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Il Premio Cremona. 1939-1941 | R.Bona

| Scritto da Redazione
Il Premio Cremona. 1939-1941 | R.Bona

Il Premio Cremona “era il premio della pittura fascista, che era pessima pittura (…) Ci furono oscuri personaggi come Farinacci e Ojetti: Farinacci pagato dai tedeschi per far perseguitare l’arte moderna ‘ebraizzata e bolscevica’, Ojetti per far contro Bottai (…) insomma: la questione Bergamo-Cremona fu una contesa provinciale che fu politicizzata da Cremona contro gli intellettuali antifascisti, che utilizzavano Bergamo contro Cremona e la macroscopica, analfabetica pretesa di un’arte fascista”. Per molti anni sono bastate queste parole, scritte da Giulio Carlo Argan per definire la manifestazione cremonese. Egli fece parte della Giuria delle prime due edizioni, su nomina di Bottai e ne venne poi estromesso per l’ostilità di Farinacci. Il giudizio sommario da lui espresso vent’anni fa: “a Bergamo pittura buona a Cremona solo immondizia” oggi però non può più bastare. Se infatti è vero che il Premio venne istituito con finalità più politiche che artistiche è altrettanto vero che le ragioni dell’arte ci appaiono oggi più chiare in tutta la loro evidenza, anche al di là delle intenzioni del suo ideatore, Roberto Farinacci, uomo capace di pensare all’arte in modo non convenzionale. Oggi infatti, anche se chiarissime risultano le ragioni strumentali del gerarca, emergono con urgenza quelle degli artisti che parteciparono, per diversi motivi, alle tre edizioni del Premio, fra 1939 e 1941. Indagare tali ragioni, misurane gli opportunismi o le illusioni, le furbizie e le ingenuità o le capacità di adattamento, significa  registrarne, nei fatti, gli esiti autentici, gli scarti personali, le mille pieghe individuali che prese l’arte in quel difficilissimo passaggio storico che furono i secondi anni Trenta, anche al di là delle riduzioni sintetizzate nella contesa fra Cremona e Bergamo.

Questo è a mio avviso il punto centrale oggi: riuscire a separare le circostanze della produzione artistica dalle opere, senza però rimuovere le prime né mortificare le seconde. Perché se è vero che il giudizio sul clima nel quale è maturato il Premio Cremona ha per troppo tempo oscurato i fatti artistici, è altrettanto vero che analizzare questi ultimi svincolati dal loro contesto storico e ideologico significa di fatto non comprenderli fino in fondo e ancora una volta svilirli, seppur nell’ansia di rivalutarli.

Ecco perché ho inteso, con la mia ricerca sul Premio Cremona attraverso le pagine della rivista Cremona (in Fascismo a Cremona e nella sua provincia.1922-1945, Cremona, 2013, pp.479-512) riprendere i moventi e le ragioni, tutte politiche ed ideologiche, con le quali Farinacci istituì nel 1938 la rassegna. Dalle parole dei protagonisti, degli “inventori” si potrebbe dire, emerge con evidenza il ruolo subordinato assegnato all’arte , con una funzione piegata sempre più alle esigenze del regime fascista, soprattutto a partire dal 10 giugno 1940 con l’ingresso in guerra che cade proprio mentre è in corso la seconda edizione, dedicata alla “Battaglia del grano”. Le questioni artistiche si erano fatte ormai meno rilevanti e l’alleanza con la Germania nazista ed il rafforzamento dell’amicizia con “il popolo tedesco” erano divenute preminenti, così come dichiarato da Farinacci nel discorso da lui pronunciato il 29 settembre 1940, durante l’inaugurazione della mostra ad Hannover, città gemella nella quale erano state esposte alcune opere del Premio Cremona. Non è un caso se l’anno seguente la rassegna, dedicata alla “Gioventù italiana del littorio”, risulterà invece la più scadente dal punto di vista qualitativo.

