Venerdì, 10 maggio 2024 - ore 08.39

Bologna: quarto incontro del Corso su Lavoro e flessibilità dell'occupazione.

| Scritto da Redazione
Bologna: quarto incontro del Corso su Lavoro e flessibilità dell'occupazione.

Organizzato dall'Istituto Alcide De Gasperi

Se il lavoro non è una merce..., dedicato all'esame e al commento delle proposte sin qui elaborate per trasformare e unificare il complesso mondo dei contratti flessibili, (ci piacerebbe) in un'ottica di stabilità e di tutela per tutti i lavoratori.

L'incontro si terrà sabato prossimo 4 febbraio alle ore 9,30 presso il Convento di San Domenico a Bologna, Piazza San Domenico 13.

Interverranno, in dialogo tra loro, il prof. avv. Piergiovanni Alleva, docente di Diritto del Lavoro nell'Università politecnica delle Marche, e il prof. Pietro Varesi, docente di Diritto del Lavoro presso la Facoltà di Economia dell'Università Cattolica, sede di Piacenza. Coordinarà l'incontro il prof. Michele La Rosa, socio dell'Istituto e docente di Sociologia del Lavoro nella Facoltà di Scienze Politiche di Bologna.

In allegato una prima documentazione e precisamente: il progetto di Disegno di Legge elaborato nel 2007 dal relatore all'incontro del 4 febbraio prof. Alleva.

Il progetto di Alleva parte da una lettura panoramica del mondo del lavoro flessibile e interviene (riqualificando, trasformando, cancellando) essenzialmente su tre aspetti: l'effettiva temporaneità di tanti lavori a termine, l'ambigua condizione intermedia del lavoro parasubordinato, le "finte esternalizzazoni". Anche il progetto Madia-Damiano prevede la trasformazione o l'eliminazione di alcuni contratti flessibili, ma si caratterizza fondamentalmente come un percorso, con forti contenuti formativi, di accesso o reinserimento al lavoro (si intitola Contratto Unico di Inserimento Formativo).

Nei prossimi giorni trasmetteremo il progetto di Disegno di legge del prof. Ichino, intitolato Contratto di transizione al nuovo sistema di protezione del lavoro nonchè quello dell'on. Nerozzi (Contratto Unico di Ingresso), elaborato sulla scorta del progetto degli studiosi Boeri e Garibaldi. L'uno e l'altro (a differenza del progetto Alleva e Madia-Damiano) modificano il sistema vigente di tutela in materia di licenziamenti individuali. Una materia, (anche) quest'ultima, assai complicata, che abbiamo sintetizzato per il lettore non specialista nell'allegata rassegna normativa.

Su richiesta, ai partecipanti verrà consegnato un attestato di presenza.

 

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Piergiovanni Alleva

Un programma contro la precarietà
(da MicroMega, n. 7- 2011)

 

La precarietà è una piaga sociale. In pochi però sono disposti a contrastarla con provvedimenti concreti. Alcuni semplicissimi stramenti giuridici: un’anagrafe pubblica del lavoro, la possibilità di impugnazione del contratto da parte delle organizzazioni sindacali, l’incremento dei poteri degli ispettori del lavoro. E altre misure quasi sempre a costo zero.

 

Le mille facce della precarietà.

Quella del precariato sembra essere l’unica, o quasi unica, questione socio-economica che trova apparentemente concordi, nella denuncia, nella deprecazione e nell’auspicio e proclamato impegno di un’inversione di rotta, tutte le forze politiche e le organizzazioni sociali. D’altra parte la situazione disperata di un’intera generazione di giovani e meno giovani, i quali non hanno conosciuto altra esperienza lavorativa che il precariato, è sotto gli occhi dì tutti e rende improponibili, ormai, i tentativi - una volta non rari - di scorgere nella ”flessibilità”» o discontinuità lavorativa profili di vantaggio per la comunità o per i singoli.

La prospettiva, poi, è totalmente negativa, perché, a onta di quei proclami, la percentuale delle nuove assunzioni con contratti precari è salita ormai a oltre l’80 per cento del totale.

È evidente, dunque, l’ipocrisia delle deplorazioni e delle manifestazioni di buone intenzioni, o, per quel che riguarda almeno alcuni di quei soggetti politici ed economici, l’incapacità di individuare mezzi e strumenti idonei a rovesciare la tendenza.

Per l’area politica di centro-destra e per le associazioni imprenditoriali è legittimo parlare di ipocrisia, perch6 la legislazione prodotta dai governi Berlusconi, sia nel periodo 2001-2005, sia dal 2008 ad oggi, è stata tutta tesa a incentivare la diffusione del precariato e addirittura di renderlo immune da possibili reazioni degli individui che lo subiscono.

Il precariato infatti è stato eretto a sistema con il decreto legislativo 276/2003, che ha messo a disposizione dei datori di lavoro privati e pubblici un vero “supermarket” di contratti precari (lavoro a termine, somministrato, a chiamata, a progetto. di inserimento, occasionale eccetera), e recentemente, con I’articolo 32 del “collegato lavoro”, il centro-destra è giunto alla perfidia di rendere difficilissima per il precario la reazione giudiziaria contro le illegittimità (diffusissime) che vengono comunque consumate nella stipula e nella gestione di quei contratti. Perché il lavoratore deve impugnare il contratto entro 60 giorni dalla sua fine o “tacere per sempre”, e si tratta davvero di una decisione di difficilissima per chi, umanamente, spera di esser richiamato e sa che, agendo in giudizio, “si brucerebbe i vascelli alle spalle”.

Le associazioni imprenditoriali, poi, parlano volentieri di fidelizzazione della risorsa umana, di professionalizzazione permanente, di collaborazioni fruttuose e stabili, ma fan di tutto per aiutare i loro associati ad assumere con contratti precari nove lavoratori su dieci.

Quanto all’area di centro-sinistra e alle stesse organizzazioni sindaca1i è forse impietoso, ma giusto, affermare che si sono limitate a proposte inadeguate e marginali, talvolta palesemente controproducenti.

