Sabato, 20 aprile 2024 - ore 16.42

La Cina si sta davvero comprando i Balcani?

| Scritto da Redazione
La Cina si sta davvero comprando i Balcani?

Sebbene alcune narrazioni strumentali lascino intendere il contrario, l’influenza cinese nei Balcani occidentali è molto limitata, anche nei paesi dove questa si concretizza in progetti economici di natura sensibile.

Prestiti, non investimenti

Viste globalmente, le ambizioni di Pechino nei Balcani occidentali sono coerenti e di facile lettura: l’obiettivo è quello di raggiungere l’Europa centrale e occidentale. I finanziamenti cinesi si sono infatti riversati su snodi infrastrutturali nevralgici della zona. Partendo dal porto greco del Pireo (controllato dal 2016 per il 67% dalla Cina), Pechino ha cofinanziato la costruzione di due tratti d’autostrada in Macedonia del Nord, la Miladinovci-Stip e la Kicevo-Ohrid (che proseguirebbe poi verso Tirana tramite l’autostrada Arber). Analogamente, Pechino ha finanziato l’autostrada che collega il porto montenegrino di Bar e la città serba di Boljare, così come l’ammodernamento della tratta ferroviaria Belgrado-Budapest e la costruzione dell’autostrada Banja Luka-Prijedor in Bosnia, nella Republika Srpska.

A destare preoccupazione è la strategia di Pechino, quella della “trappola del debito”, già applicata altrove: l’insolvenza di debiti molto onerosi viene accettata dalla Cina in cambio della concessione dell’oggetto del finanziamento. Milo Đukanović, ex premier del Montenegro, aveva ignorato il monito di UE e Fondo Monetario Internazionale, accettando di siglare l’accordo con la Cina per costruire l’autrostrada Bar-Boljare e ottenendo un debito estremamente oneroso per il piccolo paese (più di 800 milioni di euro). Di fronte al pericolo di insolvenza e alle porte chiuse di Bruxelles, il governo montenegrino è riuscito a saldare la prima rata del debito solo grazie ad un accordo di “copertura” stipulato con tre banche occidentali.

Un’influenza relativa

Abbiamo intervistato Simone Benazzo, dottorando al Cevipol, il centro di studio di politica dell’Université libre de Bruxelles (ULB), che si occupa della questione. Benazzo parte da una constatazione molto semplice: la presenza della Cina dal punto di vista economico è senza dubbio aumentata nei Balcani occidentali, ma nella lettura dei dati tendiamo ad omettere che questa sia cresciuta esponenzialmente in tutto il mondo. La Cina, come seconda potenza mondiale che punta a una qualche forma di egemonia, si è aperta ad una moltitudine di paesi: in termini assoluti (e spesso anche relativi), quindi, la presenza della Cina nei Balcani occidentali è modesta rispetto ad altre zone nel mondo, Europa occidentale inclusa, e sarebbe perlopiù chiamata in causa per raggiungere obiettivi specifici.

«Una narrazione», secondo Benazzo, «parte di un mito che fa comodo a diversi attori. È stata adottata in primis dai governi della regione, ma anche dall’UE e dagli analisti che gravitano intorno a Bruxelles cercando di influenzare le politiche europee. Da parte dei governi locali, la Cina offre due grandi vantaggi: uno diretto, rivolto al finanziamento di progetti che non rispettano i criteri UE in termini ambientali o sociali, ed uno indiretto, in relazione alla politica di allargamento dell’Unione. I leader locali possono infatti utilizzare la Cina come pungolo verso la Commissione europea per mostrare che un’alternativa a Bruxelles c’è».

Dal punto di vista UE, la lettura si fa spesso politica e l’influenza della Cina viene anche associata alla crescente “autocratizzazione” nei Balcani occidentali. Il paradigma degli anni Novanta secondo il quale l’accesso all’Unione equivarrebbe ad un’automatica democratizzazione (fallace di fronte a Ungheria e Polonia) viene riproposto dal Parlamento europeo, l’attore istituzionale che più spinge verso l’integrazione. Salvo che quest’influenza politica è un fenomeno fortemente limitato.

Il pragmatismo come chiave di lettura

Benazzo ci propone di stravolgere il paradigma con il quale leggiamo le azioni di Pechino nella zona e di focalizzarci su elementi domestici più rilevanti rispetto alla geopolitica cinese. In altre parole: se non fosse Pechino a comprarsi i Balcani, ma i dirigenti di questi ultimi a vendersi alla Cina? D’altronde parliamo perlopiù di leader che non temono il riscontro della propria società civile alle elezioni (come era il caso di Äukanović in Montenegro, di Vučić in Serbia o di Dodik in Republika Sprska), che spacciano gli onerosi prestiti di Pechino come investimenti salvifici e che giocano sulla leva cinese di fronte all’enlargement fatigue dell’UE.

L’influenza di Pechino è senza dubbio crescente in Serbia, mentre il Montenegro, complice la caduta di Đukanović, sembra ritornare sui suoi passi. Altrove, la Cina sembra in difficoltà ed incontra spesso un’opinione pubblica fredda. Alcuni casi potrebbero però destare particolari preoccupazioni in futuro: Benazzo cita ad esempio quello dei media, un settore chiaramente delicato. Diverse redazioni balcaniche, in mancanza di risorse, accettano una forma di sponsorizzazione di agenzie di stampa cinesi che forniscono notizie gratuitamente. Certo le agenzie non propongono in generale letture approfondite degli avvenimenti, ma sono comunque formulate in base alla sensibilità cinese. Un fenomeno che, ancora, deve alla base essere letto in chiave pragmatica più che ideologica (le agenzie di stampa occidentali sono molto costose mentre quelle cinesi offrono servizi gratuiti), ma che ovviamente ha riscontri di natura politica. I media balcanici non sposano quindi necessariamente le idee professate da Pechino, ma sono portate a promuoverle indirettamente per questioni puramente materiali.

Al netto di quanto detto, l’influenza di Pechino deve sicuramente restare oggetto di attenzioni, da osservare però con una lente che tenga conto sia dei fattori domestici nei Balcani occidentali, sia delle mosse di Pechino viste in senso lato, relativizzate sulla base del desiderio egemonico della Cina nel mondo.

(Gianmarco Bucci, East Journal cc by nc nd)

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