In altre parole l’esposizione cremonese venne usata da Roberto Farinacci con valenza politica, così come appare leggendo le pagine della rivista Cremona, voluta dal ras cremonese con lo scopo di “esaltare il patrimonio artistico della città e informare i cittadini delle grandi opere compiute dal fascismo cremonese”. La rivista, che caratterizzò per quindici anni la vita culturale della città, era, insieme alla Società di Lettura, all’Istituto Storico Cremonese e alla Famiglia Artistica, uno dei quattro enti fondamentali dell’Istituto Nazionale di Cultura Fascista cremonese, presieduto dallo stesso Farinacci. Cremona era una pubblicazione ufficiale, strutturalmente inserita nel progetto del gerarca, anche per mettere in evidenza la portata della sua strategia politico-culturale nella  quale il concorso artistico aveva un posto di rilievo. Puntuale espressione di un certo ambiente intellettuale cittadino, Farinacci l’aveva pensata come asse portante dell’Istituto, con l’obiettivo esplicito di “fascistizzare” la  cultura cremonese. Lo stesso Istituto e le sue emanazioni, che con la rivista condividevano il medesimo obiettivo, appaiono espressione di quella cultura che Farinacci e Tullo Bellomi cercano di adeguare alle proprie ragioni, soprattutto nella fase tarda, che coincise proprio con la svolta dei secondi anni Trenta e con l’invenzione del Premio Cremona. In questi anni la rivista, pur continuando a riflettere le caratteristiche specialissime della società cremonese, cercò infatti di assumere con maggiore convinzione quegli indirizzi che Farinacci aveva tracciato nelle sue linee programmatiche.

Su Cremona il Premio assume una luce particolare, utile a collocarlo entro un clima politico e culturale più ampio, quello dei secondi anni Trenta, nel quale emerge il volto sempre più duro del fascismo che, attraverso i propri imperativi, cerca di subordinare le arti alla politica dello stato totalitario, con un’azione che investe non solo i fatti squisitamente artistici ma anche quelli più articolati del rapporto tra élite e massa, tra intellettualità e popolo. Tali nodi furono cruciali per il regime, per le sue esigenze propagandistiche e per la sua politica di fascistizzazione del paese.

Istituito da Farinacci al culmine della polemica sull’arte e dopo l’approvazione delle leggi razziali, il Premio Cremona era già stato annunciato da Il Regime Fascista il 10 luglio 1938 ed illustrato a Giuseppe Bottai in occasione della sua visita in città il 22 novembre. Era però almeno dal 1937, che a Cremona si preparava l’iniziativa. Fu Tullo Bellomi, assistente culturale di Farinacci, che ideò un concorso artistico in grado di suscitare lo stesso interesse delle manifestazioni stradivariane. Farinacci si recò poi a Roma per esporre al duce il programma lasciandogli la paternità del tema.

Il gerarca cremonese dopo il delitto Matteotti aveva appoggiato la linea dura; nel 1925 era stato nominato segretario del partito per tredici mesi e, dal 1926, aveva inaugurato Il Regime Fascista, costituendo un valido gruppo di collaboratori in campo culturale ed artistico, nel quale spiccava il fedelissimo Bellomi. Farinacci estese la propria azione collaborando con l’EIAR e i giornali tedeschi, con riviste come Primato e Critica Fascista e, quando divenne membro del Gran Consiglio, nel 1935 allargò il suo potere in campo culturale, facendosi promotore a Cremona di molte iniziative. La più significativa, anche per il suo riflesso internazionale, fu la celebrazione, nel 1937, del bicentenario della morte di Antonio Stradivari.

Il 10 ottobre 1938 Il Regime Fascista lanciò un referendum per scegliere quale discorso del duce privilegiare come soggetto di un quadro. Analoga domanda era stata rivolta da Farinacci con una circolare inviata il primo di ottobre alle personalità più note del mondo della cultura e della politica.

La rivista Cremona diede notizia dell’istituzione del Premio nell’agosto 1938 specificando l’ammontare dei contributi e descrivendo con enfasi retorica il tema del concorso, “L’ascoltazione alla radio d’un discorso del Duce”. L’intento di Farinacci era quello di “vedere fissate nelle opere degne le scene che eterneranno un grande momento della storia fascista”. Esplicitando chiaramente l’idea portante del concorso, si dava agli artisti la possibilità di dimostrare “la loro sensibilità fascista“ anche con un secondo tema “a soggetto relativamente più libero” dal titolo “Stati d’animo creati dal fascismo”, per contribuire all’auspicata “rinascita artistica ispirata al clima ed al pensiero fascista”.