Si pensi alla pubblicizzata misura di stabilizzazione del governo Prodi per cui, dopo 36 mesi di lavoro a termine anche non consecutivo, il lavoratore “doveva” essere assunto stabilmente (senza peraltro che fosse previsto - ancorché suggerito dagli esperti - un diritto di prelazione): il risultato è stato, ovviamente, che, arrivati a 36 mesi, i lavoratori a termine non sono stati più richiamati da quei datori di lavoro (una vera norma boomerang!). Si è puntato, poi, sul costo economico dei contratti precari, postulando (ma si è ancora molto lontani dalla meta) che il lavoro precario debba “costare di più” di quello stabile, in modo che i datori di lavoro preferiscano quest’ultimo: ammesso che mai vi si arrivi, ci si accorgerebbe che il problema è un altro: è, occorre dirlo, un problema di “potere sociale”, ovvero di predominio psicologico e socio-economico sul lavoratore, al quale i datori di lavoro non rinunciano certo in cambio di una qualche convenienza finanziaria.

Già oggi, d’altro canto, se si mettono insieme legislazioni nazionali e regionali di incentivazione all’assunzione a tempo indeterminato, ci si accorge che queste costano di meno di quelle precarie: ad esempio. chi assume a tempo indeterminato un soggetto disoccupato da più di due anni è esentato per i tre anni successivi dal pagamento dei contributi previdenziali.

Quanto alle organizzazioni sindacali, l’illusione è stata quella di poter controllare e governare attraverso la contrattazione collettiva l’utilizzo da parte delle imprese del lavoro precario e sono così fiorite clausole - spesso complicate e intrecciate di eccezioni - circa percentuali massime di lavoratori precari (10 o 15 percento eccetera) rispetto all’insieme degli occupati. Ma l’unica richiesta veramente incisiva, che sarebbe quella di poter prendere visione di ogni contratto di lavoro precario stipulato dall’impresa, per valutarne congruenza e legittimità, le organizzazioni sindacali non l’hanno mai avanzata e non certo perché fosse difficile pensarci. Quanto alle ricordate clausole di “contingentamento” percentuale dei lavoratori precari sul totale, la loro inefficacia è resa evidente dal ricordato rapporto di 9/10, o pressappoco, tra precari e stabili tra i nuovi assunti, e, d’altro canto la stessa possibilità di reazione giuridica contro la violazione di una tale clausola costituisce un rompicapo: chi dovrebbe far causa? Il sindacato o il singolo precario? E per chiedere cosa?

A tutto quanto fin qui osservato va aggiunta, però, un’importante considerazione: il lavoro precario non è soltanto quello veicolato dai contratti “atipici” (a termine, di lavoro somministrato, a progetto. di inserimento eccetera), ma anche quello che è generato dalle “esternalizzazioni” fraudolente o semi-fraudolente, finalizzate. appunto, alla separazione giuridica tra l’impresa e il lavoro che essa di fatto utilizza.

Si pensi, per chiarire il concetto, alla situazione di chi, dipendente con contratto a tempo indeterminato di un’impresa, si ritrova all’improvviso coinvolto nella cessione del suo reparto produttivo (allo scopo ribattezzato “ramo d’azienda”) a una nuova piccola società – probabilmente promossa dallo stesso imprenditore - con la quale l’impresa madre stipulerà contratti di appalto, a costi più convenienti, per gli stessi prodotti o servizi che quel reparto produceva quando era “interno”.

Si tratta, come si comprende, dì una “precarizzazione sostanziale”, creata dall’assetto produttivo, non diversa - negli effetti pratici di insicurezza sul futuro e di abbassamento degli standard economico-normativi - da quelli derivanti dall’essere titolare di un “brutto” contratto “atipico”.

Peggio ancora, ovviamente, se quell’impresa esternalizzante è una cooperativa di produzione e lavoro o fornitrice di servizi, ultimo girone, - spiace dirlo - dell’inferno del lavoro “grigio”.

Questa premessa ricognitiva della situazione oggettiva e degli atteggiamenti soggettivi dei protagonisti politici non ha nulla di esagerato, ma neanche di pessimistico, perché, come cercheremo di dimostrare, la lotta al precariato è davvero “il semplice, difficile da fare”, un compito

perfettamente alla portata di un legislatore mediamente capace dal punto di vista tecnicogiuridico, purché, però, davvero motivato politicamente.

Qui di seguito. pertanto, individueremo i capisaldi di un intervento 1egislativo davvero incisivo, motivando razionalmente ognuna delle indicazioni.

 

Proposte contro l’abuso dei contratti “atipici”

Si può ripartire, allora, dal rilievo iniziale che, a nostro avviso, batte in breccia molte ipotesi e programmi in tema di riassorbimento del precariato: se è vero che l’80 per cento e più delle nuove assunzioni avviene con contratto precario, ciò significa che si è immersi in un quadro di diffusissima patologia e illegalità e ciò impedisce che possa essere assunto come credibile ogni programma che pensi a una gestione del fenomeno come fenomeno fisiologico.

Detto diversamente: poiché è evidentemente impossibile e difforme dal vero che l’80 per cento delle esigenze lavorative che. si creano nella nostra economia siano davvero esigenze temporanee (queste ammontano storicamente circa al 15 per cento del totale, come si rilevava in tempi precedenti al decreto legislativo 276/2003), ciò significa appunto che su cinque lavoratori quattro vengono assunti con contratto precario , ma che almeno tre lo sono in modo illegale e che il loro rapporto di lavoro dovrebbe esser trasformato ope legis a tempo indeterminato.

Ma allora è deviante e ingiusto proporre per questi soggetti, che agli occhi della legge sono già lavoratori stabili e dovrebbero essere solo riconosciuti tali nel modo più rapido, per via amministrativa o giudiziale, degli interventi graduali, di tipo negoziate o di tipo economico per portarli a una più o meno lontana stabilizzazione.

Allo stesso modo, sarebbe insensato e ingiusto proporre a chi è già proprietario di una cosa di ricomprarsela una seconda volta pagandola a rate e magari con finanziamento agevolato. Basta, invece, svelare la verità per trovare bea presto i rimedi. In proposito ci sembra opportuno, al fine di una migliore comprensione, suddividere il problema del lavoro precario in due aree: a) quella del precariato realizzato mediante contratti “atipici” ossia contratti diversi da quello di lavoro subordinato

a tempo indeterminato e quella del precariato realizzato mediante esternalizzazioni e frazionamenti aziendali e di impresa.

