Venerdì, 10 maggio 2024 - ore 15.57

C'era una volta il West? di Andrea Ermano

C'era una volta un mondo in cui l'Occidente distribuiva i ruoli di un gioco che ebbe il suo apice con la caduta dell'impero sovietico.

| Scritto da Redazione
C'era una volta il West? di Andrea Ermano

Era il gioco del soft power, cioè della "egemonia culturale", per dirla in termini gramsciani. L'altro gioco, quello dell'hard power era fatto di eserciti, armamenti e proliferazione nucleare a catenaccio: seguiva una logica terrorizzante, ma di sostanziale pareggio. Per esempio, la guerra del Vietnam: gli yankee ne uscirono sconfitti, ma non da ultimo nel soft power dei campus universitari. Poi ci fu, sull'altro versante, l'impennata dei missili balistici SS-20, tramite i quali Mosca tentò lo scacco matto. Senonché ci furono due leader socialdemocratici come Craxi e Schmidt che dispiegarono gli euro-missili, di molto inferiori sul piano balistico, ma vincenti su quello di una battaglia politica condotta dentro l'opinione pubblica anche di sinistra.

Alla fine l'Occidente vinse in quanto convinse. Respiravamo tutti americanismo a pieni polmoni, "noi" qui a ovest, ma anche "loro" a est. Il nostro mondo mostrava di poter garantire un maggiore benessere ai propri cittadini, e maggiori libertà. A Est invece la gente reputava la propria qualità di vita di gran lunga inferiore alla nostra, e i sentimenti antisovietici dilagavano. Nel finale di partita, le agitazioni degli operai polacchi e papa Wojtyla fecero il resto, mandando in pezzi alcuni fondamenti della legittimazione ideologica orientale.

Fu così che, intorno al settantaduesimo anniversario dalla Rivoluzione d'Ottobre, mentre si concludeva il duecentesimo anno dalla Rivoluzione Francese, a Berlino scoppiò una, per altro pacifica, rivoluzione anti-sovietica. Quell'autunno del 1989 sopraggiunse dopo l'apertura estiva delle frontiere ungheresi verso l'Austria, con fuga a Ovest di masse di turisti tedeschi-orientali. Da allora nelle città della DDR la pressione migratoria crebbe insieme alla protesta. Infine, le autorità comuniste decretarono la libera circolazione tra Berlino Est e Berlino Ovest. Era il 9 novembre 1989 e, quando in città si sparse la notizia, furono le moltitudini a scavalcare il Muro.

In un'atmosfera festosa, di kermesse, al ritmo della "lambada", il Muro di Berlino venne prima sbrecciato dalla folla in transito verso ovest, poi ulteriormente sbriciolato dai collezionisti di souvenir, infine demolito con i caterpillar. Cadevano in quegli stessi giorni i regimi bulgaro e cecoslovacco. In Romania un mese dopo fu deposto e giustiziato Ceausescu. Solidarnosc era ormai al governo in Polonia. L'indipendenza dei paesi satellite innescò un effetto domino all'interno della stessa Unione Sovietica dove varie nazioni uscirono una dopo l'altra dal grande stato federale fondato nel 1922 da Vladimir Ilič Uljanov detto Lenin.

L'ultimo segretario del PCUS, il Nobel per la pace Michail Gorbaciov, rassegna le dimissioni il 25 dicembre del 1991 predisponendo così lo scioglimento anche formale dell'URSS, dopo che la Russia, la Bielorussia e l'Ucraina ne avevano concordato la dissociazione di fatto.

Oggi, a ventitré anni da quegli eventi epocali e drammatici, la crisi in Ucraina evidenzia una certa misura di consunzione dell'appeal occidentale, perché in quel lontano Paese non mancano i buoni amici degli USA e dell'Europa, ma anche gli altri sono numerosi, coloro che verso di noi nutrono delusione. L'odio anti-russo non dilaga più. Il barometro del soft power indica scetticismo sull'Occidente. Gli anni delle vacche grasse sono finiti.

 

C'era una volta la mega-fede romantica nell’Eldorado. Secondo questa fede la ricchezza delle nazioni era prodotta dal semplice… desiderio. Inteso questo come una sete infinita d'infinito. Che l’individuo annegava nella pubblica virtù del consumo. E dal consumo sgorgava la ricchezza delle nazioni. E l'individuo vi soddisfaceva non solo i suoi infiniti desideri e i suoi desideri d'infinito, ma "concorreva" vieppiù all’armonia prestabilita del mercato, libero di autoregolarsi. Una promessa di paradiso bellissimo, eterno e beato.

E beato chi ci crede.

La maggioranza del popolo ucraino ci crede? E le genti di Crimea? Ce lo domandiamo tutti, in questi giorni. Perché, senza fede mega-romantica nell’Eldorado, a quei popoli là fuori le nostre libertà potrebbero apparire scomode e ingombranti. Tanto più che la piena occupazione oblomoviana è scomparsa, sostituita da nulla, com'era ovvio dati i ritmi della rivoluzione tecnologica e della concorrenza globale.

