Sabato, 04 maggio 2024 - ore 10.17

Welfare. Una sconfinata innovazione | M.Ferrari e F.Paini

| Scritto da Redazione
Welfare. Una sconfinata innovazione | M.Ferrari e F.Paini

La ricerca di strategie innovative per la gestione dei servizi di welfare è un obiettivo primario per chi si occupa di politiche sociali, ed un bisogno impellente per chi ci lavora quotidianamente.  In questa ricerca di soluzioni nuove, infatti, gli operatori  sono molto sollecitati a mettere in discussione il loro ruolo più codificato e le relazioni che hanno instaurato con l’organizzazione, gli utenti, gli altri soggetti del welfare.

Di recente il tema è stato trattato anche su questa stessa rivista (1/2013) grazie alle preziose riflessioni di Mauro Ferrari che ha posto l’attenzione sulla scelta di molti operatori di ‘sconfinare’, ovvero di uscire dai mandati istituzionali per reinterpretare gli strumenti, le regole, i fini del proprio lavoro attingendo a risorse proprie e mobilitando competenze “extra-contrattuali”

Torniamo ora sulla questione degli sconfinamenti, nella convinzione che proprio questa scelta di ‘uscire dai confini’ sia un modo interessante per innovare le pratiche dei servizi. Sconfinare, infatti, serve (potrebbe, dovrebbe servire) a spostare i confini, a rendere mobili scelte e comportamenti che si sono irrigiditi nel tempo, e che rischiano talvolta di non essere adeguati o funzionali ad un contesto modificato. E’ il caso, ad esempio, dell’assistente sociale che trova escamotage per gestire contributi economici per gli utenti, o di chi, nell’ufficio, allestisce anche un piccolo magazzino di vestiti e attrezzature per bambini. Non è un caso, quindi, che il tema che Mauro Ferrari ha proposto abbia trovato tanto interesse e riscontro tra i collaboratori ed i lettori di Welfare Oggi. Anche per questa ragione, abbiamo scelto di tornare sul tema dedicandogli la rubrica ‘Ping Pong’. Ospiteremo qui alcune ulteriori riflessioni di Mauro Ferrari, con lo scopo di evidenziare il valore ed il senso, ma anche i problemi e le difficoltà che lo sconfinamento porta con sé. Accanto a questo primo contributo, abbiamo scelto di portare alcuni contributi di operatici del welfare che testimoniano le ragioni, la varietà e gli effetti di questa pratica.

Una breve premessa: gli operatori sono relè organizzativi

Il concetto di “relè organizzativo” è stato introdotto da Crozier e Friedberg (Attore sociale e sistema, ETAS libri, 1978): in sintesi, questi Autori sostengono che tutti coloro che in una organizzazione svolgono attività sul confine, ovvero sono a contatto con l’utenza, godono di un posizionamento potenzialmente straordinario. Essi cioè possono cogliere, proprio grazie al contatto continuo con un pubblico esterno all’organizzazione, sollecitazioni, stimoli, proteste, che possono raccogliere, elaborare, risolvere, individuare traiettorie, risposte; e, intanto che svolgono il loro compito, o mandato organizzativo, possono contemporaneamente agire come “sensori” (da qui il termine di relè) nei confronti della propria organizzazione, trasmettendo segnali, proponendo modifiche a procedure inadeguate. Gli operatori di confine – e dovrebbe essere evidente come questo termine sia particolarmente centrato per tutti coloro che svolgono attività cosiddette “di sportello” – sono dunque in una condizione sensibile e possono essere utilizzati dalla propria organizzazione come facilitatori di processi di apprendimento.

Perché questo accada è necessario, come sembra ovvio, che l’organizzazione sia disponibile ad apprendere, che metta in campo luoghi e tempi in grado di r-accogliere gli stimoli che provengono da questi attori.

 

Organizzazioni che apprendono, organizzazioni che “prendono”

Ma le organizzazioni, ed in particolare le organizzazioni del welfare sono disponibili ad ingaggiarsi come “learning organizations” (C. Argyris, D. Schon, Apprendimento organizzativo, Guerini e Associati, Milano, 1998)? Quali tipi di organizzazioni si mostrano più permeabili a queste sollecitazioni? E quando questo non accade, cosa ne è del patrimonio di esperienze degli operatori?