Nella prima area poi conviene ancora distinguere: a1) i rapporti “atipici” che sono comunque rapporti di lavoro subordinato però temporanei, con durata delimitata (come il contratto a termine in senso. stretto, il contratto di lavoro somministrato, il contratto di apprendistato e il contratto di inserimento) e a2) i rapporti “atipici’ di lavoro autonomo parasubordinato (quali i contratti di collaborazione coordinata e continuativa, contratti di collaborazione a progetto, associazioni in partecipazione, rapporti consulenziali “a partita IVA in regime dl totale o prevalente monocommittenza, i quali possono essere sia a tempo determinato che a tempo indeterminato ma, in

quanto rapporti di lavoro autonomo, sottratti comunque alle leggi protettive del lavoro subordinato, a cominciare dalle tutele contro i licenziamenti ingiustificati.

Per la prima categoria di rapporti “atipici” basterebbe controllare l’effettiva temporaneità dell’esigenza lavorativa, che deve obbligatoriamente essere esplicitata nel testo della lettera-contratto di assunzione a termine o di lavoro somministrato. In almeno quattro casi su cinque, stando all’esperienza comune dei tribunali, si riscontrerebbe che la temporaneità non sussiste.

Tutto sta, allora, nel garantire la conoscenza e il controllo delle situazioni reali e nell’aiutare il lavoratore precario a superare il timore che lo attanaglia di fronte alla necessità di procedere lui all’impugnazione e nei garantire una completa informazione sulla possibilità stessa di ottenere la trasformazione del rapporto di lavoro atipico. comunque già subordinato, in rapporto a tempo indeterminato.

Crediamo che, allo scopo, sarebbero più che sufficienti alcune misure normative che non costerebbero assolutamente nulla alla finanza pubblica e ridurrebbero l’abuso dei contratti “atipici” in misura fortissima, forse del 70 per cento e più.

 

In particolare bisognerebbe:

a) rendere effettivamente pubblica l’anagrafe del lavoro, consentendo a tutti di accedere ai dati che, impresa per impresa, vengono raccolti dai centri per l’impiego ai quali ogni datore di lavoro è tenuto a comunicare non solo l’assunzione di ogni lavoratore ma anche il tipo di contratto con il quale viene assunto. Non vi è nessun investimento organizzativo da fare perché il sistema informatico è già funzionante. Si tratta solo di renderlo accessibile ad ogni soggetto, a cominciare dalle organizzazioni sindacali, senza che sia necessario avere uno “specifico interesse”, come è invece richiesto oggi;

b) estendere la possibilità di impugnazione del contratto - che oggi è solo dell’intestatario – anche alle organizzazioni sindacali e agli istituti previdenziali, sul presupposto razionale che il precariato illegale costituisce un obiettivo impedimento all’azione sindacale e un depauperamento della mutualità complessiva. La fattispecie del precariato illegale è, infatti, a ben vedere, una fattispecie pluri-offensiva;

c) dare agli ispettorati del lavoro il potere - di cui oggi incredibilmente sono privi - di ordinare la trasformazione dei rapporti precari illegali in rapporti stabili a tempo indeterminato;

d) prevedere infine una norma di particolare tutela per quanti abbiano ottenuto, su impugnazione, la trasformazione del rapporto precario in rapporto a tempo indeterminato e cioè che il rapporto così trasformato per via amministrativa o giudiziale sia poi tutelato dalla stabilità reale prevista dall’articolo I8 legge 300/1970 indipendentemente dai livelli occupazionali e quindi anche quando l’azienda occupi meno di 16 dipendenti.

Fin qui l’intervento del legislatore che a nostro avviso sarebbe davvero efficace se accompagnato da uno sforzo organizzativo delle organizzazioni sindacali o anche di altre organizzazioni attive nel sociale: sforzo che dovrebbe tradursi nella creazione di numerosi sportelli di informazione per i lavoratori precari.

Crediamo che sarebbero davvero ben pochi i datori di lavoro che si azzarderebbero a stipulare contratti a termine o di lavoro somministrato in serie per esigenze produttive continuative, sapendo che in ogni momento antagonisti sociali potrebbero prendere conoscenza della situazione e non sola sensibilizzare il lavoratore ad agire, ma agire essi stessi.

Per quanto riguarda poi la sottotipologia che abbiamo chiamato a2), di rapporti precari caratterizzati dal fatto di non essere tecnicamente rapporti di lavoro subordinato, ma rapporti di lavoro autonomo, il discorso è in parte, ma solo in parte, lo stesso, perché certamente anche qui la conoscenza da parte di chiunque della sussistenza del rapporto, nonché l’ampliamento della legittimazione all’impugnazione, sarebbero preziosi, ma non si può negare che è auspicabile, forse necessario, e anzi storicamente ormai dovuto, un più impegnativo sforzo giuridico, agendo direttamente sulla fattispecie astratta con la revisione dell’ articolo 2094 del codice civile (e per altro verso, dall’articolo 2222 c.c.

Cerchiamo di rendere più chiaro il concetto: oggi è già possibile agire per la cosiddetta “riqualificazione” del rapporto da rapporto di lavoro autonomo o parasubordinato in rapporto di lavoro subordinato, il che significa trasformazione in rapporto a tempo indeterminato, e certamente sarebbe meglio te la legittimazione alla riqualificazione fosse ampliata e che questi rapporti fossero da tutti conoscibili (già oggi comunque le collaborazioni con o senza oggetto sono censite dai centri per l’impiego).

Ma questo può non bastare perché obiettivamente il problema della “riqualificazione”, ossia di quando il rapporto sia effettivamente da qualificare come subordinato, non è stato ancora risolto in giurisprudenza.

È noto che due teorie si contendono il campo: quella della “etero-direzione” per cui è subordinato quel rapporto di lavoro in cui il lavoratore sia soggetto alle direttive capillari e agli assidui controlli del datore di lavoro o dei suoi preposti, e quella della cosiddetta “doppia alienità”, per la quale è subordinato quel lavoro che si svolga con erogazione della forza lavoro nell’organizzazione aziendale e di impresa predisposta e governata dal datore di lavoro, e i cui risultati utili appartengono direttamente, a titolo originario, a quest’ultimo.

