Giovedì, 02 maggio 2024 - ore 13.23

Il punto di Rosario Amico Roxas. Ritorno alla democrazia diretta?

Il pensiero di Roxas dopo il referendum di ieri

| Scritto da Redazione
Il punto di Rosario Amico Roxas. Ritorno alla democrazia diretta?

Il mancato raggiungimento del quorum nel referendum sulle trivelle consolida l’ipotesi di un invecchiamento del sistema democratico, giunto alle soglie del disinteresse popolare. Quando si parla di democrazia si deve sempre distinguere tra retorica politica e concreto coinvolgimento collettivo. Nelle democrazie un buon barometro dello stato di salute è costituito dal tasso di partecipazione elettorale. Ora, potrà anche sembrare esagerato, ma la bassa partecipazione degli elettori, oggi così diffusa, indica tre fatti: primo, la salute “elettorale” della nostra democrazia è pessima, dal momento che un sistema che perde elettori rischia di perdere anche legittimità; secondo, la depoliticizzazione è ormai un fenomeno di massa, e non c’è da gioire, perché una democrazia composta solo di individui dediti al particulare rischia di trasformarsi in fiera degli egoismi sociali; terzo, per due terzi degli elettori l’esercizio della libertà di voto è divenuto un peso. E purtroppo una democrazia in cui la libertà politica è disprezzata rischia, prima o poi, di aprire le porte al “buon tiranno”.

Quindi, riassumendo, il problema è più vasto e ha radici profonde. In primo luogo, le nostre sono democrazie consumistiche: l’elettore è interessato a difendere solo il suo livello di consumi. Tutto ciò che esula dal mantenimento di un certo tenore di vita, come i grandi problemi costituzionali, morali e religiosi, non è tenuto in alcuna considerazione. In secondo luogo, dietro l’assenteismo elettorale c’è la cultura del disimpegno politico, così massicciamente diffusa a scopo preventivo dai cultori mediatici del divertentismo capitalistico. E con buoni risultati, purtroppo. Recenti ricerche mostrano che solo un giovane su cinque crede nella funzione democratica del voto. Che quattro giovani su cinque credono solamente nell’amicizia, nell’amore e nel lavoro: valori nobili e importanti, ma “privati” per eccellenza. Quanto agli adulti, è noto che tre su cinque ritengono i politici e i partiti poco affidabili.

La vera risposta è far crescere la democrazia diretta, anche dal punto di vista propositivo. Certo, è innegabile che questa forma di democrazia sia più adatta alle piccole comunità (dalla città-Stato greca al comune medievale, come mostra la storia). Inoltre, col moderno Stato-nazione la democrazia diretta ha subito involuzioni plebiscitarie, basti pensare alla Germania hitleriana e alle “democrazie popolari” dell’Est europeo. Il caso svizzero, frutto di antiche tradizioni comunitarie, rare a riprodursi altrove, costituisce invece la classica eccezione che conferma la regola. Pertanto ci sono difficoltà e rischi. Ma varrebbe la pena di tentare, soprattutto per sottrarsi alla nostra attuale condizione di figli di una democrazia minore. Come? Ripartendo dal basso. Ad esempio, dai “municipi” circoscrizionali, puntando sui bilanci partecipativi. In che modo? Facendo scegliere ai cittadini come e dove destinare le risorse che li riguardano localmente. E di lì, partendo dalla discussione dei piccoli problemi (asili, scuole, spazi ricreativi…), giovani e adulti potrebbero sottrarsi alla cultura dei consumi e del disimpegno, creando zone liberate. E così, per gradi, riacquistare fiducia nella politica, fondendo insieme partecipazione e amicizia, pubblico e privato… Si dirà: utopie. Ma non è altrettanto utopico continuare a ritenere che una democrazia consumistica e priva di popolo sia il migliore dei mondi possibili? L’attuale crisi economica ha il suo terreno di coltura negli errori ideologici che l’hanno generata.

Essendosi perduta la differenziazione ideologica tra destra e sinistra, è emerso il solo motivo conduttore che produce una netta divisione tra le parti. I principi del liberalismo, perduti nei meandri del mercato, della concorrenza, della produzione e dei consumi, hanno subito una deriva etica trasformandosi in liberismo, che, abusivamente, tenta un collegamento con il liberalismo, facendo rivoltare nella tomba ideologi come Benedetto Croce. L’elemento caratterizzante delle profonda diversità tra liberalismo e liberismo e, quindi del decadimento etico, sta nella diversa valutazione del ruolo dello Stato: per il liberalismo lo Stato doveva essere il “capitalista collettivo” al servizio dell’economia nazionale, con conseguente equità economica spalmata sull’intera popolazione, senza differenze di classe, ma con differenze di ruoli; il liberismo, al contrario, contesta l’intervento dello Stato nell’economia, lasciando che prevalga la legge del più forte, che diventa il corollario di tutte le leggi del libero mercato, quando viene meno la funzione equilibratrice dello Stato che non esercita più il ruolo di controllo affinché presso la popolazione sia rispettato l’equilibrio fra diritti e doveri che sta alla base delle norme di sussidiarietà, di mutualità e di solidarietà, o, per dirla in una formula dello “Stato sociale”. Le conseguenze non sono più di portata ideologica ma economica, perché l’eliminazione dello Stato sociale produce tutta una serie di rielaborazioni della società “a cascata”, perché tutti i servizi, considerati come costi sociali, tenderanno a essere privatizzati per diventare motivo di sfruttamento e produzione di reddito.

