“Immaginatelo così, cio che è stato. Tre generazioni della vostra
famiglia hanno vissuto insieme nella stessa città, nella stessa casa. I
vostri genitori hanno dato tutto per crescere i figli, hanno costruito
amicizie e relazioni sociali. All'improvviso gli viene ordinato di
lasciare ogni cosa entro l'indomani, portando con sé una sola
valigia”. Con queste parole Irene Fogel Weiss, nata negli anni '30
nell'allora Cecoslovacchia, ritornando ad Auschwitz per condividere la
sua testimonianza di sopravvissuta, raccontava: “Non dimenticherò mai
quell'ultima notte con la valigia sul letto. La riempimmo di cibo, di
vestiti caldi, di lenzuola. Un orologio, un paio di orecchini e una
fede
nuziale come merce di scambio, ma in realtà non avevamo alcuna
consapevolezza dell'inferno che ci attendeva”.
Mentre il treno si arrestava su quei binari che la storia ci ha
consegnato, per sempre, come simbolo dell'ideologia nazista dello
sterminio di massa, il suo papà intravvide i prigionieri in uniforme e
le baracche: “Pensammo che, se ci avevano mandato qui per lavorare, la
vita sarebbe potuta andare avanti. Ci aggrappammo alla speranza che
avremmo potuto riabbracciarci ogni sera, dopo una giornata di fatica.
Era quello, del resto, l'ingranaggio chiave della soluzione finale:
l'inganno. La consapevolezza che le persone avrebbero fatto affidamento
sulla propria normale percezione delle cose, fino alle estreme
conseguenze: credere di essere mandati a fare una doccia, mentre ci si
incamminava verso la camera a gas”.
Fu quello che accadde alla sua mamma, alla sorellina. Ma Irene – che
si salvò perché sembrava più grande della sua età – lo avrebbe
scoperto solo molti anni dopo, riconoscendole in una foto dell'epoca,
mano nella mano in fila tra centinaia di donne, ragazze e bambine come
loro, smistate lungo la cosiddetta “Judenrampe” come si fa con gli
oggetti senza più utilità. Sul loro destino cadeva lo sguardo
impietoso di ufficiali e medici delle SS: per i più piccoli, per le
madri in attesa, per gli anziani e i disabili, così come per coloro che
apparivano malati, la condanna era immediata, appena scesi dal vagone.
Senza neppure procedere all'identificazione.
Era l'atrocità di un'efficienza perseguita e sperimentata
scientificamente, che tra il 1943 e il 1944, quando le deportazioni
raggiunsero il picco massimo, faceva nel solo campo di Auschwitz,
rinchiuse tra le esalazioni dello Zyklon-B, 6000 vittime ogni giorno.
Oltre 4000 – ma gli addetti sostengono che si arrivasse persino al
doppio – i corpi esanimi bruciati quotidianamente nei crematori di
Birkenau, dopo che altri detenuti, addetti a questa macabra, barbara
procedura, ne avevano rimosso la dentatura d'oro e i capelli, perché il
Reich potesse trarre profitto da quelle vite cui era stata tolta, prima
ancora di ciò che aveva un valore economico, ogni forma di dignità e
rispetto.
“Fino all'ultimo hanno tentato di eliminare tutte le persone
possibili”, ricorda la scrittrice Edith Bruck, giunta ad Auschwitz non
ancora 13enne, poi trasferita in altri lager sino a Bergen Belsen, dopo
un'estenuante marcia della morte: “Era la fine della fine, anch'io ero
ormai una specie di nullità: pesavo 20 chili. Ma i tedeschi non
volevano lasciare testimoni e non dovevamo esistere nemmeno noi, né per
loro né per quei pochi parenti sopravvissuti... C'erano macerie
ovunque, eravamo macerie anche noi che siamo tornati. Pensavamo che un
giorno il mondo si sarebbe inginocchiato davanti a noi per chiedere
perdono per ciò che è stato fatto a degli innocenti. Invece non fu
così... l'Europa era distrutta, c'era la fame... e noi eravamo una
specie di avanzo”. Nonostante tutto, non ha mai dimenticato la
promessa che fece, adolescente, ai compagni di prigionia che morivano
intorno a lei: “Non ci crederanno, ma tu racconta. Se sopravvivi,
racconta anche per noi”.
Perché è questo, il Giorno della Memoria: dare voce a chi può ancora
testimoniare quell'orrore e ascoltarne le parole, custodirle,
difenderle
come un'eredita morale da cui le nostre scelte e il nostro impegno
civile non possano mai più prescindere. Educando le giovani generazioni
a rifiutare e contrastare il razzismo e la discriminazione, la
sopraffazione dei forti sugli inermi, l'indifferenza di fronte alle
richieste di aiuto e alla sofferenza del prossimo.
Nel 77° anniversario della liberazione del campo di Auschwitz, il
nostro pensiero commosso e partecipe va allora ai milioni di donne,
uomini, bambini e ragazzi che non hanno mai fatto ritorno dai campi di
concentramento e sterminio, perché la loro religione, la loro
appartenenza etnica, le loro idee politiche, il loro orientamento
sessuale o il loro aspetto fisico non erano conformi alle aberrazioni
dell'egemonia ariana. Alle centinaia di migliaia di vite violate e
calpestate con brutalità feroce nei ghetti delle grandi città europee.
A tutti coloro che subirono umiliazioni e torture indicibili, nel nome
dell'odio antisemita e della persecuzione dei diversi.
Perché la volontà e il dovere di coltivare la memoria, di onorarne il
significato e i tragici insegnamenti, sono essenziali nel far sì che
nessuno, come ha scritto Primo Levi, debba più subire “l'esperienza
non umana di chi ha vissuto giorni in cui l'uomo è stato una cosa agli
occhi dell'uomo”.
Giorno della Memoria, discorso del Sindaco e Presidente Patrizia Barbieri
Giornata della Memoria: “Dare voce a chi può ancora testimoniare quell’orrore e ascoltarne le parole”
![Giorno della Memoria, discorso del Sindaco e Presidente Patrizia Barbieri](https://www.welfarenetwork.it/media/2022/01/86590/f1_0_giorno-della-memoria-discorso-del-sindaco-e-presidente-patrizia-barbieri.jpg)
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