La teoria dell’etero-direzione” è palesemente anacronistica riflettendo la fenomenologia della prestazione lavorativa quando questa era essenzialmente manuale e avveniva secondo il modello fordista ed è pertanto sicuramente incapace di distinguere i due grandi prototipi del lavoro autonomo e del lavoro subordinato nella sconfinata varietà delle prestazioni lavorative di tipo intellettuale dell’economia dei servizi, nella quale l’idea stessa di un’etero-direzione in senso forte sarebbe controproducente dal punto di vista aziendale. Addirittura la teoria della “eterodirezione” non è mai riuscita a spiegare perché figure di lavoratori che sono sicuramente subordinati, in quanto l’articolo 2095 cc. li definisce positivamente tali, come i dirigenti e i quadri, possano esserlo davvero stando ai criteri della teoria stessa, visto che il proprium che li distingue dagli impiegati e dagli operai è esattamente l’autonomia con cui esplicano la prestazione, rispondendo a direttive non specifiche ma solo di massima.

Ciò non toglie che dagli anni Ottanta in poi il ritardo concettuale della giurisprudenza, in parte ancora maggioritaria legata alla teoria della “etero-direzione”, sia stata sfruttata dai datori di lavoro italiani (e - spiace dirlo - dai loro consulenti legali) cori il massimo del cinismo: a tutti i giovani dotati di un minimo di scolarità e che venissero adibiti a mansioni non manuali venivano offerte solo e soltanto collaborazioni coordinate e continuative (con l’unica avvertenza di non prevedere orari fissi di entrata e di uscita dal lavoro), il che significava poi sotto-salario, mancanza di garanzie nello svolgimento delle mansioni, mancanza di garanzie in caso di malattia e maternità, niente ferie, nessuna mensilità aggiuntiva, nessuna indennità di fine rapporto, contributi previdenziali bassissimi e licenziabilità ad nutum, ossia il massimo della precarietà.

il confine tra questo deserto di tutele e l’oasi del lavoro subordinato era dato, per quanto possa sembrare incredibile, da nuance, cioè da sfumature nell’intensità del potete direttivo e tutti comprendono come una distinzione giuridica basata su nuance costituisca solo un artifizio per ulteriori fini speculativi.

È stato merito - l’unico che riteniamo di dover riconoscere - del decreto legislativo 276/2003 di aver molto limitato l’utilizzabilità delle collaborazioni coordinate e continuative (che però possono continuare ad avere corso senza limiti nel settore del lavoro pubblico), introducendo negli articoli 61 ss. il loro divieto se il rapporto non abbia quale oggetto la realizzazione di un progetto.

Ovviamente il problema si è cosi solo spostato e non è stato risolto e anche sui contratti a progetto si è ben presto notato, dalle esperienze giudiziarie, come i datori di lavoro sistematicamente violassero la legge. È accaduto inoltre che i fautori di questo tipo di precariato - quello cioè che privilegia rapporti contrattuali formalmente autonomi - abbiano compiuto in maggioranza il salto finale nel lavoro autonomo “puro’, cioè nella prestazione professionale con partita iva, in cui il lavoratore è mascherato da libero professionista, però per lo più con un solo cliente! In una parola, tramontate le collaborazioni coordinate e continuative normali, trovate pericolose quelle a progetto, ora ci si affida alle partite IVA.

Dilagano, ad esempio presso le cliniche private, paramedici e terapisti “a partita IVA”, presso le organizzazioni commerciali di promozione di prodotti tecnologici altrettanti consulenti “a partita IVA” e così via.

Allora, per tirare le fila del discorso, crediamo di dover dire che qui il problema va affrontato anche con una duplice modifica del codice civile: anzitutto dell’articolo 2094 nel senso di accogliere espressamente la teoria della “doppia alienità” così definendo, ad esempio, il lavoratore come il soggetto che si obblighi - così potrebbe recitare la nuova norma – “mediante retribuzione a prestare la propria attività intéllettuale o manuale in via continuativa all’impresa o diversa attività organizzata dal datore di lavoro, con destinazione esclusiva a quest’ultimo di risultato della prestazione lavorativa”.

Per altro verso, l’articolo 2222 c.c. sul contratto d’opera, ovvero il contratto di lavoro autonomo, dovrebbe essere arricchito dalla previsione della disponibilità da parte del lavoratore autonomo di una propria organizzazione di mezzi e della sussistenza di un suo autonomo progetto di attività. L’espressione attuale “con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente” potrebbe essere ad esempio così integrata: “con lavoro prevalentemente proprio e propria organizzazione di mezzi e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente ma in attuazione di un proprio progetto di utilità”.

In questo modo verrebbe cancellato nella prima norma l’anacronistico richiamo all’eterodirezione in senso forte, inadeguata per prestazioni lavorative che sono ormai in massima parte di tipo intellettuale, e nella seconda evitato lo scandalo di ritenere indice di autonomia, a ben vedere, proprio la nuda offerta di prestazione lavorativa, senza mezzi e progetto propri.

Invero, è stato - se ci si consente - una sorta di miracolo dei giuristi borghesi riuscire a trasformare il sottoproletariato intellettuale in un ceto, apparentemente contegnoso, di lavoratori autonomi.

 

Proposte contro le finte esternalizzazioni

Quanto all’altra tipologia di precariato. quella, cioè in cui è precario non il rapporto contrattuale di lavoro ma anzitutto l’entità aziendale alla quale esso fa capo, il problema è quello, non meno grave, di ricostituire giuridicamente quella responsabilità del datore di lavoro effettivo, per tale intendendosi chi effettivamente utilizza le prestazioni di lavoro, responsabilità che con i vari tipi e modelli di esternalizzazione è stata recisa e sostanzialmente evasa.

Il primo dei molti problemi riguarda gli appalti: il tentativo, che non è esagerato definire criminogeno, del decreto legislativo 276/2003 di dare libero corso agli appalti di mera manodopera, giustificando questo ritorno al caporalato come espressione della moderna economia immateriale, non è completamente passato in giurisprudenza, ma certamente la sua forma più comune e accettata - e cioè l’appaltò di servizi mediante forme cooperative per lo più create su induzione dello stesso committente - richiede un intervento urgente che anzitutto riporti i soci lavoratori agli standard di tutela dei lavoratovi normali da cui ormai si sono molto allontanati, in materia di retribuzione, di orario, di dignità mansionistica, di stabilità del lavoro e della possibilità stessa di far valere in giudizio le loro pretese.

