmeno col binocolo). Fu allora che lo Sforza, il condottiero, che sino a quel momento aveva dato segni di grandissima allegrezza, s’incavolò mìia de rìder (mica da ridere) e ordinò al capitano dei fanti, Piero Brunoro, di scoprire dove si fosse cacciato quell’incosciente cuoco grande e grosso, insieme al suo gigantesco dolce.

 Per farla corta, il capitano fece urlare a perdifiato ai suoi due mila soldati il nome di Arturo. Ma a tutti i Cremonesi presenti quel grido in italiano non diceva nulla, ma proprio nulla, così come non diceva nulla allo stesso cuoco chiamato da sempre con un nomignolo ben più familiare.

  Furono allora gli abitanti di stràada Canòon, del rione de San Bòsol (di San Bassano) ad impedire l’insorgenza di un imbarazzante inghippo diplomatico. Infatti essi si unirono ai fanti nel chiamare il pantagruelico Arturo col nome di sempre, quello giusto: ”Tùroo! Turòon!”.

  Arturo allora, Turòon per gli amici e contradaioli, saltò fuori, nell’euforia generale, col dolce mandorlato tra gli applausi degli invitati e dei presenti.

  Ebbene, nella memoria collettiva quella rimase per sempre la grande “féesta de Turòon”, di Arturo e del suo dolce, che da quel giorno eternò il suo nome associandolo al tipico dolce di Cremona, in de’l turòon cušé bòon (nel torrone così buono).

  Ma va pur confessato che nella storia dei filòs è presente una variante ben diversa, come in tutte le cose belle e brutte di questo mondo.

 

  Si raccontava pure nelle stalle che allorquando il cuoco fu chiamato ad uscire dal nascondiglio dopo l’urlo dei fanti, il nostro Arturo non si mosse nemmeno di un millimetro. E fu allora, in quel preciso istante,  che il futuro duca di Milano, sino a quel momento non molto apprezzato dal popolo – a differenza di Bianca Maria, che era invece amata, per non dire adorata – si alzò subito di scatto e, come fosse stato preso dal morso di una tarantola e da furore taurino si precipitò, schiumante d’ira e di rabbia e d’improperi verso le cucine. Un tale di nome Sigàgn, gridò: “El là el turòon (Eccolo là il grande toro)”. Sì, lo appellò allo stesso modo col quale i tifosi grigiorossi salutavano l’ingresso in campo allo stadio Zini, di Basilico, la possente ala sinistra degli anni ’60.

  Nessuno allora pensò ovviamente al calcio, ma piuttosto al Palio dell’Assunta, o per essere più precisi all’ imbufalito toro nella piazza del Duomo, che tanto divertiva i Cremonesi di quel tempo.   E l’ilarità circense e buffonesca sul futuro duca, sul Turòon, fu grande, con sganasciate risate collettive.

  Ma lo Sforza, da vero stratega, capovolse con arte la situazione a proprio favore. Egli si presentò al popolo calmo e lucido con appresso il grande dolce. Lo distribuì a tutti e la gioia collettiva fu ancor più grande. Si alzò allora un coro ripetuto: “El Turòon ‘l è bòon! El Turòon ‘l è bòon... (Il Torrone è buono...).

  “Sì”, rispose il condottiero, “il tortone mandorlato, non io, il vostro turòon è proprio buono”.

  E chiudendo l’affermazione al pari d’un faraone d’Egitto, sentenziò: “Così sia scritto, e così per sempre el turòon sia fatto”.

Agostino Melega (Cremona)

Maggio 2020

 

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