Il destino li ha riuniti nella casualità, perché il medesimo giorno l’uno concludeva il suo percorso terreno, l’altro entrava nell’olimpo del Premi Nobel per la Letteratura. Ma erano già indissolubilmente legati da una medesima concezione della poesia, della musica e dell’uso della parola; entrambi hanno rappresentato il massimo fin qui ipotizzabile della “musicalità della parola”.
Le canzoni di Bob Dylan rappresenterebbero la “poesia” anche senza la parte musicale, inserita sulle parole per farne un compendio di reciproca assimilazione. Dario Fo non ha sfruttato la musica con le sue parole, perché sapeva benissimo di recitare in musica, secondo i principi estetici della corrente letteraria dello “scrivere per l’orecchio”, una corrente letteraria contemporanea, alla quale ho avuto l’occasione di aderire, ha codificato i canoni della “musicalità della parola”, superando i precedenti concetti di “teatralità”, “espressività” e “gestualità”, per servirsi della “musicalità” già insita nella parola, se ben collocata in un coerente contesto.
Fin dai tempi più remoti si è ritenuto che suono e ritmo fossero una parte integrante del discorso, vuoi che sia poetico, che dialettico; solo di recente la parola e la musica hanno cercato una via comune in funzione, reciprocamente, complementare. La musicalità intrinseca nella parola, lungi dall’essere una dimensione accessoria, rende gradevole e armonioso l’intero testo, assurgendo a esaltare tale musicalità come parte essenziale di ogni discorso. Dylan e Fo hanno usato tale metro: i critici del Premio Nobel hanno dimostrato di avere capito come, nel loro farsi dialettico, musica e parole formino un indivisibile “uno”.
Rosario Amico Roxas