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Parliamo della Costituzione Italiana di F. Guindani

| Scritto da Redazione
Parliamo della Costituzione Italiana di F. Guindani

Oggi si parla tanto di Costituzione, non passa giorno che non si legga della necessità di una sua modifica per adeguarla ai tempi nuovi. Ma siccome per modificare e per farsi un’idea sulla validità e necessità di tali modifiche bisogna conoscere l’originale, abbiamo pensato di avviare una riflessione sulla nostra Costituzione, e non essendo costituzionalisti di professione e di studio, cercheremo di farlo alla luce del buon senso e delle idee che ci appartengono.

Che cosa è la Costituzione

La costituzione è lo schema fondamentale, la forma di costruzione di uno stato, non una legge ma “la legge” di organizzazione del potere, dell’impalcatura giuridica dello stato, nella quale tutte le leggi e il governo devono trovare unità, fondamento e limite.
E siccome l’organizzazione dello stato è originaria e sovrana, la Costituzione non è una legge che lo stato riceve dal di fuori, ma è l’atto di fondazione dello stato e che lo stato deve avere la volontà e la forza di rispettare sempre e di modificarla nei punti e nel caso ove non risulti più adeguata, ma sempre seguendone lo spirito iniziale e mai sicuramente per interesse di parte.
Per questo la Carta Costituzionale prevede anche i modi in cui questa operazione può essere fatta, nell’interesse dello stato e mai, ripeto MAI per interesse di parte.

Un po’ di storia
In Italia, il 2 giugno 1946, assieme al referendum che sostituì alla monarchia la repubblica, fu eletta una Assemblea Costituente che elaborò e approvò la nuova Costituzione della Repubblica Italiana.
L’Assemblea era formata da 556 deputati eletti a suffragio universale.
Per accelerare i tempi e facilitare la discussione, l’Assemblea scelse 75 deputati che, divisi in tre gruppi, ebbero il compito di preparare gli articoli che sarebbero poi stati presi in esame dall’intera assemblea. Gli articoli furono poi materialmente scritti da altri 18 deputati.
La discussione in Assemblea durò dieci mesi; ogni parola, ogni concetto vennero discussi per ore e ore, finché si giunse alla stesura definitiva che fu approvata con 453 “si” e 62 “no” il 27 dicembre 1947 e sarebbe entrata in vigore il 1° gennaio 1948.
Come vedete la discussione fu lunga e faticosa e a tratti molto accesa. Ma non fu lo spirito di parte dei componenti l’assemblea alla base della discussione, bensì la consapevolezza dell’importanza del compito che era stato loro affidato di formulare un testo che garantisse in avvenire la libertà e la democrazia e il rispetto dei diritti di ogni gruppo e di ogni singolo cittadino. I punti di vista erano diversi, certo, ma in tutti era palese la volontà di lavorare per il bene del nostro paese.
Ed è questo lo spirito che ancora dobbiamo mantenere e difendere.

Franco  Guindani

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Articolo 1
L’Italia è una  Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

Saltiamo per un momento le parole “fondata sul lavoro”, non perché non siano importanti ma perché ci torneremo in seguito collegandoci all’articolo 4 e ad altri che riguardano proprio la tutela del lavoro.
Voglio solo sottolineare ora come i Costituenti abbiano inteso evidenziare il concetto che il lavoro, inteso come diritto-dovere, fosse di primaria importanza per la società che avevano in mente e della quale si accingevano a gettare le basi.

L’Italia dunque è una Repubblica, come era stato scelto dagli Italiani nel referendum del 1946.
La maggioranza non era stata schiacciante, 12 milioni contro 10, ma il Reggente di casa Savoia, Umberto, che avrebbe dovuto essere il secondo re d’Italia con quel nome, ebbe il buon senso, quel buon senso che suo padre non seppe usare nei momenti cruciali, di accettare democraticamente il verdetto del popolo. In questo fu un grande re, glielo dobbiamo riconoscere.

L’Italia è una Repubblica democratica.
I costituenti non hanno ritenuto sufficiente la parola repubblica (dal latino “res publica” cosa pubblica, di tutti) ma hanno aggiunto democratica (dal greco “demos” popolo) cioè la cosa pubblica governata dal popolo.

Nelle città dell’antica Grecia il popolo, che allora non comprendeva tutti gli abitanti ma solo una parte, si riuniva in piazza e discuteva, poi votava. Ora se la cosa era semplice in un villaggio, cominciava a complicarsi quando il numero degli aventi diritto aumentava. Così si rischiava che vincesse il gruppo che aveva maggior forza di imporsi, insomma chi gridava di più.
Già presso i Romani però si era provveduto ad una organizzazione più selettiva eleggendo un Senato, cui però potevano accedere solo alcune classi, e, dopo aspre lotte, i tribuni del popolo che dovevano vegliare sul rispetto dei diritti del popolo minuto, allora detto “plebe”.
L’ho messa naturalmente in modo molto semplificato.

Anche nella nostra Repubblica la sovranità appartiene al popolo che non potendosi riunire in piazza, la esercita secondo le regole stabilite dalla Costituzione stessa e che vedremo in dettaglio in seguito esaminando gli articoli inerenti.
Semplificando, il popolo esercita innanzi tutto la sua sovranità con le elezioni, andando cioè a votare quando viene chiamato e comunque a scadenze che la stessa Costituzione indica.

Se ne deduce subito che chi non va a votare rinuncia alla sua parte di sovranità e lascia decidere gli altri.
Ve l’immaginate quale democrazia avremmo se a votare ci andasse solo una minoranza, diciamo il 20-30 % ?
Eppure un tempo, non tanto lontano, era così. Nelle prime elezioni del Regno d’Italia, si votava per censo, cioè votava solo chi aveva una certa, consistente, ricchezza, e solo i maschi, e gli elettori erano proprio pochi. In pratica votava la borghesia, il popolo ne era escluso.
Poi il diritto di voto venne alzato pur mantenendolo riservato ai soli uomini, e gli elettori aumentarono fino a che si arrivò, a secolo ‘900 già avviato, al suffragio universale, ma sempre dei soli maschi. Durante il periodo fascista il diritto di voto venne soppresso, non c’era più bisogno di votare, ci pensava “lui”.

Solo nel secondo dopoguerra si arrivò al diritto di voto alle donne.
Conquistare il diritto a votare fu, specialmente per le donne, una dura lotta,  fu una scalata faticosa, una conquista delle classi più umili, di quel popolo fino a poco tempo fa ancora considerato plebe, sprovvisto della capacità di ragionare e di saper scegliere.
Così mi riempie di amarezza sentire che tanti non vanno più a votare, rinunciano a questo diritto, a questa conquista che è costata lotta e sacrificio di tanti.
Forse qualcuno vorrebbe, preferirebbe, che si faccia avanti uno che “ci pensa lui”, un “ghe pensi mì” decisionista, infallibile capo. Non è che dobbiamo pensare molto per individuarlo, c’è già uno che per ogni suo interesse si appella al suo ruolo di scelto dal popolo, per fortuna non ancora per grazia di Dio.

Oggi la televisione ha sostituito la piazza, ma contrariamente ai tempi antichi il popolo non può esercitarvi neanche il tentativo di urlare di più perché c’è chi ne detiene il possesso e ne approfitta a piene mani. Chi possiede la TV può gridare più degli altri, e non è più democrazia.
Il diritto al voto è una grande conquista, rinunciarvi è uno dei peccati più gravi contro la libertà e la giustizia.

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