I servizi che dovrebbero essere rivolti all’intera popolazione diventano così riservati alla classe dominante, in grado di permettersi quegli stessi servizi, come la sanità, l’istruzione, i trasporti, l’energia, e tutto ciò che la democrazia aveva identificato come “bene collettivo”, ricadendo nella sottomissione alle regole del mercato: privatizzazione dell’istruzione, della sanità, dei trasporti e dei servizi primari che dovrebbero appartenere a tutti. La democrazia perde ogni identità per trasformarsi sempre più in una forma autoritaria per bloccare, a monte, ogni ipotesi di legittima rivalsa. È la stessa democrazia che ha tollerato l’evoluzione del liberismo e l’affermazione del capitalismo, specie quando è mancata l’equidistanza tra ideologie contrapposte: infatti se la democrazia per realizzarsi accetta il capitalismo, il capitalismo, a sua volta, per affermarsi sempre più, rinnega la democrazia in favore dell’autoritarismo.

Nessuno si scandalizzi, è già successo, in Italia con Mussolini, in Germania con Hitler e in Russia, ma con evoluzione capovolta, con Stalin; in Italia la storia si sta riproponendo, con l’aggravante che a pilotare questa carrette del mare non è un argonauta ma un “marinaio della domenica”. È la prova dei reciproci errori, della destra e della sinistra, entrambi incapaci di programmare uno sviluppo equilibrato dell’economia; perché accanto agli errori della democrazia che finisce con il cedere all’autoritarismo richiesto dal capitalismo, c’è l’errore opposto e, direi, complementare dell’altro capitalismo, quello di Stato, che finisce con il precipitare nell’autoritarismo e nella dittatura del proletariato, che poi, sarà contrastato dallo stesso proletariato quando si sarà reso conto che la “rivoluzione” proletaria non ha fatto altro che “cambiare padrone”.

Per questa ragione sono tantissime le analogie tra sistema economico liberista e sistema collettivista: la prima analogia che li accomuna è l’esigenza di uno Stato autoritario, con la funzione di tenere sotto controllo, e negarne la legittimazione, ogni forma di dissenso. Contemporanea alla disaffezione dell’esercizio democratico del voto, emerge, quotidianamente la raffica di scandali a opera di una casta di privilegiati, che sopravvive proprio grazie alla disaffezione della stragrande maggioranza del popolo elettore e, costituzionalmente, detentore del solo potere che dovrebbe operare le scelte di uomini e di metodi. Ma questa democrazia tarlata non garantisce più le masse popolari, ma solamente le élite che si sono intrufolate nelle stanze del bottoni, trasformate in stanze dei bottini.

Volendo tirare delle conclusioni circa gli ultimi e ultimissimi eventi, possiamo dedurre che in democrazia, in questa democrazia, avere una maggioranza schiacciante nei due rami del parlamento non basta per governare. Gli eletti, non dal popolo ma dalle segreterie dei partiti, per potere governare hanno bisogno di essere protetti da immunità; protetti da chi? Da se stessi! Nessuno li ha infatti obbligati a operare in maniera così scorretta da cadere nelle maglie della giustizia e, quindi, chiamati a rendere conto alla “legge uguale per tutti”. Ecco, quindi, la ragione delle varie immunità che la casta legifera a proprio favore. Per poter imporre il rigore legale e morale al popolo, piuttosto attonito, hanno bisogno di essere esonerati dal rispettare il rigore legale e morale che vogliono imporre agli altri. Paradossale! Ma nel popolo si verifica un ritorno alla moralità, ma non per libera scelta o per imposizione, e neanche per convincimento, ma solo per l’austerità che incombe e che si è impadronita delle classi più disagiate (ormai alla miseria), ma anche di quelle mediane (che si affacciano alla povertà).

Si erge, imponente, il muro che separa i privilegiati (pochi ma… buoni), al riparo da tutto, dalla miseria, dal bisogno, dall’austerità, dai problemi quotidiani e, ora, financo dalle leggi “uguali per tutti”, dalla gran massa degli italiani assoggettati a tutto e a tutti, costretti a sperare, a immaginare, a credere, e tornare a vivere dentro i valori imposti dall’austerità incombente, senza convinzione, con sacrificio, con riluttanza, perché tutti vorrebbero (o vorremmo) fare il gran salto e superare quel muro dietro il quale si vive di privilegi immeritati e abusi. Un muro in cemento robustissimo alla base, ma malleabile da un certo livello alla cima, per favorire i più intraprendenti a tentare la scalata; si tratta di quel ceto oltre il medio che vive di politica ma non nella politica, trae benefici dalla politica ma deve rendere conto, deve ubbidire, deve eseguire, non comanda, neanche a se stesso.

L’intero Paese assiste a queste scalate, sogna oltre il muro ma deve fare i conti con la realtà che impone una classe politica inadeguata, inventiva, superficiale, interessata, coinvolta nelle più audaci ruberie, protetta anche, se non principalmente, da se stessa.

Rosario Amico Roxas

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