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Nel 70° della fucilazione.Ricordo del partigiano 18enne Renato Campi

Significativa cerimonia avvenuta per rievocare, nel 70° del sacrificio, il diciottenne partigiano RENATO CAMPI.

| Scritto da Redazione
Nel 70° della fucilazione.Ricordo del partigiano 18enne Renato Campi

nel 70° della fucilazione RICORDO DEL PARTIGIANO DICIOTTENNE  RENATO CAMPI

Diamo conto della significativa cerimonia avvenuta, nella mattinata di domenica 22 febbraio, presso la cappella dei Caduti della Resistenza del Civico Cimitero per rievocare, nel 70° del sacrificio, il diciottenne partigiano RENATO CAMPI.

L'ANPI lo ha ricordato deponendo un omaggio floreale al “tempietto partigiano”, dove riposano le sue spoglie. Egli venne  fucilato 70 anni fa, il 16 febbraio 1945, al “poligono del tiro a segno” in località Po (luogo dove poi sorgerà la raffineria). La sua figura ed il senso del suo sacrificio sono stati rievocati a numerosi partecipanti alla cerimonia dal presidente provinciale dell'ANPI, Mariella Laudadio, e da Giuseppe Azzoni. Alla manifestazione partecipavano alcuni parenti di Renato Campi, G. Carnevali e Graziano Bertoldi dell’Associazione Partigiani Cristiani, una delegazione dell’Associazione Emilio Zanoni, il capo-gruppo del PD in Consiglio Comunale, Rodolfo Bona.

Azzoni è partito, nel suo intervento rievocativo, dal contesto in cui il giovane resistente fu trucidato.

Dopo l’8 settembre 1943, nell’Italia occupata dai tedeschi la repubblichina fascista emise i famigerati bandi di arruolamento coatto, con cui si minacciavano pene di ogni genere, anche per i familiari, ai disobbedienti, considerati “renitenti e disertori”. Renato era nato a Cremona il 22 dicembre 1925 in una numerosa famiglia povera di via Alfeno Varo, il padre Alfredo carrettiere, la madre Giuseppa casalinga. Era dunque appena diciottenne e rientrava nella classe di età di quei bandi. Venne quindi arruolato per obbligo nella Guardia Nazionale Repubblicana. Egli però, come la maggior parte dei giovani, non voleva proprio servire il nazifascismo e già nel luglio 1944 fuggì sulle montagne piacentine, nella zona di Vigoleno, dove entrò nella 62° Brigata Garibaldi  “Luigi Evangelista” comandata dal famoso Giovanni Grcavaz “lo Slavo”. Il diciannovenne partigiano Renato Campi, si diede il nome di battaglia “Spifferi”, nella seconda metà del ‘44 è attivo nelle lotte e nella notevole attività di questa importante formazione. Sarà infatti riconosciuto come “partigiano combattente caduto”.  A seguito del tremendo rastrellamento tedesco del gennaio 1945, quello effettuato con metodi particolarmente efferati da 45.000 tra tedeschi e repubblichini e che passò sotto il nome di “rastrellamento dei mongoli”, la brigata fu costretta a disperdersi. Molti partigiani caddero, tra cui i cremonesi Carlo Gilberti, Lorenzo Gastaldi, Giovanni Canevari, Gino Spagnoli, a Bettola. Campi, dopo un percorso avventuroso, attraversata l’Adda a Crotta, rientrò clandestinamente a Cremona dove però venne individuato e preso dai fascisti. Fu torturato nella famigerata sede dell’UPI, la villa Merli di Viale Trento e Trieste, con scosse elettriche e sevizie. Al processo agli aguzzini, che si tenne nell’aprile ’46 nel tribunale di Cremona, la sorella riferì che lui le disse in un breve colloquio che riuscì ad ottenere: “preferisco la morte a continuare così” e che poi, sul suo cadavere, risultarono evidenti le cicatrici delle torture. I fascisti volevano sapere dell’organizzazione che lo aveva indirizzato in montagna, dei suoi compagni di lotta, di dove erano i loro nascondigli e così via. Lui, però, resistette agli interrogatori,  venne trasferito nella caserma “Muti” di via Sacchi, lì sottoposto ad una specie di processo e condannato a morte per “diserzione e tradimento” (da coloro che davvero tradirono l’Italia al servizio dell’occupante tedesco!). Scrisse una commovente lettera al padre: “Caro papà, sono qua ancora poche ore e poi dovrò morire..” e parla dei familiari, ricorda la madre, raccomanda al padre “specialmente il mio caro fratellino Carlo che ci ho voluto tanto bene”: era il più piccolo, aveva tre anni. Il giorno dell’esecuzione, venerdi 16 febbraio, volle andare a piedi dalla caserma di via Sacchi, vicino al Ponchielli, lungo il viale Po fino al poligono. Qui  ebbe l’incredibile forza di ironizzare con una battuta, esclamando, davanti al cartello “Vietato l’ingresso agli estranei”, “allora io qui non ci posso entrare!”. Si è saputo che disse al capitano fascista che comandava il plotone di esecuzione “…fatemi morire bene… viva l’Italia”. Rifiutò di essere bendato. Riportò la notizia della esecuzione “Il Regime fascista”, due giorni dopo, col titolo “Fucilazione di un disertore”.

Pochi giorni dopo l’uccisione di Campi, proprio nello stesso posto, ebbe luogo una crudele “fucilazione simulata”. Il partigiano cremonese Guido Uggeri, catturato dall’UPI e torturato a Villa Merli, venne portato al poligono e messo al muro. “Farai la fine di Campi” gli dissero mettendogli accanto una bara pronta ad accoglierlo. Poi il plotone sparò a salve e Uggeri venne trasferito nel carcere di Bergamo. Lo racconterà lui stesso dopo la Liberazione. E’ giusto anche ricordare che nello stesso poligono di tiro il plotone di esecuzione della GNR fascista aveva fucilato, il 12 marzo 1944, il ventenne Ciro Gandino, di origine napoletana e residente a Remedello (BS), per “trasgressione al bando del Duce” e detenzione di armi.

