Venerdì, 19 aprile 2024 - ore 07.14

La crisi climatica dietro l’inflazione europea

La Bce non esclude una nuova recessione

| Scritto da Redazione
La crisi climatica dietro l’inflazione europea

La crisi climatica dietro l’inflazione europea La Bce non esclude una nuova recessione di Luca Aterini

 I dati rilasciati oggi da Eurostat mostrano che il tasso d’inflazione annuale nell’Ue è arrivato al 9,8% a luglio – un anno fa era al 2,5% – e nonostante un leggero calo in alcuni Paesi (in Italia è sceso all’8,4%, -0,1% su giugno) sembra destinato a crescere ancora, come spiega Isabel Schnabel, membro del Comitato esecutivo della Banca centrale europea (Bce).

In un’intervista condotta dalla Reuters e rilasciata oggi dalla Bce, dove si sottolinea che «i rischi al ribasso per la crescita economica sono aumentati anche a causa di ulteriori shock dal lato dell’offerta, causati dalla siccità o dal basso livello dell’acqua nei principali fiumi», Schnabel esordisce affermando che «al momento» non vede «alcuna indicazione di una profonda e prolungata recessione» ma «non è chiaro neanche se ci sarà una recessione tecnica nell’area euro. Non lo escluderei».

Anche perché nel frattempo l’economia dell’area dell’euro sta chiaramente rallentando, e lo spettro della stagflazione – un quadro economico in cui la crescita dell’inflazione si abbina ad una stagnazione economica, come durante la crisi petrolifera del 1973 innescata dalla guerra del Kippur – si fa concreto.

«Anche se fossimo entrati in una recessione – argomenta Schnabel – è abbastanza improbabile che le pressioni inflazionistiche diminuiscano da sole. Quello che stiamo vedendo è uno shock dal lato dell’offerta, che sta rallentando la crescita e allo stesso tempo sta aumentando le pressioni sui prezzi. Il rallentamento della crescita probabilmente non è quindi sufficiente a frenare l’inflazione, anche se riduce le pressioni sui prezzi dovute al rallentamento della domanda».

Di fatto, neanche la Bce riesce a tracciare proiezioni economiche ragionevolmente attendibili sull’evolversi dello scenario inflazionistico: «È probabile che queste pressioni inflazionistiche rimangano con noi per qualche tempo; non svaniranno rapidamente. Nonostante la normalizzazione della politica monetaria in corso, ci vorrà del tempo prima che l’inflazione torni al 2%. Ma le previsioni si sono rivelate piuttosto difficili negli ultimi anni – continua Schnabel – Dobbiamo essere consapevoli che qualsiasi modello di proiezione avrà difficoltà a gestire i cambiamenti strutturali fondamentali legati alla pandemia, alla guerra o alla transizione verde».

Nonostante l’incertezza, le dinamiche di fondo sono però piuttosto chiare e hanno a che vedere con un’economia eccessivamente incentrata sui combustibili fossili, per di più importati in larghissima maggioranza. Come spiegava la stessa Schnabel la scorsa primavera nell’ambito di una conferenza Bce, «l’impennata dei prezzi delle materie prime sta spingendo l’inflazione in molti Paesi ai livelli più alti degli ultimi 40 anni, chiedendo un cambiamento radicale nella politica energetica. Oggi la nostra dipendenza dalle fonti energetiche fossili non è solo considerata un pericolo per il nostro pianeta, ma è anche sempre più vista come una minaccia alla sicurezza nazionale e ai nostri valori di libertà, libertà e democrazia. L’accelerazione della transizione verso le energie rinnovabili è il compito del momento, considerando queste minacce. Ogni pannello solare installato, ogni centrale idroelettrica costruita e ogni turbina eolica aggiunta alla rete ci stanno portando un passo avanti verso l’indipendenza energetica e un’economia più verde».

Come ogni transizione, questo passaggio richiede però di essere gestito adeguatamente per realizzarsi con successo: «Una volta che la domanda di energia potrà essere sempre più soddisfatta con le energie rinnovabili, le famiglie beneficeranno di prezzi dell’elettricità più bassi. Tuttavia – sottolinea Schnabel –  il passaggio verso questo nuovo stato stazionario non avverrà gratuitamente. C’è un prezzo da pagare per diventare ecologici a un ritmo che riflette il duplice obiettivo di salvaguardare sia il nostro pianeta che il nostro diritto all’autodeterminazione. Ma vale la pena pagare quel prezzo, compreso il sostegno fiscale necessario per proteggere i membri più vulnerabili della società. Mentre costruiamo un’economia più sostenibile, ci troviamo di fronte a una nuova era di inflazione energetica con tre shock distinti ma interconnessi che possono portare a un periodo prolungato di pressione al rialzo sull’inflazione».