Appare comprensibile dunque come nel dopoguerra il Premio non abbia mai goduto dei favori della critica. Così le opere di proprietà dell’Ente Ordinatore andarono disperse, talvolta vennero mutilate o furono collocate nei magazzini o assegnate ad Enti pubblici. Le tematiche, le reticenze degli artisti, dei collezionisti e dei critici che avevano collaborato col fascismo e che erano sopravvissuti ai suoi disastri, favorirono la rimozione dell’evento.

Molte di queste opere sono però sopravvissute ed è nostro compito oggi conservarle, studiarle e valorizzarle. Non certo per esaltarne i valori che la retorica dell’epoca ha inteso loro attribuire ma per comprenderne le ragioni artistiche e anche  per comprendere le ragioni degli artisti, delle loro adesioni all’ideologia di regime, delle molte illusioni e delle conseguenti disillusioni.

Scorrendo i cataloghi si può facilmente constatare come molte opere presentate inclinino verso lo stereotipo celebrativo, riprendendo scolasticamente modelli illustrativi, quasi a confermare i giudizi negativi più volte espressi. Tali giudizi non possono però essere estesi meccanicamente a tutte le opere in questione, perché alcune di esse emergono per evidenti qualità pittoriche. Va anche tenuto conto che, durante i tre anni di svolgimento del Premio, anche all’interno dei percorsi individuali, si sono avute a mio avviso rilevanti mutazioni stilistiche, a volte con felici soluzioni figurative, a volte con cadute rispetto alla normale produzione, spesso proprio per soddisfare i desideri della committenza. In ogni caso le opere mostrano uno spaccato fondamentale della cultura italiana del periodo e dunque varrebbe la pena compiere una ricognizione più approfondita e scientificamente adeguata di questa importantissima manifestazione, degli artisti di più alto livello o di dignitosa professionalità che parteciparono alle tre edizioni, dei dipinti rintracciabili o di ciò che di loro resta.

Così come ha fatto ad esempio Stefano Fugazza, ricostruendo, a partire dal frammento Madre e figlio, conservato alla Ricci-Oddi di Piacenza, la tela In ascolto di Luciano Ricchetti, vincitrice della prima edizione del 1939. Fugazza riuscì infatti a recuperare altre due parti del dipinto tagliato nel 1945, una Natura morta e il volto del giovane Balilla, che espose a Piacenza nel 2003 insieme ai disegni preparatori. Ad essi vanno poi aggiunti i due frammenti conservati in una collezione privata cremonese con l’Uomo in ascolto ed i Vicini di casa che consentono di valutare l’opera anche sul piano stilistico oltre che su quello iconografico e narrativo. I frammenti conservati sono stati tagliati dalla tela non con furia iconoclasta ma scomponendone i temi iconografici con occhio da pittore, per preservarne i frammenti meno esplicitamente ideologici, valorizzandone le qualità pittoriche, forse per favorirne l’immissione sul mercato dopo la fine della guerra .

Il quadro è un ottimo esempio di come si intendesse l’arte a Cremona perché riproduce “con una verità impressionante, una famiglia di rurali emiliani in ascolto alla radio di un discorso che il Duce pronuncia alla folla nella lontananza di Roma imperiale”. La scena è ambientata in un’umile cucina contadina. Sul fondo campeggia, appesa alla parete, accanto alla credenza con i piatti buoni, una stampa con Mussolini che saluta romanamente. La famiglia è numerosa, gli uomini sono lavoratori pazienti, le donne sono materne e subordinate e i figli, ubbidienti, solenni e fiduciosi. I personaggi più maturi vestono abiti contadini,quelli più giovani le divise dei corpi militari. Tutti ascoltano immobili, muti e attenti nelle loro pose statuarie. I tipi anatomici sono robusti e plastici nei volumi e le solide anatomie si caratterizzano per moderate deformazioni, ricondotte alla più consueta tradizione realista ottocentesca. La donna che campeggia al centro con il bimbo in grembo, accanto al vigoroso capofamiglia, sembra discendere dall’archetipo della madre, mediterranea e padana, circondata dalla numerosa prole, custode della specie e generatrice di forza lavoro. Nel recupero dei modelli rurali, l’arte che si voleva fascista materializzava così il tema universale ed eterno della famiglia, un soggetto etico e mitico che appartiene alla tradizione culturale illustre dell’arte italiana ma che si caratterizza come popolare e anti intellettuale. Quello della famiglia è tema semplice ed universale, archetipo basato su modelli sociali primari, semplificati e costanti, che racchiude in sé quelli del lavoro, della maternità, del dovere, del sacrificio e dell’immutabilità del ruolo sociale; sarà usatissimo a livello pittorico e plastico e trionferà a livello d’immagine di massa. Ricchetti lo aggiorna nel suo dipinto, superando i modelli novecentisti non solo formalmente ma anche attraverso la direzionalità del racconto, tutto contemporaneo e inequivocabilmente fascista, caratterizzato dai segni che rendono esplicito il messaggio: i costumi di scena, gli accessori, l’arredo.