La possibilità di cooperative di appalti che non prevedono null’altro che l’erogazione di manodopera deve essere strettamente limitata come giù avveniva una volta, a casi specifici, ferma l’equivalenza degli standard economico-normativi.

Deve poi esser rivista e riconfermata la filiera delle responsabilità che non deve interrompersi al primo o al secondo livello nella scala degli appalti e dei subappalti, ma effettivamente estendersi dal primo all’ultimo gradino.

Nel caso delle esternalizzazioni di rami d’azienda, affidati a società collegate ovvero a società cooperative create dai lavoratori su spinta dell’azienda stessa, l’affidamento dell’appalto deve comportare il mantenimento dei diritti già acquisiti, compresi gli standard normativi in tema ad esempio di stabilità, nonché la clausola di “ritorno” nell’impresa madre in caso di cessazione dell’attività o di insolvenza dell’appaltatore.

In larga parte da rivedere, nonostante i molti interventi normativi anche recenti, è la disciplina dei trasferimenti d’azienda, che nell’esperienza si è rivelata la classica lama a doppio taglio: se da un lato, infatti, assicura la continuità del rapporto lavorativo dei lavoratori adibiti al ramo d’azienda trasferito, dall’altro proprio questo meccanismo automatico viene sfruttato per liberarsi delle parti dell’azienda e dei lavoratori considerati meno produttivi e più invisi, con sacrificio, spesso, dei trattamènti contrattuali collettivi esistenti presso l’azienda madre. Per questa strada, invero, anche lavoratori per così dire “stabilissimi” perché occupati in complessi produttivi di grandi dimensioni, si sono ritrovati precari perché trasferiti a una società di incerta origine e di incerto destino e ora più o meno misteriosamente divenuta titolare del reparto produttivo al quale essi erano addetti. Non sarebbe però difficile introdurre una serie, limitata ma efficiente, di clausole di salvaguardia. Infine, occorrerebbe metter mano, superando una storica arretratezza del nostro ordinamento, al problema del lavoro nei gruppi di impresa (individuati ai sensi dell’articolo 2359 c.c. e del decreto legislativo 2 aprile 2002 n. 74), la cui giuridica irrilevanza (ma ormai, va detto, solo nel diritto del lavoro e non più in quello commerciale) è stata anch’essa sfruttata con notevole cinismo a scopo anzitutto di evasione delle tutele di stabilità del posto di lavoro previste dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori fino al punto, per intendersi, che ogni commercialista di provincia ha appreso e praticato la tecnica di conformare l’azienda in almeno due società, una produttiva e una di servizi amministrativi e commerciali entrambe sotto la soglia occupazionale “pericolosa”.

Basterebbe in proposito assumere legislativamente il punito di vista più semplice e aderente alla realtà e cioè che l’impresa è una attività indipendentemente dal numero dei soggetti che la gestiscono e il rapporto di lavoro inerisce appunto all’impresa, sicché nel caso di gruppi di impresa tutti i soggetti imprenditoriali devono considerarsi co-datori di lavoro.

 

Precariato e ammortizzatori: un rapporto da ripensare .

Quale scenario si avrebbe dunque se tutti i suggerimenti che abbiamo indicato divenissero legge?

Uno scenario sicuramente di molta maggior tutela, in cui i rapporti precari in senso formale e sostanziale sarebbero ricondotti al loro tasso naturale, intorno al 10 per cento, e in cui gli imprenditori tornerebbero a essere responsabili della loro attività di impresa.

Peraltro, non è difficile immaginare l’obiezione: ossia che sicuramente il precariato costituisce un fenomeno deteriore, ma in qualche mode comprensibile e giustificato dall’eccesso di “blindatura”, per così dire, del rapporto subordinato a tempo indeterminato, almeno nelle aziende con più di 15 dipendenti.

Non vi è, si può dire, dibattito sul tema del precariato alla fine del quale, dalla parte imprenditoriale, non faccia capolino una sorta di proposta di scambio così sintetizzabile: a fronte di una rinunzia da parte sindacale all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ben volentieri i datori di lavoro rinunzierebbero al ciarpame dei contratti precari.

Occorre allora dire alcune parole chiare su questo tema, anche per dissipare i voluti equivoci sparsi da ben noti divulgatori di proposte di riforma “razionali”. La prima cosa è chiarire che licenziamento per motivo soggettivo e licenziamento per motivo oggettivo sono due fatti-specie che reclamano soluzioni di politica del diritto diversissime e che, per così dire, appartengono a due capitoli diverso del diritto del lavaro: il primo al tema dei rapporti di potere tra le parti del contratto individuale e il secondo invece al tema, del tutto diverso, degli ammortizzatori sociali.

Il licenziamento per giusta causa o motivo soggettivo nel nostro ordinamento altro non è che una punizione inflitta al lavoratore che abbia commesso gravi colpe o inadempimenti: pertanto se nell’inadempimento la colpa non esiste è semplicemente ovvio che non debba esserci punizione e dunque clic il rapporto di lavoro debba continuare.

Per quale motivo, basta chiedersi, Tizio, licenziato in tronco perché accusato di furto, dovrebbe ricevere solo un modesto indennizzo economico e non essere reintegrato se si scopre che il ladro è un altro oppure che si trattava non di furto ma di smarrimento?

Per i licenziamenti soggettivi è dunque razionale non eliminare l’obbligo di reintegra, ma estenderlo a tutti i lavoratori, indipendentemente dal livello occupazionale delle imprese. Per i licenziamenti per motivo oggettivo va detto anzitutto che ormai un’interpretazione neoliberistica stravolgente dell’articolo 3 della legge 604/1966 (come dell’articolo 24 della legge 23/1991) li ha di fatto liberalizzati. Ma questa interpretazione è tanto ingiusta quanto erronea e occorre ritornare sul tema per definire un punto di equilibrio normativo.