Scomodando Goffman (la vita quotidiana come rappresentazione, il mulino, Bologna, 1969), inoltre, possiamo affermare che ciascun operatore, nel momento in cui è a contatto con un soggetto esterno al proprio gruppo di lavoro, “si gioca la faccia”: e la faccia in questione è sia quella dell’organizzazione (egli rappresenta la propria organizzazione in quel momento), ma anche, e soprattutto, la propria: ecco perché di fronte a quelle che chiamiamo, e che vengono vissute quotidianamente, come inadeguatezze organizzative, gli operatori –molti operatori – decidono, scelgono, di “sconfinare”. Di andare oltre il mandato, di superare le rigidità procedurali, di operare una “mossa comunicativa” che si mostri il meno inadeguata possibile rispetto alle richieste che in quel preciso momento vengono poste alla sua attenzione.

Questo movimento contiene dunque una ricchezza di sollecitazioni ancora poco esplorate, che ci raccontano delle disponibilità presenti nel campo del welfare, cioè di questo segmento cruciale delle politiche pubbliche così vituperato, e di come attraverso la valorizzazione di queste pratiche quotidiane sia possibile non tanto risolvere questioni che spesso rimandano a contesti più ampi (la crisi economica, l’emergere di nuove vulnerabilità sociali), ma perlomeno di elaborare una più ampia consapevolezza, sia individuale che dell’agire e riflettere collettivo. Vale a dire che raccogliendo e analizzando le pratiche di sconfinamento possiamo disporre di un patrimonio di conoscenze, di possibili innovazioni, di collezioni di sforzi che possono tradursi in processi di apprendimento straordinari. Gli operatori dal canto loro potrebbero così ritrovare il gusto dell’esplorazione, sapendo di disporre di un set di strumenti di tipo relazionale, duttile, utili sia al proprio agire quotidiano che alla propria organizzazione. Si tratta di far emergere, di dare voce e corpo a quello che si presenta come uno sforzo quotidiano e sollecitarne un esito riflessivo, nel senso che queste diverse forme di azione sono già in campo, accadono ogni giorno, ma sono spesso nascoste, agite nell’ombra. Perché questo lavoro possa svilupparsi occorre allora che da un lato gli operatori accettino di raccontarsi, e di agire con una sorta di doppio sguardo (da un lato rivolto ai proprio agire in relazione ai destinatari del servizio, dall’altro ai propri referenti organizzativi); e che, sull’altro lato, le diverse organizzazioni si propongano come luoghi generativi di riflessività, accettando di rivisitare le proprie procedure.

 

Spunti dalle esperienze

I materiali che andiamo raccogliendo, la proposta che stiamo immaginando, iniziano ad aprire sollecitazioni, ad articolare il tema nelle sue numerose variabili e ambivalenze. Stiamo trovando conferma ad esempio della presenza di un continuum organizzativo, che vede la presenza di confini più rigidi nelle organizzazioni pubbliche (comuni, asl), più restie alla trasformazione, e con operatori più esposti al rischio dello sconfinamento individuale, proprio come risposta alle rigidità del sistema; una maggiore duttilità invece, e una valorizzazione della messa in gioco dei singoli e dei sistemi organizzativi, la si riscontra nel mondo della cooperazione sociale, più disponibile a modificare le proprie traiettorie e a valorizzare le disponibilità dei singoli. D’altro canto, dobbiamo anche rilevare come la maggiore rigidità del sistema pubblico protegga i propri operatori, alcuni dei quali ben volentieri rimangono entro le cornici date; e, nell’altro versante, come la maggiore flessibilità d’uso per gli operatori no profit implichi un coinvolgimento a volte totalizzante, affascinante ma assai faticoso. Come, quando, dove si possono incontrare questi due tipi di comunità di pratica (Wenger, 2006)? Quali forme assume? La filiera produttiva del welfare, così frastagliata e frammentata, le continue rivisitazioni di ruoli, la ricerca di soluzioni standardizzate e negoziali, i processi di precarizzazione favoriscono o inibiscono gli scambi generativi fra i diversi attori?

Ma questi sono solo uno degli spunti: il tema degli sconfinamenti apre a quello della consapevolezza (quante volte apprendiamo grazie ad inciampi fortuiti?); al tema della presunta saggezza dovuta all’anzianità (“da giovane sconfinavo, poi ho imparato a smettere”, quasi si trattasse di una dipendenza da cui togliersi); rimanda alle relazioni fra individuo e gruppo (come e quando funzionano le equipe, quanto sono luoghi accoglienti e rigeneranti, o quanto riproducono stanchezze e lamenti?), all’urgenza di predisporre luoghi di sosta che sostengano le fatiche del lavoro sociale e ne rilancino gli slanci, prima che gli operatori si “brucino”.

