Martedì, 16 aprile 2024 - ore 16.19

Giorno della Memoria, discorso del Sindaco e Presidente Patrizia Barbieri

Giornata della Memoria: “Dare voce a chi può ancora testimoniare quell’orrore e ascoltarne le parole”

| Scritto da Redazione
Giorno della Memoria, discorso del Sindaco e Presidente Patrizia Barbieri

“Immaginatelo così, cio che è stato. Tre generazioni della vostra

famiglia hanno vissuto insieme nella stessa città, nella stessa casa. I

vostri genitori hanno dato tutto per crescere i figli, hanno costruito

amicizie e relazioni sociali. All'improvviso gli viene ordinato di

lasciare ogni cosa entro l'indomani, portando con sé una sola

valigia”. Con queste parole Irene Fogel Weiss, nata negli anni '30

nell'allora Cecoslovacchia, ritornando ad Auschwitz per condividere la

sua testimonianza di sopravvissuta, raccontava: “Non dimenticherò mai

quell'ultima notte con la valigia sul letto. La riempimmo di cibo, di

vestiti caldi, di lenzuola. Un orologio, un paio di orecchini e una

fede

nuziale come merce di scambio, ma in realtà non avevamo alcuna

consapevolezza dell'inferno che ci attendeva”.



Mentre il treno si arrestava su quei binari che la storia ci ha

consegnato, per sempre, come simbolo dell'ideologia nazista dello

sterminio di massa, il suo papà intravvide i prigionieri in uniforme e

le baracche: “Pensammo che, se ci avevano mandato qui per lavorare, la

vita sarebbe potuta andare avanti. Ci aggrappammo alla speranza che

avremmo potuto riabbracciarci ogni sera, dopo una giornata di fatica.

Era quello, del resto, l'ingranaggio chiave della soluzione finale:

l'inganno. La consapevolezza che le persone avrebbero fatto affidamento

sulla propria normale percezione delle cose, fino alle estreme

conseguenze: credere di essere mandati a fare una doccia, mentre ci si

incamminava verso la camera a gas”.



Fu quello che accadde alla sua mamma, alla sorellina. Ma Irene – che

si salvò perché sembrava più grande della sua età – lo avrebbe

scoperto solo molti anni dopo, riconoscendole in una foto dell'epoca,

mano nella mano in fila tra centinaia di donne, ragazze e bambine come

loro, smistate lungo la cosiddetta “Judenrampe” come si fa con gli

oggetti senza più utilità. Sul loro destino cadeva lo sguardo

impietoso di ufficiali e medici delle SS: per i più piccoli, per le

madri in attesa, per gli anziani e i disabili, così come per coloro che

apparivano malati, la condanna era immediata, appena scesi dal vagone.

Senza neppure procedere all'identificazione.



Era l'atrocità di un'efficienza perseguita e sperimentata

scientificamente, che tra il 1943 e il 1944, quando le deportazioni

raggiunsero il picco massimo, faceva nel solo campo di Auschwitz,

rinchiuse tra le esalazioni dello Zyklon-B, 6000 vittime ogni giorno.

Oltre 4000 – ma gli addetti sostengono che si arrivasse persino al

doppio – i corpi esanimi bruciati quotidianamente nei crematori di

Birkenau, dopo che altri detenuti, addetti a questa macabra, barbara

procedura, ne avevano rimosso la dentatura d'oro e i capelli, perché il

Reich potesse trarre profitto da quelle vite cui era stata tolta, prima

ancora di ciò che aveva un valore economico, ogni forma di dignità e

rispetto.



“Fino all'ultimo hanno tentato di eliminare tutte le persone

possibili”, ricorda la scrittrice Edith Bruck, giunta ad Auschwitz non

ancora 13enne, poi trasferita in altri lager sino a Bergen Belsen, dopo

un'estenuante marcia della morte: “Era la fine della fine, anch'io ero

ormai una specie di nullità: pesavo 20 chili. Ma i tedeschi non

volevano lasciare testimoni e non dovevamo esistere nemmeno noi, né per

loro né per quei pochi parenti sopravvissuti... C'erano macerie

ovunque, eravamo macerie anche noi che siamo tornati. Pensavamo che un

giorno il mondo si sarebbe inginocchiato davanti a noi per chiedere

perdono per ciò che è stato fatto a degli innocenti. Invece non fu

così... l'Europa era distrutta, c'era la fame... e noi eravamo una

specie di avanzo”. Nonostante tutto, non ha mai dimenticato la

promessa che fece, adolescente, ai compagni di prigionia che morivano

intorno a lei: “Non ci crederanno, ma tu racconta. Se sopravvivi,

racconta anche per noi”.



Perché è questo, il Giorno della Memoria: dare voce a chi può ancora

testimoniare quell'orrore e ascoltarne le parole, custodirle,

difenderle

come un'eredita morale da cui le nostre scelte e il nostro impegno

civile non possano mai più prescindere. Educando le giovani generazioni

a rifiutare e contrastare il razzismo e la discriminazione, la

sopraffazione dei forti sugli inermi, l'indifferenza di fronte alle

richieste di aiuto e alla sofferenza del prossimo.



Nel 77° anniversario della liberazione del campo di Auschwitz, il

nostro pensiero commosso e partecipe va allora ai milioni di donne,

uomini, bambini e ragazzi che non hanno mai fatto ritorno dai campi di

concentramento e sterminio, perché la loro religione, la loro

appartenenza etnica, le loro idee politiche, il loro orientamento

sessuale o il loro aspetto fisico non erano conformi alle aberrazioni

dell'egemonia ariana. Alle centinaia di migliaia di vite violate e

calpestate con brutalità feroce nei ghetti delle grandi città europee.

A tutti coloro che subirono umiliazioni e torture indicibili, nel nome

dell'odio antisemita e della persecuzione dei diversi.



Perché la volontà e il dovere di coltivare la memoria, di onorarne il

significato e i tragici insegnamenti, sono essenziali nel far sì che

nessuno, come ha scritto Primo Levi, debba più subire “l'esperienza

non umana di chi ha vissuto giorni in cui l'uomo è stato una cosa agli

occhi dell'uomo”.

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