Non si tratta però di imporre al datore dì lavoro di mantenere in forze il lavoratore se le sue difficoltà produttive o di mercato non superano un certo limite di gravità (perché questo sarebbe un controllo di merito scarsamente e difficilmente compatibile con la libertà di impresa), ma di obbligarlo, questo sì, a utilizzare prima del licenziamento ogni ammortizzatore sociale che l’ordinamento mette a disposizione.

Questo, peraltro, non significa eliminazione di qualsiasi controllo giudiziario, perché rimarrebbe il controllo di legittimità, ossia della sussistenza di una situazione-di difficoltà economico-organizzativa che superi il contrapposto interesse del lavoratore al mantenimento del posto: se questa difficoltà non vi è affatto, allora manca la base di legittimità del licenziamento che risulterà finalizzato a ragioni speculative o discriminatorie. Ma se la base vi è, allora la difesa del lavoratore risiederà nella sussistenza de! limite esterno che abbiamo indicato.

Per quanto l’argomento possa sembrare lontano, si vede bene che il tema degli ammortizzatori sociali è invece molto vicino a quello del precariato. Ma in un senso, si badi bene, del tutto diverso da quello predicato da certe affermazioni prapagandistiche che vorrebbero lasciare intatto l’abuso e il dilagare dei rapporti precari e curarne le conseguenze con l’attribuzione ai precari (che nove volte su dieci dovrebbero semplicemente esser riconosciuti già stabili) di un qualche sussidio di secondaria importanza.

Il senso vero, invece, è che, dopo la bonifica del precariato e la riconduzione della massima parte dei rapporti di lavoro precari a rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato, si apre il problema della gestione di una loro possibile crisi per ragioni economico-organizzative attraverso gli ammortizzatori sociali, dei quali, peraltro, andrebbe recuperata la. Dimensione universalistica. Non è possibile né giusto, detto in estrema sintesi, che all’ operaio dell’impresa decotta installata nel Centro-Sud si riconoscano ancora tre anni di cassa integrazione straordinaria e quattro anni di indennità di mobilità mentre alla commessa del negozio che ha chiuso i battenti solo pochi mesi di indennità di disoccupazione ordinaria.

Occorre pensare invece a una dote standard di ammortizzatori sociali, ad esempio quattro anni di indennità riconosciuta a ogni lavoratore e utilizzabile a seconda delle diverse situazioni produttive o come trattamento di sospensione dal lavoro in attesa di una ripresa aziendale o come risarcimento della perdita del lavoro, eventualmente pagabili in unica soluzione in caso di inizio da parte dell’interessato di attività autonome.

Sono tematiche che si possono qui solo accennare ma, ripetiamo, tutt’altro che estranee al programma politico-giuridico di superamento del precariato proprio perché fornirebbero al programma realizzato gli strumenti per la sua successiva gestione.

 

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Piergiovanni Alleva

Progetto di Disegno di Legge sul lavoro (2007)

 

Art. 1) Unificazione dei contratti di lavoro

1. Gli artt. da 61 a 69 e l’art. 86 del Dlgs 10 Settembre 2003 n. 276 sono abrogati e ai rapporti

discendenti da contratti di collaborazione coordinata e continuativa in corso di esecuzione all’atto

dell’entrata in vigore della presente legge, sia riconducibili che non riconducibili ad uno o più

progetti specifici o programmi di lavoro, si applicano le disposizioni di cui ai artt. 2094 e 2095 c.c.,

come modificati dall’art. 2 della presente legge nonché le altre disposizioni contenute nel libro 5°,

titolo 2°, capo 1°, sez. II e III cod. civ., e le leggi speciali in materia di lavoro.

2. Ai rapporti di collaborazione riconducibili ad uno o più progetti specifici o programmi di lavoro

si applicano altresì, ricorrendone i requisiti sostanziali, le norme di cui all’art. 5 della presente

legge.

3. Per i titolari di rapporti di collaborazione continuata e continuativa in corso di esecuzione al

momento dell’entrata in vigore della presente legge sono indette apposite procedure concorsuali

assuntive.

Art. 2) Nuovo testo degli artt. 2094 e 2095 c.c.

Gli arti. 2094 e 2095 c.c. sono sostituiti dalle seguenti disposizioni:

“art. 2094 - Contratto di lavoro

1. Con il contratto di lavoro, che si reputa a tempo indeterminato salve le eccezioni

legislativamente previste, il lavoratore si obbliga, mediante retribuzione, a prestare la propria

attività intellettuale o manuale in via continuativa all’impresa o diversa attività organizzata da

altri, con destinazione esclusiva del risultato al datore di lavoro.

2. Il contratto di lavoro deve prevedere mansioni, categoria, qualifica e trattamento economico e

normativo da attribuire al lavoratore.

3. L’eventuale esclusione, per accordo tra le parti espresso o per fatti concludenti, dell’esercizio da

parte del datore dei poteri di cui agli artt. 2103, primo e secondo periodo, 2104, comma 2, 2106,

nonché dell’applicazione degli arti. 2100, 2101,2102,2108 c.c. e dell’art. 7 della legge 20 maggio

1970 n. 300, non comporta l’esclusione dei prestatori di lavoro interessati dalla fruizione delle

discipline generali di tutela del lavoro previsti dal codice civile e dalle leggi speciali, né può dar

luogo a trattamenti economico normativi inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi applicati

agli altri lavoratori dipendenti della medesima impresa.

4. L’accordo di cui al comma 3, qualora intervenga fra i contraenti di un contratto di lavoro in

corso di esecuzione, non costituisce novazione del rapporto di lavoro né può comportare per il

lavoratore peggioramenti di trattamento economico-normativo.

“art. 2094 - bis - Diritti di informazione.

1. I datori di lavoro informano semestralmente le rappresentanze sindacali aziendali o le r.s.u., ove

costituite, sul numero, le caratteristiche professionali e le modalità delle prestazioni lavorative dei

lavoratori che prestano la loro attività nelle rispettive aziende.

“art. 2095 - Categorie dei prestatori di lavoro

1. I prestatori d lavoro di cui al comma 1 dell’art. 2094 c.c. si distinguono in dirigenti, quadri,

impiegati e operai.”

