Giovedì, 25 aprile 2024 - ore 04.13

EDITORIALE. Rottamazioni sospese e parallelismi azzardati

Il profilo dell’uomo politico, tutt’altro che altero ma non esattamente piacione, non si è mai fatto mancare niente per allargare la platea dei contras

| Scritto da Redazione
EDITORIALE. Rottamazioni sospese e parallelismi azzardati

Solo qualche mese fa, in omaggio alla non commendevole abitudine di simpatizzare per il vincitore e di sputacchiare gli sconfitti o gli spiazzati, sentiments e rumors, il “Senatore”, lo davano irrimediabilmente estromesso dai “giochi” della politica locale. E confinato nella “ridotta” del ruolo parlamentare. Ovviamente, pro-tempore; essendo sottinteso che, per i futuri scenari, avrebbe operato il fattore R (rottamazione). Insomma, con un rimando all’impietoso profilo (di Flaiano) cucito sull’ottuagenario e malmesso poeta Ungaretti, il Mazarino nostrano (nella definizione della stampa amica) si sarebbe potuto definire “il più grande senatore…morente” (ma solo politicamente, s’intende).

I pretendenti al ruolo di leader e al seggio, che, per inciso, sparirà in conseguenza della riforma istituzionale (in cui l’interessato, come vedremo, ha avuto un ruolo decisivo) prudentemente non si scoprivano; ma il senso era inequivocabile. D’altro lato, il filotto “primarie” (candidature al Parlamento, vertice del PD, Comune Capoluogo), associato, per di più, allo stellone declinante di Bersani, di cui il Senatore non ha mai fatto mistero di essere un convinto sostenitore, avrebbe azionato, de facto, le “porte girevoli”. Con cui, da qualche tempo, si regolano, conformisticamente (a forsennati colpi di zaping sulla ruota vincente), i conti e le carriere all’interno del PD.

Ma, a prescindere da questi relativamente nobili propositi e riposizionamenti all’interno dell’ establishment, non più tardi di due mesi fa, era apparsa evidente (per quanto lo possano essere i “suggerimenti” affidati alla stampa) la determinazione, diffusa nel composito entourage degli antipatizzanti, di archiviare, con un taglio netto ed appena possibile, il ciclo Pizzetti.

In tale coté confluiscono: gli aparatcik post-comunisti della generazione precedente giunti da tempo a fine corsa (ma, come la Fracci, disposti a morire solo sulle tavole del palcoscenico); quelli coevi al Senatore (ma delusi e frustrati da carriere, ingenerosamente secondo gli interessati, meno scintillanti); i naufraghi del disastro delle elezioni comunali del 2009 certissimi di qualche suo tenebroso e determinante sabotaggio (ma non di meno in attesa di quiescenza e/o di nuovi ingaggi); i viandanti sulla Via di Damasco, che, avendo lì scoperto il loro “salvatore” (diverso da quello del Senatore) si apprestavano cristianamente ad attivare lo spoil system.

Oddio, il profilo dell’uomo politico, tutt’altro che altero ma non esattamente piacione, non si è mai fatto mancare niente per allargare la platea dei contras.

Soprattutto, come se il PD fosse un agglomerato di pensiero politico e di regole di comportamento fortemente coeso (sic!), veniva (viene ancora?) rimproverato a Pizzetti una certa qual propensione ad agire a prescindere dal “partito”.

Indizi e prove? Da almeno un decennio cerca candidati-sindaco “fuori”; fermo restando che, quando così si acconciano loro (i competitors), l’espressione della cosiddetta società civile più che tale assume le sembianze del cuculo. Leggere: l’OPA ostile con cui l’azionista (cattolico) ha incassato posta e banco, senza colpo ferire. Se si eccettua l’impiccio (sapientemente dall’interessato piegato in spottone) delle primarie, che l’hanno obbligato a confrontarsi (assente ingiustificato il PD) con la sinistra minoritaria. Che, se non ci fosse stata, si sarebbe dovuta inventare (per la dignità del partito egemone).

Per non parlare di quell’aura inciucista, appioppata, perinde ac cadaver, al personaggio; accusato di armeggiare un po’ troppo attorno agli incombenti del ruolo parlamentare. Che reclamano, secondo noi, una lettura non partisan delle problematiche del territorio (lo fecero, a suo tempo, Zanibelli, Lombardi, Zaffanella, Antoniazzi, Garoli). Che richiedono, per quel ruolo, senso e gesti di impegno e di condivisione inter-istituzionale.

Ma, a una sinistra che, da un quarto di secolo attinge ed alimenta il proprio bagaglio teorico-pratico dall’irriducibile criminalizzazione dello schieramento avverso, una siffatta regia non poteva garbare.

Anche se l’interessato, si ripete, di tanto in tanto, non fa molto per smarcarsi dal profilo di portatore di ésprit florentin  (in una percezione, ovviamente, non benevola).

Rebus sic stanti bus, il laticlavio costituiva, ça va sans dire, l’iceberg di un working progress della de-pizzettizzazione; che aveva tutta l’aria di non voler fare prigionieri, bensì, tout court, di archiviarne l’imprinting.