Ricchetti mise molto impegno in quest’opera e la realizzazione fu sofferta, come se dovesse adattare le proprie inclinazioni alle attese della giuria, profondendo grande cura nella composizione, nelle scelte narrative e nella conduzione pittorica, che trova un punto di sintesi fra il naturalismo di Spadini e la visione drammatica di Sironi, in un’ottica ancora novecentista ma che ripiega verso il naturalismo ottocentesco.

A questo dipinto, salutato sulla rivista come “esempio di organica ed unitaria visione” fascista, potremmo comparare quello di Mario Biazzi, Ascoltazione, conservato alla Camera di Commercio di Cremona, espressione di una cultura pittorica dissonante rispetto alle altre opere esposte nel 1939.

La tela, restaurata da Felice Abitanti nel 1980, era stata recuperata in uno scantinato dalla dottoressa Carla Almansi. Paragonato ai dipinti esposti durante la prima edizione, che tendevano a recuperare spesso le tecniche della pittura murale con pitture dal solido impasto, il quadro si distacca per l’uso dell’olio magro a velature trasparenti, tirato e diluito con essenza di trementina, stemperato e leggero come fosse acquerello. Biazzi poi rinforzò le ombre, i contorni ed i tratti anatomici col carboncino, quasi scavando ed incidendo le forme per dar loro rilievo ed espressione.

E’ un’opera straordinaria, forse guardata con diffidenza dalla giuria, che riflette le stesse ansie espresse nei suoi coevi disegni, dai quali mutua, oltre al segno espressionista, anche il soggetto e le figure, tratte da quel mondo di contadini miserevoli ed emarginati, dalle anatomie sgraziate e deformate che costituivano la sua personale interpretazione di Kathe Kollwitz. Qui i suoi personaggi sofferenti e per il solito adagiati in un abbandono senza speranza, si risvegliano dalla perenne attesa e si rimettono in moto alla parola del duce, che giunge da lontano, insieme al volto paterno che, come icona taumaturgica, si materializza in alto a destra e che trasforma la disperazione in possibilità di riscatto, mentre uno dei personaggi dispiega sullo sfondo il tricolore. Elda Fezzi si oppose alla cancellazione del ritratto di Mussolini, senza il quale il dipinto avrebbe perso il suo senso e noi, forse non saremmo mai riusciti a capire perché un artista come Biazzi, fondamentalmente anarchico, possa aver aderito al fascismo ed avervi visto, come molti altri italiani, possibili risposte alle proprie inquietudini, prima di risultarne deluso. La stessa cosa avvenne per altri pittori, che scelsero addirittura di opporsi al fascismo, come Bruno Bonci, terzo classificato nel 1939, con Rurali ascoltanti, che diverrà poi comandante della Brigata partigiana Monte Amiata, col nome di battaglia di “Caravaggio” e che morirà in uno scontro con i tedeschi a Vagliagli il 12 giugno 1944.