Art. 3) Contribuzione previdenziale

1. La contribuzione dovuta per i lavoratori che prestino la loro collaborazione secondo le modalità

di cui al comma 3 dell’art. 2094, è uguagliata a quella già prevista dalle norme vigenti per gli altri

lavoratori che prestino la loro opera nell’impresa salvo quanto previsto dal comma seguente.

Con riguardo ad ognuno dei lavoratori già titolari di rapporti di collaborazione coordinata e

continuativa, riconducibili o non riconducibili ad uno o più progetti specifici o programmi di

lavoro, e ai quali sia stata applicata la disposizione dell’art. 1, è concesso al datore di lavoro uno

sgravio contributivo forfettario di Euro 200 mensili per il primo anno e di Euro 100 mensili per

l’anno successivo.

Art. 4) Modifica dell’art. 2549 c.c.

L’art. 2549 del codice civile è sostituito dal seguente:

“art. 2549 – Nozione di associazione in partecipazione

Con il contratto di associazione in partecipazione l’associante attribuisce all’associato una

partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un

determinato apporto. Detto apporto in nessun caso può essere costituito da una prestazione di

lavoro, di qualsiasi natura.

Qualora l’apporto dell’associato si concreti nella prestazione di un’attività lavorativa, in

violazione di quanto disposto dal presente articolo, il contratto di associazione in partecipazione è

nullo ed in sua vece si considera stipulato fra le parti un contratto di lavoro a tempo

indeterminato”. L’art. 86 del Dlgs 10 Settembre 2003 n. 276 è abrogato.

Art. 5) Apposizione del termine al contratto di lavoro

1. Il contratto di lavoro di cui all’art. 2094 comma 1° cod. civ. è stipulato di regola a tempo

indeterminato.

2. E’ tuttavia consentita l’apposizione di un termine, che non può comunque superare i tre anni,

comprese eventuali proroghe, alla durata del contratto di lavoro:

a) a fronte di oggettive e temporanee ragioni di carattere tecnico organizzativo o produttivo.

b) quando l’assunzione abbia luogo per sostituire lavoratori assenti per i quali sussiste il diritto

alla conservazione del rapporto di lavoro.

c) per l’assunzione di dirigenti, amministrativi e tecnici, purché il contratto non abbia durata

superiore a cinque anni. I dirigenti assunti ai sensi della presente lettera possono recedere dal

contratto a termine, decorso un biennio, ed osservata la disposizione dell’art. 2118.

d) nelle altre ipotesi di attività temporanee individuate nei contratti collettivi nazionali di lavoro

stipulati unitariamente dai sindacati comparativamente più rappresentativi in base alla loro

consistenza organizzativa e ai risultati delle elezioni di rappresentanze aziendali unitarie.

In relazione a tali ipotesi i contratti collettivi stabiliscono la percentuale massima dei lavoratori

che possono essere assunti con contratto a termine rispetto al numero dei dipendenti a tempo

indeterminato. Le organizzazioni sindacali firmatarie e le rappresentanze sindacali unitarie hanno

diritto di richiedere in ogni momento la comunicazione di tali dati e di controllarne la veridicità.

3. L’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta da atto scritto, nel quale deve essere

specificate in concreto le cause giustificative, nonché il nesso di causalità intercorrente con

l’apposizione del termine, ovvero, nel caso della lettera b) del comma 2° il nome del lavoratore

sostituito e la causale della sua sostituzione.

Copia del contratto scritto è consegnata al lavoratore dal datore di lavoro prima del giorno di

inizio dell’attività lavorativa.

4. In tutti i casi di legittima apposizione del termine è riconosciuto al lavoratore, il quale non sia

cessato dal rapporto per dimissioni o licenziamento per giusta causa, diritto di precedenza ove il

datore di lavoro effettui entro un anno dalla scadenza nuove assunzioni nella qualifica di

appartenenza del lavoratore. In caso di nuove assunzioni a termine il contratto di lavoro si

trasforma a tempo indeterminato quando nel quinquennio precedente il lavoratore abbia già

lavorato per il medesimo datore di lavoro per almeno 18 mesi, anche non continuativi. L’eventuale

violazione da parte del datore di lavoro del diritto di precedenza, non impedisce il perfezionamento

del requisito.

5. Il contratto di lavoro a termine si trasforma altresì in contratto a tempo indeterminato quando

l’esecuzione del rapporto continui per oltre cinque giorni lavorativi oltre la scadenza del termine,

salva l’ipotesi di proroga espressa, oggettivamente giustificata da ragioni contingenti ed

imprevedibili, ammesse tuttavia, per una sola volta e per una durata non superiore a quella

iniziale, e per le medesime mansioni.

6. L’onere della prova della obiettiva esistenza delle ragioni giustificative della apposizione del

termine e del loro carattere di temporaneità, nonché dei requisiti di temporanea proroga del

termine stesso incombe al datore di lavoro. In caso di suo mancato assolvimento il contratto di

considera a tempo indeterminato sin dall’inizio.

7. Il prestatore di lavoro con contratto a tempo determinato ha diritto a tutti i trattamenti

economico normativi di cui fruiscono nell’impresa i lavoratori a tempo indeterminato, nonché a

ricevere una formazione sufficiente ed adeguata alle caratteristiche delle mansioni oggetto del

contratto, anche al fine di prevenire rischi specifici connessi alla esecuzione del lavoro.

8. Ai fini dell’accertamento dell’organico aziendale richiesto per la applicabilità di norme di legge o

di contratto collettivo, i rapporti dei lavoratori a tempo determinato si computano sommando le

ore da loro collettivamente lavorate nell’anno precedente e dividendo il loro numero per quello

dell’orario annuale previsto dalla disciplina collettiva di settore per un lavoratore a tempo pieno

ed indeterminato.

9. L’apposizione di un termine di durata ad un contratto di lavoro non è comunque ammessa per

la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero, o presso imprese che abbiano

proceduto a sospensione o riduzione di orario per il personale o abbiano nei 12 mesi precedenti

effettuato licenziamenti collettivi di lavoratori a tempo indeterminato della stessa qualifica. I

rapporti dei lavoratori assunti si considerano a tempo indeterminato, senza pregiudizio del diritto

dei lavoratori sospesi o licenziati di ottenere la reintegrazione nel posto e orario di lavoro.