Dalle sei esperienze raccolte, abbiamo quindi provato a cogliere alcuni spunti che proponiamo alla riflessione, come una ulteriore tappa di questo cammino affascinante, che tocca parti sensibili del lavoro sociale.

1.Sconfinare funziona

E’ forse scontato dirlo, ma gli operatori sconfinano innanzitutto in nome dell’efficacia. Sconfinare risolve problemi, semplifica burocrazie, mobilita risorse inedite (anche personali), genera relazioni e visibilità…  Insomma: sconfinare funziona.

Spesso, anche per questo, può essere motivante: uscendo dai confini l’operatore è spinto a riflettere ed apprendere, rimette in gioco acquisizioni, inventa strumenti, disegna scenari nuovi, può persino trovare gratificazioni ed appagamenti che la rigidità del mandato rischia di mortificare.

Certo sconfinare è anche assai impegnativo: proprio perché attinge a risorse e competenze non solo professionali, chiede all’operatore (o meglio, all’operatrice. Vogliamo dirlo, visto che il welfare è fatto dalle donne?) di spendersi maggiormente, ingaggiando risorse, energie e tempi che usualmente il lavoro risparmi. La questione –quindi- della sostenibilità nel tempo degli sconfinamenti è tutta da esplorare.

2. Sconfinare sottrae

Lo sconfinamento traduce, usualmente, l’inadeguatezza del confine ed insieme la percezione dell’operatore che, al di furi di quel vincolo, la sua azione sarebbe più efficace, più mirata.

Testimonia che il mandato istituzionale, la professionalità, le norme…  insomma, quella armatura che avrebbe dovuto essere una potente arma per l’operatore,  si rivela un fardello faticoso, forse persino estraneo, e comunque inadatto al combattimento.  Si sconfina quindi da risorse inadeguate, da mandati pesanti, da strumenti farraginosi, da storie sbagliate, da errori complicati che non si vuole o non si può provare a cambiare.

Lo sconfinamento però testimonia anche in qualche misura una affermazione di orgoglio dell’operatore che ritiene di poter provare a giocare da solo quello che è invece il gioco dell’organizzazione entro cui si muove. Si sconfina quindi anche per presunzione, pensando di viaggiare meglio da soli.

In ogni caso sconfinare è una affermazione di sè ed insieme una sottrazione alla/dalla organizzazione: si tratta di movimenti spesso inconsapevoli, quasi sempre ne è inconsapevole almeno l’organizzazione. Se resta in questa dimensione sottrattiva, lo sconfinamento rappresenta un’occasione di innovazione persa.

3. Sconfinare è solitario (pure troppo)

Sconfinare è spesso un’azione individuale. Questo ha conseguenze plurime.

L’operatore si muove all’esterno delle protezioni contrattuali: rinuncia ad esempio ai confini dati dalle regole, dai mandati, dai contratti. I confini che allora l’operatore comunque si trova a mettere, sono autogenerati: non sono scelte né semplici né dall’esito certo.

4. Sconfinare è anche inconsapevole

Lo sconfinamento non è sempre una scelta razionale è consapevole: talvolta si sconfina per appassionamenti, coinvolgimenti emotivi, affinità relazionale… Non per questo lo sconfinamento perde la sua valenza innovatrice.

Quale che sia la ragione per cui un operatore si trova a travalicare il suo mandato, si apre comunque uno spazio di cambiamento, si genera comunque uno sguardo nuovo che può innescare evoluzioni interessanti.

Sconfinare resta allora la via maestra verso un cambiamento che sia generativo più che adattivo, inedito, inatteso. Sconfinare è (ri)creativo perché prende le sue forme da altre origini: dal terreno, dalle curiosità dell’esploratore, dai suoi mezzi, persino dalle sue emozioni, lasciandosi alle spalle i vincoli e le forme del confine che travalica.

di Mauro Ferrari e Francesca Paini

Articolo pubblicato su

pubblicato sulla rivista  "welfare oggi"

autorizza la pubblicazione sul sito  dr. mauro ferrari

PhD, docente a contratto di Analisi e Programmazione delle Politiche Pubbliche Statali e Locali

Università Cà Foscari di Venezia

Scuola in Servizio Sociale e Politiche Pubbliche, Palazzina Briati

Dorsoduro 2530

30123 Venezia

2013-08-06

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