Nel frattempo, però, per una strana convergenza astrale, “il più grande senatore…morente”, proprio quando avrebbe dovuto compiersi il destino emarginatore, diveniva Sottosegretario alla Presidenza del CdM, con delega alla riforma istituzionale.

E, poiché il ruolino della marcia riformista del nuovo premier ha posto (secondo noi, giustamente) la riforma profonda delle istituzioni e dell’apparato statale, non ci dovrebbe essere dubbio alcuno sulle conclusioni da trarre in materia.

L’intensità dello scontro con l’eterogenea, ma determinata, barricata conservatrice, il cui esito non è mai stato scontato (se non nelle sicumere, talvolta un po’ smargiasse, del protagonista del nuovo corso politico) si è avvalso, oltre che di una determinazione granitica, anche del lavoro, tenace ed oscuro, degli sherpa applicati alla regia del lavoro parlamentare.

Non sveliamo alcun mistero, se diciamo che il culo di pietra più assiduo nella positiva conclusione dell’iter parlamentare appartiene al senatore cremonese.

Di ciò si sono avuti segnali e conferme; non ultimo, il pubblico apprezzamento del Ministro Boschi.

L’intensità e l’indefettibilità dell’impegno nel difficile iter parlamentare fa ritenere che, al di là della sua collocazione interna nel PD,  Pizzetti credesse e creda in quella che è stata definita la madre di tutte le battaglie riformatrici.

Diciamo subito che i suoi contenuti non ci convincono totalmente. Ma, come insegnavano i nostri nonni, il meglio è nemico del bene.

La situazione italiana, come è stato ed è ripetutamente affermato, è un consolidato di incrostazioni e di grovigli che costituiscono le premesse e le fondamenta di un declino, che investe ogni aspetto della vita comunitaria.

Non con tali estensione e profondità era un po’ questo il panorama da sistema “ingessato”, con cui si misurò (o tentò di misurarsi) il “nuovo corso socialista” degli anni 80.

Diversamente dalla leadership un po’ guascona dell’ex borgomastro fiorentino, il progetto riformatore craxiano partiva, pare almeno, dalle medesime consapevolezze; anche se si avvaleva, sin dall’inizio, di supporti teorici più solidi.

Sia come sia, non appare azzardato tracciare un parallelismo tra le comuni consapevolezze (la necessità inderogabile di sottoporre l’Italia ad un vasto e profondo trattamento riformatore) e la terapia.

Craxi, mentre teorizzava la grande riforma, che (preso come riferimento il modello francese), attraverso la trasformazione dei poteri governativo e legislativo in senso presidenziale, avrebbe sincronizzato la vita politica ai ritmi imposti da un contesto mondiale in rapida trasformazione, aggrediva un secondo corno del sistema bloccato (dalle rigidità): la spirale della scala mobile.

Che, per come era concepita, anziché tutelare il potere d’acquisto dei redditi da lavoro o da quiescenza, alimentava aspettative inflazionistiche a doppia cifra, compromettendo così la tenuta e la competitività del sistema interno.

Oggi il contesto non è tanto diverso (se non in peggio: il quarto di secolo della seconda repubblica ha, nel frattempo, più che raddoppiato il debito pubblico), mentre i margini ed i tempi per rimediarvi si sono fatti severi.

Renzi é un giovanotto spropositatamente pieno di sé e della sua missione salvifica (per di più con un background politico apparentemente modesto).

A pelle simpatizzeremmo per un’altra figura di leader della sinistra.

Ma, anche grazie allo sforzo di estrapolazione dal suo profilo del larario dichiarato di alcuni riferimenti (il sindaco-santo La Pira e la devozione famigliare a Medjugorje), non possiamo non fare menzione della sorprendente (per un ex democristiano) determinazione con cui Renzi, vincendo le titubanze o le allergie post-comuniste, ha iscritto il PD al PES.

Oddio, non sarà più quello dei Brandt, dei Mitterand, dei Soares, dei Gonzales, dei Palme; ma resta l’organizzazione della socialdemocrazia continentale che passano i tempi presenti.

I suoi primi cento giorni rimandano inevitabilmente (e minimalisticamente) alla saggezza moista: non importa il colore del gatto, importa che acchiappi il topo.

Tra i topi da acchiappare (e al più presto) ci sono: la sostenibilità di un sistema istituzionale (e burocratico) che soffoca tutto; l’eradicazione di privilegi parassitari in capo ai gangli paralizzanti; una forte iniezione di flessibilità e di dinamicità nei meccanismi della vita economica e comunitaria (purché per flessibilità applicata all’organizzazione produttiva non si intenda esclusivamente la leva del costo del lavoro e lo smantellamento sistematico dei diritti e delle tutele). L’appartenenza alla cultura della sinistra riformista e, soprattutto, la condivisione dell’etica della responsabilità verso il destino della comunità nazionale, da un lato, inducono ad accantonare propensioni soggettive e, dall’altro, portano a non azzardare parallelismi col (nostro) passato.

Ma, obbligano anche ad esprimere qualcosa di più di un auspicio; affinché la prima lettura  al Senato della legge di riforma istituzionale (favorita, secondo noi, anche da un concorso non partisan più vasto della platea governativa) costituisca l’architrave di un più ampio sforzo riformatore.

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