10. Nel caso di inosservanza degli obblighi derivanti dai commi 3,4,7 e 9 del presente articolo il

datore di lavoro è punito con la sanzione amministrativa da Euro 500,00 a Euro 3.000,00 per ogni

lavoratore cui l’inosservanza si riferisce.

11. Le disposizioni di cui alla presente legge si applicano anche ai rapporti di lavoro a termine alle

dipendenze delle pubbliche amministrazioni, sempre che l’assunzione a termine del lavoratore sia

avvenuta previa procedura selettiva e di idoneità alle mansioni, la cui effettuazione è obbligatoria

a far tempo dall’entrata in vigore della presente legge. Il disposto dell’art. 36 secondo comma Dlgs

165/2001 è abrogato.

12. Il Dlgs 6 Settembre 2001 n. 368 è abrogato, ma i contratti individuali legittimamente stipulati

ed eseguiti nella sua vigenza restano salvi fino a scadenza. Restano comunque salvi le previsioni

dell’art. 8 legge 23 Luglio 1991 n. 223, e le specifiche normative riguardanti i contratti di

somministrazione temporanee e di apprendistato.

Art. 6) Somministrazione di lavoro

1. A far tempo dalla entrata in vigore della presente legge è vietata la conclusione di contratti di

somministrazione a tempo indeterminato.

2. La conclusione di contratti di somministrazione a tempo determinato resta consentita nelle

ipotesi che legittimano la conclusione di un contratto di lavoro a termine, ai sensi dell’art. 5 che

precede, e con l’osservanza degli altri disposti in esso contenuti, purché non sia intercorsa tra

lavoratore e datore di lavoro una previa intesa assuntiva, con ricorso solo formale all’intervento

dell’agenzia di somministrazione.

3. Per la durata della somministrazione i lavoratori svolgono la propria attività nell’interesse,

nonché sotto la direzione e controllo dell’utilizzatore. Restano salve altresì le previsioni degli artt.

23 e 24 del Dlgs 10 Settembre 2003 n. 276.

4. Qualora la somministrazione avvenga al dì fuori dei limiti e delle condizioni previsti ai commi

primo e secondo del presente articolo o dell’art. 21, comma 1, lettere a), b), c), d) ed e) del Dlgs 10

Settembre 2003 n. 276, il rapporto di lavoro si intende costituito a tempo indeterminato sin

dall’inizio della somministrazione con il soggetto utilizzato.

5. Sono abrogati i disposti di cui alla lettera b) primo comma dell’art. 4, ed i commi secondo, terzo,

quarto dell’art. 20, nonché l’art. 22 del Dlgs. 10 Settembre 2003, n. 276 ed ogni altra previsione

normativa riferibile alla somministrazione di lavoro a tempo indeterminato. Sono altresì abrogati

l’art. 27 e 28 della stessa legge.

Art. 7) Appalti di opere e di servizi

1. L’imprenditore che affidi appalti di opere o servizi per l’espletamento di attività inerenti al ciclo

produttivo dell’impresa, è tenuto in solido con l’appaltatore nei confronti dei dipendenti di questo

ultimo per l’adempimento di tutti gli obblighi derivanti dalle leggi di previdenza ed assistenza e

per la fruizione di trattamenti economici e normativi non inferiori a quelli spettanti ai dipendenti

del committente. La responsabilità del committente sussiste anche nei confronti dei dipendenti di

eventuali subappaltatori.

2. L’appalto è illegittimo, ed i lavoratori in esso impiegati sono considerati a tutti gli effetti

dipendenti dell’imprenditore committente, ove non vi sia da parte dell’appaltatore organizzazione

di mezzi propri ed assunzione del rischio d’impresa, o, trattandosi di appalto di servizi, questo

consista nella esecuzione di mere prestazioni di lavoro, ancorché organizzate e dirette

dall’appaltatore, eccettuati i casi di appalti di servizi per attività di alta specializzazione, non

inserite stabilmente nel ciclo produttivo dell’impresa e individuate da contratti nazionali di lavoro

sottoscritti unitariamente dai sindacati comparativamente più rappresentativi in base alla loro

consistenza organizzativa e ai risultati delle elezioni di rappresentanze sindacali unitarie.

3. Le previsioni dei commi che precedono si applicano anche quando l’appaltatore sia una società

cooperativa.

L’art. 29 del Dlgs. 10 Settembre 2003 è abrogato.

Art. 8) Modifiche dell’art. 2112 c.c. ed esternalizzazioni di reparti produttivi

I commi terzo, quinto e sesto dell’art. 2112 cc. già modificato dall’art. 32 D.lgs. 10 Settembre 2003

n. 276, sono così sostituiti:

a) Comma III°: “Il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti

dai contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendale vigenti alla data del trasferimento, che

restano acquisiti ai lavoratori anche dopo la scadenza dei contratti stessi, salvo che siano sostituiti

da altri contratti collettivi di maggior favore applicabili alla impresa del cessionario. L’effetto di

sostituzione si produce esclusivamente tra contratti collettivi dello stesso livello”.

b) Comma V°: “Ai fini e per gli effetti di cui al precedente articolo si intende per trasferimento

d’azienda qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusioni comporti il

mutamento nella titolarità di una attività economica organizzata con o senza scopo di lucro

preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità a prescindere

dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato ivi

compreso l’usufrutto o l’affitto di azienda. Le disposizioni del presente articolo si applicano altresì

al trasferimento di parte dell’azienda intesa come articolazione funzionalmente autonoma di

un’attività economica preesistente, come tale, al trasferimento”

c) Comma VI°: “Nel caso in cui l’alienante stipuli con l’acquirente un contratto di appalto la cui

esecuzione avviene utilizzando il ramo di azienda oggetto di cessione, è riconosciuto ai lavoratori,

il cui rapporto è stato trasferito all’acquirente appaltatore, il diritto ad essere riassunti alle

dipendenze dell’imprenditore cedente e committente in caso di cessazione dell’appalto, fermi, in

ogni caso, il mantenimento dei trattamenti anche individuali già acquisiti e l’applicazione dei

disposti dell’art. 7 della presente legge.”

Art. 9) Lavoro nei gruppi di imprese

1. Ai fini della determinazione dell’organico aziendale richiesto per l’applicabilità di norme di legge

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