Qui giace, dunque, la Fine della storia, preconizzata dal pur geniale Fukuyama. Gli entusiasmi di allora lasciano oggi spazio al tarlo del dubbio sull'Occidente. Un tarlo che appartiene al common sense d’Asia, Africa e America latina, da secoli. Noi forse pensavamo di averlo ucciso, ma il fantasma è stato riavvistato ai confini del mondo slavo e si avvicina a quelli dell'Europa latina.

Tutto somiglia molto a una seria crisi d'identità, che parte da Sebastopoli (Crimea) e c'interpella.

A proposito di "Europa latina" è interessante la suggestione proposta da Stefano Carluccio su Critica Sociale all'indomani della visita di Putin in Vaticano: "La storia doveva essere finita da un pezzo, dopo il comunismo", scrive Carluccio. "In realtà è finita solo la politica. Almeno è finita nella cultura progressista anglosassone, non è finita nella cultura (perdente per ora) latina". In filigrana intuiamo qui la tematica dell'Empire latin che Giorgio Agamben ha lanciato un anno fa riprendendo la posizioni espresse nel 1947 da Alexandre Kojève.

Posto descrittivamente che la Storia viaggia, di fatto, in direzione di sistemi politici sovrannazionali sempre più vasti ("imperi"), Agamben sunteggia così l'argomentazione di Kojève: «Gli imperi – come quelli che egli vedeva già formati davanti ai suoi occhi, l'impero anglosassone (Stati Uniti e Inghilterra) e quello sovietico – dovevano essere "unità politiche transnazionali, ma formate da nazioni apparentate". Per questo, egli proponeva alla Francia di porsi alla testa di un "impero latino", che avrebbe unito economicamente e politicamente le tre grandi nazioni latine (insieme alla Francia, la Spagna e l'Italia), in accordo con la Chiesa cattolica».

Su questa base, l’Impero latino dovrebbe proiettarsi decisamente sul Mediterraneo, verso sud e verso est.

Quanto alla Germania protestante, Kojève prevedeva che presto sarebbe ridiventata la nazione più forte d'Europa, attratta inesorabilmente verso le forme dell'impero anglosassone. In tale prospettiva il mondo latino si sarebbe ridotto a un corpo più o meno estraneo, periferico, satellitare.

Insomma, se l'ultimo Agamben aveva individuato nel ruolo storico complessivo della Chiesa di Roma un punto archimedeo su cui far leva per affrontare il grande stato d'eccezione globale prossimo venturo, quest'idea agambiana ha trovato ora la sua dimora politica nell'Impero latino di Kojève. Ed è muovendo da qui che Carluccio ricomputa sia l'alleanza Cremlino-Vaticano contro la guerra in Siria, sia il nuovo ruolo geopolitico cui tende la Federazione russa, a partire dallo scacchiere mediorientale (laddove è allora abbastanza logico che l'accesso ai "mari caldi", e quindi la Crimea con Sebastopoli, rivesta per Mosca un ruolo chiave).

Dopodiché, tanto per non farci mancar niente, vediamo anche una risposta ad Agamben proveniente dalla Germania: "Intendiamoci bene", premette Peter Sloterdijk nelle sue recenti Considerazioni di un non più impolitico: "Io vedo in Giorgio Agamben un amico cui la cultura intellettuale d'Europa negli ultimi decenni deve molto, anche se lui stesso al momento non mi pare sulla strada giusta con il suo fatuo alludere a una secessione latina nel Mediterraneo".

Sloterdijk contrappone all'Impero latino di Kojève L'editto di Caracalla di Regis Debray. In questo Discorso per gli Stati Uniti d'Occidente pubblicato nel 2002 si avanza l'ipotesi di procedere nelle relazioni transatlantiche analogamente a quell'editto imperiale che nel 212 d.C. attribuì a tutti gli uomini liberi dell'impero la cittadinanza romana. Tra il serio e il faceto, Debray propone dunque di estendere la cittadinanza americana agli europei e quella europea agli americani, con l'effetto di generare "un'unità politica reale tra l'Europa e gli USA". In futuro il Presidente USA sarebbe anche Presidente degli europei e un dì, magari, lui stesso un europeo…

Ironie socratiche a parte, ecco una bella serie di questioni tutte ad amplissimo orizzonte, per non dire visionarie, che però constatiamo anche rimbalzare qua e là, sulla sfera geopolitica, e che proprio perciò andrebbero approfondite magna cum cura.

Ma qui ci si ferma, care compagne e cari compagni, ché anche per oggi abbiamo sudato abbastanza.

 

Fonte: L'AVVENIRE DEI LAVORATORI

La più antica testata della sinistra italiana, www.avvenirelavoratori.eu

Organo della F.S.I.S., organizzazione socialista italiana all'estero fondata nel 1894

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Direttore: Andrea Ermano

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