Sono esempi che ci aiutano a comprendere meglio le ragioni delle scelte di questi artisti che furono solo alcune delle tante vittime di quel fascismo nel quale avevano creduto, delle adesioni e poi delle disillusioni, che andavano maturando mano a mano che si andava verso la guerra e poi verso la disfatta. L’entrata in guerra dell’Italia avvenne il 10 giugno 1940,  proprio mentre era in corso la seconda edizione del premio, dedicata a“La battaglia del grano”, tema cruciale e quanto mai gravido di implicazioni ideologiche e socio-economiche. Questa fu forse la più felice delle tre edizioni, perché contrassegnata da una maggiore libertà di coinvolgimento paesistico e dal recupero del naturalismo atmosferico ottocentesco, seppur saldato alla tradizione plastica dei primitivi, di Carrà, di Sironi e degli epigoni di Novecento. Le opere, spesso di grande formato, guardavano alla tradizione della pittura murale, della quale recuperavano anche le tecniche, come la tempera o l’affresco. Frequenti erano le composizioni a trittico, che rimandavano al primitivismo mistico, adatto ad esprimere un’idea religiosa del lavoro, sacrale, arcaica, costante ed immutabile nella quale la dinamica sociale era esclusa. E’ il caso del trittico di Pietro Gaudenzi, Il grano, primo classificato, dipinto a fresco su intonaco applicato su masonite e conservato nella Pinacoteca Civica di Cremona. Nel pannello centrale un monumentale e veristico vangatore si asciuga il sudore dalla fronte mentre le donne statuarie degli scomparti laterali giganteggiano con metrica severa, come idoli pierfrancescani, entro le geometrie spaziali di architetture italiche, di paesi antichi, silenziosi e immoti, dai colori terrosi. L’opera è stata recentemente esposta in ben due occasioni, a Firenze ed a Forlì, senza che sia stata in quelle sedi colta l’occasione per un meritato studio critico. Eppure Gaudenzi in questo dipinto spiega bene come al verismo meridionale tardo ottocentesco abbia coniugato la solennità dell’eloquio accademico e monumentale dei simpatizzanti di Novecento.

Anche osservando  il bel dipinto di Biagio Mercadante, Le vagliatrici, terzo classificato e conservato alla Fondazione Città di Cremona, si coglie come punto centrale dell’impegno sia la rinnovata sintesi tra naturalismo ottocentesco e ricerche volumetriche novecentesche. Nell’artista salernitano la solidità monumentale delle lavoratrici si sposa con la ricognizione quasi milletiana dei gesti, precisi, di antica e rituale sapienza contadina. Come se l’influenza cézanniana e novecentista avesse appena scalfito il suo sostanziale realismo, tutto ottocentesco e napoletano.

Una luce intensa accende il colore e rende solare la pittura, fedele alle correnti del naturalismo ottocentesco, come nella Battaglia del grano di Cesare Maggi, sempre alla Fondazione Città di Cremona o nel pannello centrale del trittico ora smembrato, dipinto dal comasco Baldassarre Longoni, Terre dorate d’Italia, un olio su tela conservato alla Banca Popolare di Cremona, nel quale il classicismo corotiano incontra il divisionismo lombardo e le mietitrici attendono alle loro fatiche entro un caldo paesaggio, nell’espansione lirica della vibrazione atmosferica. Nell’olio del cremasco Carlo Martini, Grano, della Banca Popolare di Crema, il gesto contadino viene invece immortalato nella monumentalità del primo piano, in una solare armonia quasi vangoghiana di giallo e blu, dimostrando come il tema consentisse il recupero anche di quella tradizione internazionale, soprattutto francese, così detestata a Cremona, purché ricondotta entro il solco naturalistico, riducendo deformazioni figurative ed eccessi di accensione cromatica.

In Bonifica del veneziano Alessandro Pomi, che è pittore eccellente, l’inquadratura si distende nel formato rettangolare orizzontale, inserendo uomini e animali al lavoro, entro un paesaggio ordinato, dall’impianto prospettico centralizzato. Nell’olio della Camera di Commercio di Cremona i solchi nel terreno corrono verso un orizzonte lontano, diritti e geometrici, senza possibilità di errore, così come voleva la concezione fascista della storia, in una prospettiva chiara, da verismo fotografico, nitida e cristallina come la luce che si rifrange e avvolge le cose, appena un po’ temperata da una sfumatura lirica nelle macchie di colore.