Va, altresì segnalato che nella stessa giornata di domenica presso al Circolo Signorini in Via Castelleone, 7 a Cremona, per iniziativa dell’ARCI e dell’ANPI,  è stata ricordata, nel secondo anniversario della scomparsa, la figura di Kiro Fogliazza, indimenticato Presidente dell’ANPI Provinciale.

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L'antifascismo ai tempi della risacca anti-idealistica. Nel pubblicare la cronaca della cerimonia rievocativa del 70° del sacrificio di Renato Campi, L’Eco del Popolo, testata socialista per tanti anni diretta ed animata dalla professionalità giornalistica e dalla tensione ideale di Emilio Zanoni, non può esimersi da una chiosa sul contesto in cui Associazioni Partigiane, semplici iscritti, pochissimi uomini di sinistra investiti di funzioni istituzionali persistono nella loro testimonianza antifascista. L’anno appena iniziato integrerebbe (in teoria) il 70° della Liberazione. Chi scrive, la cui è età quasi coincide con questa scansione temporale, iniziò (per quanto tale circostanza possa avere una valenza) la propria militanza politica facendola coincidere con l’adesione ai valori dell’antifascismo. Il culmine della testimonianza ci sarebbe stato nel 1965, in occasione del ventennale.

Sarà che, a dispetto delle divaricazioni indotte dalle maggioranze governative e parlamentari, la solidarietà, per quanto non più granitica, della comune appartenenza al CLN non si era allentata; sarà che molti dei protagonisti di quell’epopea erano, biologicamente e politicamente, vivi e vegeti, nonché fermamente intenzionati ad esaltare le origini e le radici della loro testimonianza civile. Sarà tutto ciò che si vuole; ma, quel diciottenne ebbe la sensazione,  ora suffragata dalla rilettura della raccolta dell’Eco del Popolo per quelle annate,  che la politica, le istituzioni, la gente di allora non avevano perso di vista la ricorrenza. La testata socialista diede in diretta, praticamente tutte le settimane, le notizie attorno alla preparazione di una adeguata celebrazione.

Il Comune Capoluogo, guidato dal Sindaco dc Vernaschi e dal Vicesindaco socialista Coppetti, e la Provincia, presieduta dall’avv. dc Ghisalberti, furono al centro dello sforzo per l’allestimento di iniziative coerenti ed adeguate all’importanza della ricorrenza.

Iniziative che seppero coinvolgere tutti gli altri Comuni della Provincia, le organizzazioni di massa, gli ambienti scolastici.

Si può dire altrettanto per la preparazione del 70°?

Se abbiamo capito bene, il Comune di Cremona ha delegato il consigliere Rodolfo Bona a coordinare il programma celebrativo. La Provincia, praticamente espropriata, potrebbe, però, mettere in campo (a costi zero) una sua moral suasion nei confronti delle istanze territoriali, della fortunatamente cospicua e vitalissima rete associativa, bibliotecarie e culturale, dell’articolazione scolastica.

Alla fine di febbraio, però, ci sembra, se si fa eccezione per il generoso impegno delle Associazioni Partigiane e di volonterosi singoli, che i “lavori” siano un po’ indietro. Questa è una riflessione obiettiva, ma vuole essere anche un’esortazione a non perdere di vista l’importanza della ricorrenza.

Il pericolo è, infatti, che valori fondamentali per l’ispirazione della vita democratica e repubblicana vengano risucchiati dalla spirale del disimpegno e dell’aridità che da troppo tempo contraddistingue la vita pubblica.

Insieme ad una esortazione in senso attivo, ci permettiamo anche alcune segnalazioni per il non lasciar fare.

E’ notizia di questi giorni, dopo la nuttata dell’aggressione violenta e gli scontri con i centri cosiddetti sociali, la riapertura in centro storico di CasaPound, l’organizzazione neo-fascista, che da qualche anno non ha mancato di lasciare traccia di sé.

Tra poco più di due mesi, come è stato sia pure ufficiosamente annunciato,  è prevedibile che possa svolgersi nel Civico Cimitero (a partire dalla chiesa di rito cattolico) una manifestazione che ha dimostrato cogli anni di avere poco di religioso e molto di apologia del fascismo.

Lungi da noi l’idea di postulare provvedimenti che limitino le libertà individuali e collettive, ma sentiamo il dovere di ricordare che l’apologia del fascismo è sanzionata dalle leggi della Repubblica.

Da tale punto di vista, si deve prendere atto del fatto che la vigilanza degli organi di polizia e della Magistratura si sia rivelata tutt’altro che occhiuta ed ossessiva.

Inequivocabilmente, la giurisdizione del Comune è poca cosa. Ma il Comune, istituzione a più diretto contatto con la comunità dei cittadini, è investito di un’autorevolezza etica e morale ben superiore alle attribuzioni. Può agire da subito per sollecitare i superiori poteri a non girarsi dall’altra parte. Può sollecitare la gerarchia ecclesiale a richiamare all’ordine un suo pastore non insensibile alle nostalgie. Può (e deve) vietare che un luogo di culto della memoria dei cittadini defunti, ricadente peraltro nelle sue prerogative, diventi palcoscenico ancora, nell’anno del 70° della Liberazione, per becere reiterazioni di apologia di uno sciagurato ciclo storico del nostro Paese.

A meno che, ma è meglio saperlo, si voglia delegare la testimonianza antifascista ai circoli “antagonisti”.

e.v.

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