Il primo shock è quello che Schnabel chiama climateflation, ovvero l’inflazione da crisi climatica, legata ai costi del cambiamento climatico stesso: «Con l’aumento del numero di disastri naturali e di gravi eventi meteorologici, aumenta anche il loro impatto sull’attività economica e sui prezzi. Ad esempio, siccità eccezionali in gran parte del mondo hanno contribuito al recente forte aumento dei prezzi dei generi alimentari che sta imponendo un pesante fardello alle persone che lottano per sbarcare il lunario».

Il secondo shock – la fossilflation, legata ai combustibili fossili – è intrecciato al primo, ed è «responsabile di gran parte del recente forte aumento dell’inflazione nell’area dell’euro […] riflettendo principalmente i forti aumenti dei prezzi del petrolio e del gas». Da una parte la stessa lotta al cambiamento climatico «è un fattore che contribuisce a rendere più costosi i combustibili fossili e quindi più visibili i loro danni ambientali», tuttavia Schnabel sottolinea il ruolo della speculazione sui mercati energetici, dato che «una quota schiacciante del recente aumento dei prezzi di gas e petrolio al di sopra dei livelli pre-pandemia – il loro aumento “in eccesso” – riflette la capacità dei produttori di energia di orientare l’offerta in un mercato oligopolistico. I mercati del petrolio e del gas sono spesso artificiosamente tesi, spingendo al rialzo i prezzi a spese degli importatori di energia, come l’area euro».

Gli effetti del terzo shock inflazionistico, la greenflation legata alla transizione ecologica, sono invece più sottili. «La maggior parte delle tecnologie verdi richiede quantità significative di metalli e minerali, come rame, litio e cobalto, soprattutto durante il periodo di transizione – spiega Schnabel – I veicoli elettrici, ad esempio, utilizzano oltre sei volte più minerali rispetto alle loro controparti convenzionali. Un impianto eolico offshore richiede una quantità di rame sette volte superiore rispetto a un impianto a gas.

Indipendentemente dal percorso verso la decarbonizzazione che alla fine seguiremo, le tecnologie verdi sono destinate a fare la parte del leone nella crescita della domanda per la maggior parte dei metalli e dei minerali nel prossimo futuro. Tuttavia, con l’aumento della domanda, l’offerta è limitata nel breve e medio termine. In genere ci vogliono dai cinque ai dieci anni per sviluppare nuove miniere. Questo squilibrio tra domanda in aumento e offerta limitata è il motivo per cui i prezzi di molte materie prime critiche sono aumentati in modo misurabile negli ultimi mesi».

Che fare dunque? La strategia migliore è investire per tagliare i tempi della transizione ecologica, riducendo così i rischi sia per il clima sia per l’economia. Dato che la riduzione nelle emissioni di gas serra è una strada obbligata per l’umanità, ritardare l’azione significherebbe infatti avere ancora meno tempo (e dunque più costi) per arrivare al termine della rivoluzione.

«Questi sviluppi – conclude Schnabel nel merito – illustrano un importante paradosso nella lotta al cambiamento climatico: più veloce e urgente diventa il passaggio a un’economia più verde, più costoso può diventare nel breve periodo. Finora, la greenflation ha avuto un impatto molto minore sui prezzi al consumo finale rispetto alla fossilflation. È quindi fuorviante sostenere che rendere le nostre economie più verdi sia responsabile del doloroso aumento dei prezzi dell’energia. Ma poiché sempre più industrie passano a tecnologie a basse emissioni, ci si può aspettare che la greenflation eserciti pressioni al rialzo sui prezzi di un’ampia gamma di prodotti durante il periodo di transizione».

Da compensare tramite un’azione politica efficace nella redistribuzione di reddito e ricchezza, a favore delle fasce sociali più deboli (come i giovani, specialmente nel caso italiano) e dunque maggiormente esposte agli shock economici che stiamo subendo.

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