“La battaglia del grano”, il tema dettato da Mussolini, incideva su alcuni cruciali versanti della propaganda fascista, come quelli della ruralizzazione e del lavoro. Già utilizzato nell’immaginario socialista, il lavoratore erculeo e statuario viene ora spogliato dalle specificità sociali ed antagonistiche, per esaltarne le virtù contadine: l’obbedienza, l’operosità silenziosa e la capacità di ascolto del rurale italico. Dipinto da Sironi sui muri della Triennale del 1933 e nei grandi cicli monumentali degli anni Trenta, a Cremona il lavoratore perde la sua robusta nudità elementare per rivestirsi dei panni del contadino infaticabile che opera con fervore e dedizione. Spogliato da riferimenti troppo arditi al linguaggio europeo della modernità novecentista, il lavoro contadino viene dipinto con gli abiti della quotidianità rurale, dove i gesti, di sapienza millenaria, si ripetono con arcaica immutabilità.

Proprio per la natura del soggetto molti di questi dipinti si sono conservati, come La gioia del Grano di Mario Biazzi ora nel Palazzo Comunale di Robecco d’Oglio, nel quale il pittore cremonese, come al solito geniale, ci consegna un ritratto della moglie, dalla schietta frontalità compositiva, nel quale il linguaggio realista muta, nella parte inferiore, in una ardita scomposizione di piani, quasi cubofuturista.

Il 10 giugno Mussolini annunciò l’entrata in guerra dell’Italia. La svolta propagandistica dell’INCF, finalizzata alle esigenze belliche, venne esplicitata nel numero estivo della rivista, nel quale un bollettino  informava che, dalla dichiarazione di guerra, l’attività dell’Istituto “uniformandosi alle superiori disposizioni, si è decisamente orientata ad un compito precipuamente di propaganda politica” che corrisponde al fine “di agitare le idee della Rivoluzione” e non a “quello di perseguire scopi di cultura generale”. Questa dinamica, già perfettamente evidente nell’impostazione delle due prime edizioni del Premio, viene ora resa esplicita e tutta l’attività “culturale” dell’Istituto viene indirizzata verso le “superiori finalità dell’azione politica-diplomatica-bellica dell’Italia fascista”. Così la creazione di un Comitato di scambi Cremona-Hannover rientrerà in una fitta rete di contatti e di relazioni diplomatiche tesi a rafforzare una politica di alleanza e di amicizia con il Terzo Reich, della quale Farinacci era sempre stato sostenitore e nella quale spiccava a pieno titolo anche il Premio Cremona.

Nella III edizione del 1941 si affermarono tre opere ex aequo: La consegna di Luciano Ricchetti, Italica Gens di Cesare Maggi e Giovinezza di Gian Giacomo dal Forno. 85 opere vennero scelte per la Mostra di Hannover, che sanciva la scelta di un fronte comune italo-nazista contro “l’arte degenerata e giudaica”. Tra esse figuravano i dipinti di alcuni pittori cremonesi come Giuseppe Guarneri, Mario Busini, Giuseppe Tomè e Giovanni Misani di Annicco. Farinacci sottolineò, annunciando solennemente i nomi dei premiati, come avessero trionfato “le opere più degne sia da un punto di vista tecnico che interpretativo” senza alcun riguardo alle tendenze artistiche. Ma dai dipinti traspare una retorica che tende a trasformare i giovani protagonisti dei dipinti in combattenti. Essi vengono infatti ritratti in motivi militareschi: le adunate, le marce, i giochi atletici. Belli e perfetti nelle esibite pose statuarie, con palesi riferimenti a modelli neoclassici o di accademia novecentista, i corpi ostentano le divise e le insegne militari giovanili, impugnando attrezzi ginnici o armi secondo una coerenza di progetto pedagogico, che concepisce l’impegno fisico in funzione del combattimento. L’addestramento sportivo appare così perfettamente funzionale, nell’epica e nella mistica fascista, ai compiti militari e i corpi, giovani e sani, si preparano al sacrificio della guerra. “Dal sangue nascerà la nuova Europa” sarà infatti il tema “dettato” da Mussolini per la prevista e mai realizzata  IV edizione del concorso.

L’importanza della ginnastica per comporre le differenze di classe era già stata compresa dalla Germania nazista, perché l’intero popolo si ritrova nei giochi atletici attorno all’unità costituita e, come in un rito religioso, vi celebra l’orgoglio della stirpe, la virilità, la dedizione al lavoro e alla disciplina.

