Domenica, 28 aprile 2024 - ore 21.57

EMERGENZA CORONAVIRUS PRIMA RIFLESSIONE | Agostino Melega (Cremona)

La vita dell’uomo sulla terra è veramente una prova! Chi potrebbe desiderare pene e difficoltà? Tu ordini di sopportarli, non di amarli…

| Scritto da Redazione
EMERGENZA CORONAVIRUS PRIMA RIFLESSIONE | Agostino Melega  (Cremona)

EMERGENZA CORONAVIRUS PRIMA RIFLESSIONE | Agostino Melega (Cremona)

 “La vita dell’uomo sulla terra è veramente una prova! Chi potrebbe desiderare pene e difficoltà? Tu ordini di sopportarli, non di amarli…

Nell’avversità, io aspiro alla felicità e, nella felicità, rifuggo l’avversità. Tra questi estremi esiste un punto di equilibrio in cui la vita non sia una prova?”

Sant’Agostino, Confessioni, X, 28-29.

Agostino Melega (Cremona)

Così mi ha risposto l'amico commilitone (Chieti ed Anzio, 1968/69) Lorenzo Saraceno dal suo convento di frati camaldolesi:

Si racconta che S. Romualdo, il padre fondatore dei camaldolesi, fosse tanto desideroso di propagare il carisma eremitico da voler “trasformare tutto il mondo in un eremo”. Vi è evidentemente in questo desiderio un eccesso di zelo spirituale. Infatti se ritirarsi in un eremo significa prendere le distanze dal mondo, quando tutto il mondo si trasformasse in un eremo, da che cosa  ci si ritirerebbe?

Ma è indubbio che nell’odierna  situazione di reclusione collettiva questo paradosso sembra farsi  attuale. Tutti ci troviamo a vivere oggi una dimensione di eremo e nello stesso tempo ci  rendiamo conto che una separazione radicale tra le persone non è sostenibile se non  in nome di un bene più grande del nostro interesse. Si tratta allora di saper dare alla solitudine, tanto più quando essa è percepita come pesante e ingiusta  (pensiamo a quella degli anziani, delle persone che non hanno familiari) , una prospettiva di senso che vada al di là  della necessaria profilassi. È in questa ricerca di trovare senso più profondo ad una forzata solitudine che l’eremita potrebbe forse testimoniare qualcosa di valido per tutti.

Può forse venirci in aiuto San Pier Damiani, un monaco eremita vissuto mille anni fa e tra i primi camaldolesi. Egli  in una sua opera esalta la bellezza della vita eremitica nel ritiro della propria cella.  Il suo discorso prende le mosse da una questione a prima vista anch’essa paradossale, ma divenuta oggi di quotidiana attualità: quando l'eremita se ne sta da solo nella sua cella e celebra la messa, deve dire tutto quanto è previsto dal rituale per i dialoghi tra sacerdote e fedeli e  deve dire per esempio, al plurale, Dominus vobiscum, «Il Signore sia con voi»?  A chi lo dice se nessuno è presente? E perché poi egli risponde a se stesso dicendo Et cum Spiritu tuo, “E con il tuo Spirito”? E’ interessante la risposta che  Pier Damiani formula. Certo, l’eremita deve pronunciare le parole che la liturgia propone anche se colui che celebra è da solo, senza nessun altro presente,  perché quando l’eremita celebra e prega lì  c'è tutta la Chiesa, a nome della quale il celebrante pronuncia le parole della consacrazione, e a nome della quale lo stesso celebrante accoglie il dono e la presenza del  Signore. Quindi anche se uno è solo davanti a Dio, senza nessun’altra persona, nel suo essere a tu per tu con Dio è in realtà in comunione con   tutta l'umanità di cui lui è parte, e che in quell'atto liturgico in modo particolare, rappresenta. Anche qui: non sono parole che trovano una loro inattesa verità? Sono molti che oggi, nella  “clausura” o nell’ “eremo” delle loro case, guardano al proprio vescovo, o al proprio parroco, o al papa che celebra nella solitudine di una cattedrale o di una cappella, e avvertono un particolare senso di comunione, quasi una esperienza certo incompleta, ma non per questo meno vera? Diceva Thomas Merton  un monaco che fu anche eremita, e nello stesso tempo testimone inquieto delle contraddizioni del suo tempo: nessun uomo è un’isola.

Sono queste prospettive inattese, ma che tutti ci attraversano, anche perché tutti siamo chiamati in questa emergenza a uscire dal bozzolo dei nostri egoismi personali e collettivi. Attraversano anche noi che nell’eremo viviamo in questa bolla in attesa di un dopo. Anche noi siamo chiamati a scoprire   il senso profondo della nostra comunanza di storia e di destino con quanti vivono ansie, interrogativi sul senso degli avvenimenti, dolore per morti improvvise e solitarie, incognite sul futuro. Una cinquantina d’anni fa, nel 1967, un gruppo di monaci contemplativi eremiti scrisse al primo sinodo dei vescovi:

«Se il contemplativo si ritira dal mondo, non è per il desiderio di disertare da esso o dai suoi fratelli: egli rimane pienamente radicato alla terra in cui è nato, di cui ha ereditato le ricchezze, di cui ha cercato di far proprie le sollecitudini e le aspirazioni. Se si ritira dal mondo, è per avvicinarsi maggiormente alla fonte divina da cui scaturiscono le energie che spingono avanti il mondo e per comprendere in questa luce i grandi disegni dell’uomo. È nel deserto, infatti, che l’anima riceve spesso le ispirazioni più alte. E là che Dio ha plasmato il suo popolo. È là che lo riconduce, dopo il peccato, “per sedurlo e parlare al suo cuore” (Os 2,16). È nel deserto, inoltre, che il Signore Gesù, dopo aver vinto il demonio, ha dispiegato tutta la sua potenza, prefigurando così la vittoria della Pasqua. Non è forse attraverso un’esperienza analoga che il popolo di Dio, in ogni generazione, deve rinascere e rinnovarsi?»

Questo sia l’augurio che tutti ci facciamo a vicenda in questo scorcio di Quaresima e per la Pasqua che si avvicina; questo sia l’atteggiamento che anima la nostra comunione di preghiera.

Comunità dell’Eremo San Giorgio

 

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