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El nimàal, el salàm e ‘l cudeghìin di Agostino Melega (Cremona)

Con l’intento di parlare in questi momenti in cui ti va via anche l’appetito, della fama del salame del Torrazzo e dell’animale che ne è il padre e la madre, el ‘nimàal (il maiale), siamo andati a spigolare un dialogo fra le sapide icone linguistiche de “La sposa Berta”

| Scritto da Redazione
El nimàal, el salàm e ‘l cudeghìin di Agostino Melega (Cremona)

El nimàal, el salàm e ‘l cudeghìin di Agostino Melega (Cremona)

Con l’intento di parlare in questi momenti in cui ti va via anche l’appetito, della fama del salame del Torrazzo e dell’animale che ne è il padre e la madre, el ‘nimàal (il maiale), siamo andati a spigolare un dialogo fra le sapide icone linguistiche de “La sposa Berta”, commedia in  dialetto scritta a fine ‘700 dal sacerdote Antonio Maria Nolli,  portata anni fa all’attenzione dei cremonesi dalla bravura critica di Gian Luca Barbieri.

Ebbene nel secolo dei lumi, il salame e i prodotti imparentati con esso erano un segno di viva ospitalità e di apertura nei confronto del mondo e potevano coadiuvare la risoluzione di conflitti emotivi  interiori con una terapia che prendeva delicatamente la gola e le papille gustative.  

Ecco allora la testimonianza di quanto viene detto in quella commedia in dialetto, nella scena sesta dell’atto quarto, da parte dei protagonisti presi dalla meraviglia e dall’acquolina. Essi sono i contadini del Battaglione Panacea e Bastiano che parlano un idioma rustico e il ciabattino cittadino Biagio, che si esprime in vernacolo cittadino. Il tutto avviene per favorire l’attenuazione dell’ansia di quest’ultimo a causa della fuga della figlia Rosina.

Questa ragazza, impedita nel suo desiderio di sposare Martino, era  riparata in casa dei contadini dove Biagio stesso si era recato per riprenderla. “Ecco chì, ste l’è formai (Ecco qui, questo è formaggio), - invita Panacea, alla presenza pure del fidanzato Martino  – st’olter chì l’è salàm con l’ài, (quest’altro è salame con l’aglio) e ste chì ‘l pan molesìn (e questo è pane molle). Adès pòrti il codeghin (Adesso porto il cotecino)”.

Biagio dimentica allora d’un tratto tutte le angustie: “Che salàm! Che bèl color! Me consola fin l’odor. Ne pòs mìga pù spetà. (Che salame! Che bel colore! Mi consola fin l’odore. Non posso mica più aspettare).

Dell’ impossibilità a resistere di fronte a quella carne così ben conciata, di cedere all’impatto con quel profumo aromatico sopraffino, che quando ti entra nel naso ti va dritto nel cervello;  ecco di tutto questo era ben conscio e convinto il semplice Bastiano, al quale non rimase che dire : “Scomenzé pur a maja! (Cominciate pure a mangiare!). Scomenzé anca vo’, Martin (cominciate anche voi, Martino). Chì gh’è ‘l pan, e chì gh’è ‘l vin. Andé là, fè colazion! (Qui c’è il pane, e qui c’è il vino. Avanti, fate colazione!)”.

E Biagio, persuaso già di suo, non rimane che stuzzicare il mogio Martino: ”Ah Marten, come l’è bòn! El dà gùst, el mèt petìit (Ah Martino, com’è buono! Dà gusto, mette appetito)”.

Allora Bastiano, con una punta d’impazienza, coglie come un dubbio da parte di Martino. Ovvero pensa che questi, in un angolo nascosto della testa, potesse mettere anche lontanamente in dubbio la sua arte gastronomica genuina di contadino-norcino-salumaio. Ed allora sbotta furioso: ”Bonari, ne ve l’hoi ditt, che l’è fatt coi sentiment? Majè pur, messedé i dèng ànca vo’ Martìin, majè. (Perbacco, non ve l’ho detto, che (il mio salame) è fatto con tutti i crismi? Mangiate pure, muovete i denti, anche voi Martino, mangiate”.

Con questa prova drammaturgia di pregio, anche l’antenato del maiale cremonese, il porco selvatico che in branchi errava nelle foreste lungo il Po ancora per tutto il medioevo, è pervenuto ad essere accolto in una degna cornice e considerazione da parte del letterato Nolli.

E come poteva non farlo, commentiamo noi,  di fronte a tale animale totemico della cucina di casa nostra? Come non poteva cantarne le lodi, di fronte a questo padrone assoluto del Paese di Cuccagna e del Bengodi? Dove si è certi che i salàm j è  tacàat a li sées (i salami sono appesi alle siepi). Anche questo principe indiscusso della gastronomia locale, il sor maiale o sior nimàal ha avuto dunque degna cornice e considerazione da parte del letterato Nolli. E come non essere grati pure noi, figli di questo tempo corrente e bislacco, al nimàal, al ròi, chiamato pure nei vari vernacoli padani maièl, pòrch, porsél, pursé, purzèl, gogìn, gugiol, sì, hì, nì, ninàt, ninéin, busgàt e in tanti altri modi.

Come non essere riconoscenti al Buon Dio, a Madre Natura, e alla Tradizione per il dono che gli elementi costitutivi del mondo hanno fatto alla tavola cremonese, dove il salame è un’opera somma, un’opera d’ingegno e di arte, per la morbidezza, la pastosità e il flusso aromatico, e dove pure il cotechino, el cudeghìin, raggiunge livelli e picchi d’eccellenza?  E come non ricordare la testimonianza di Tommaso Gazzoni, il quale scrisse nel 1586, sul libro La piazza universale edito a Venezia, che  le mortadelle di Cremona, insieme ad altri cibi di cui fornisce un dettagliato elenco, sanno risvegliare l’appetito perfino ai morti?

Come non ricordare e non attualizzare sulle nostre tavole la continuità della tradizione ed essere compartecipi di un dolce, raffinato canto collettivo masticatorio?

Ognuno dei lettori, siamo sicuri, darà una risposta positiva ed attiva a queste domande. Noi però, prima di chiudere, non possiamo dimenticare un’ultima cautela, un suggerimento d’obbligo, sul gustare, o meglio sö ’l sperlecàa el cudeghìin (sul “sperleccare” il cotechino), e ricordare, come da uso secolare, che “el bòon cudeghìin el và mangiàat cu’l cuciarìin (il buon cotechino, va mangiato col cucchiauno)”.

Agostino Melega (Cremona)

9 maggio 2020

 

 

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