Al di là delle dichiarazioni pomposamente squadernate sulla rivista, il rapporto con il mondo reale in queste opere è però praticamente assente. La realtà qui rappresentata è quella immaginata dall’impalcatura ideologica del regime, corredata dai suoi consueti orpelli: fasci littori, aquile, lupi, libri e moschetti. Sulle tele si proiettano le immagini di un mondo desiderato, parallelo alle costruzioni iconico narrative propagandistiche ma lontanissimo dalla dura realtà degli eventi.

Di molte di queste opere si sono da tempo perse le tracce ma credo che non siano tutte scomparse. Tre frammenti di Giovinezza del milanese Gian Giacomo dal Forno sono stati recentemente esposti, grazie alla cortesia della dott. Tiziana Cordani, all’Adafa di Cremona, durante la conferenza da me svolta il 5 dicembre e i due pannelli laterali del trittico Italica gens di Cesare Maggi sono stati esposti nell’ottobre 2013 alla XXVIII Biennale Antiquaria di Palazzo Corsini a Firenze. Alcuni dipinti vennero acquistati ad Hannover ed è  indispensabile condurre ricerche nella città tedesca, come indica il prof. Giovanni Borsella.

Conservare, recuperare, valorizzare e sottrarre all’oblio e al pregiudizio queste opere significa a mio avviso colmare la rimozione di un pezzo della storia della nostra città. In questo modo potremmo vedere forse più chiaramente alcuni nodi del problema politico ed estetico che sta al fondo della pretesa imposizione di un’arte fascista. In modo velleitario e distorto il fascismo offriva una soluzione al problema dello scollamento fra arte e popolo, cercando il superamento dell’elitarismo artistico e, in fondo, dell’isolamento e della solitudine dell’intellettuale, che vedeva mutare il proprio ruolo dentro la profonda trasformazione della società e del mercato. Il fascismo cremonese, col tema obbligato, indicava una via alla soluzione del problema del pericoloso distacco fra masse popolari ed élite artistica ed offriva le sue sicurezze, anche rivendicando il primato della società fascista sull’individuo e sulle sue libertà. Esso offriva all’artista un modo per diventare membro di una collettività, avanguardia e guida di una massa di cui era parte, interprete di un preteso spirito popolare ed educatore di un popolo, astratto e idealizzato, che egli contribuiva a guidare, a patto però di sottomettersi alla gerarchia dello stato fascista, assecondandone le direttive.

La IV edizione del premio, programmata per il 1943, prevedeva, grazie alle intese con Goebbels, la partecipazione di numerosi artisti tedeschi e l’esposizione sarebbe dovuta avvenire in coincidenza con le celebrazioni del terzo centenario della morte di Claudio Monteverdi. L’esposizione delle opere si sarebbe dovuta tenere nell’erigendo Palazzo dell’Arte, di fronte alla nuova sede de Il Regime fascista, in quella Piazza Marconi che doveva diventare il polo monumentale della Cremona fascista. Come è noto essa non avrà luogo per il precipitare degli eventi e l’idea di una manifestazione artistica “alla tedesca”, così come era stata concepita da Farinacci, venne travolta dal disastro nel quale il fascismo aveva condotto l’Italia.

Pur con rilevanti differenze rispetto alla Germania nazista anche a Cremona dunque si materializzò una politica artistica organica alla creazione di un regime reazionario di massa che, nel disegno di Farinacci, era agli antipodi del modello culturale, gentiliano e idealista di Bottai.

Dentro queste contraddizioni profonde precipitò anche l’arte italiana e molti suoi artisti restarono così vittime del fascismo anzi, come ci ricorda Carlo Bertelli,  “di una certa Italia intramontabile e gretta nella quale il regime aveva prosperato”, di quel provincialismo mediocre, estremista ed antimoderno che a Cremona aveva trovato alcuni dei suoi più illustri rappresentanti.

Rileggere con maggiore attenzione critica come gli artisti, ciascuno con la propria individualità e la propria sensibilità, risposero a questo passaggio cruciale significherebbe a mio avviso comprendere di più e meglio ciò che avvenne, restituendo a loro maggiore dignità e alle loro opere maggior significato.

Rodolfo Bona

Nella foto: «La battaglia del grano», opera di Ettore Ponzi presentata al Premio Cremona nel 1940.

Nella fotina: Rodolfo Bona

2014-01-02

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