Giovedì, 16 maggio 2024 - ore 22.33

UNA QUAESTIO SULLA PENA DELL’ERGASTOLO|A.Pugiotto

| Scritto da Redazione
UNA QUAESTIO SULLA PENA DELL’ERGASTOLO|A.Pugiotto

SOMMARIO: 1. Il giudice che condanna all’ergastolo infligge una pena costituzionalmente legittima? – 2. Trama (costituzionale) e interpretazioni fuori copione. – 3. Ritornare a parlare di ergastolo. – 4. Ritornare davanti alla Corte costituzionale. – ALLEGATO. Ipotesi di atto di promovimento alla Corte costituzionale: 1. Rilevanza processuale della quaestio. – 2. Impossibilità di un’interpretazione conforme a Costituzione. – 3. Riproponibilità della quaestio. – 4. Il mutato contesto costituzionale. – 5. Determinazione del petitum (dimensione statica e dimensione dinamica dell’ergastolo). – 6. Incostituzionale perché pena non rieducativa (in violazione dell’art. 27, comma 3, Cost.). – 7. Incostituzionale perché pena fissa e automatica (in violazione degli artt. 3, 25 comma 2, 27 commi 1 e 3, Cost.). – 8. Incostituzionale per disparità di trattamento tra ergastolani (in violazione dell’art. 3 Cost.). – 9. Incostituzionale perché contraria al senso di umanità (in violazione dell’art. 27, comma 3, Cost.). – 10. Incostituzionale come la pena di morte (violazione dell’art. 27, comma 4, Cost.). – 11. Incostituzionale per anacronismo legislativo. – 12. Dalla dimensione statica alla dimensione dinamica dell’ergastolo (profili d’inammissibilità processuale). – 13. Il postulato (non persuasivo) della giurisprudenza costituzionale. – 14. Incostituzionale perché giuridicamente resta una pena perpetua. – 15. Ancora sulla concreta perpetuità (alla luce del diritto vivente in tema di concessione della liberazione condizionale). – 16. Incostituzionale perché pena indeterminata (violazione degli artt. 3, 25 commi 2 e 3, Cost. e dell’art. 117, comma 1, Cost. in relazione all’art. 7 CEDU). – 17. Profilo sostitutivo della dichiarazione d’incostituzionalità e richiesta di annullamento consequenziale della pena dell’ergastolo con isolamento diurno.
1. Il giudice che condanna all’ergastolo infligge una pena costituzionalmente legittima?
«Nella nostra civilissima società la gravità di un male è rivelata dalla reticenza con cui se ne parla», e quanto più lo si presenta come «una dolorosa necessità», tanto più si tende «a non parlarne, perché il fatto è sconveniente». La riflessione di Albert Camus , svolta con riguardo alla pena di morte, si può pacificamente estendere all’ergastolo, che della pena capitale è l’ambiguo luogotente.
Ritornare a discutere del carcere a vita è, invece, necessario. E lo si deve fare ponendo il problema nel modo più radicale: «i giudici italiani, condannando taluno all’ergastolo, irrogano una pena costituzionalmente legittima?» . L’interrogativo rimanda al disegno costituzionale della pena. Questo impone di guardare alla reclusione dietro le sbarre «non come “punto di arrivo” ma come punto da cui “ripartire”» , verso una possibile risocializzazione che la Costituzione non preclude a nessuno, per quanto grave e orrenda sia la sua accertata responsabilità penale. Ed esige, altresì, che tale orizzonte non sia mai oscurato durante l’intera successione delle fasi in cui si articola la vicenda ordinamentale della pena, «da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue» . Come possa conciliarsi con tale panorama costituzionale una pena edittalmente perpetua, che obbliga il giudice a pronunciare una condanna a vita (cioè ad mortem), per sua natura eliminativa, è con tutta evidenza un’incognita.
E’ un problema di legalità costituzionale, quindi, non di (mancato) approccio umanitario alla pena dell’ergastolo. Su questo equivoco si è giocato da sempre, attribuendo le spinte abolizioniste a «motivi prettamente sentimentali»  mossi da pietà e riconducibili al generoso desiderio di «umanizzare le pene» : così impostato, la sua soluzione non richiede la rimozione del carcere a vita, passando piuttosto attraverso l’introduzione di modalità esecutive capaci di attenuare l’afflittività della pena e prevedendo anche per l’ergastolano un possibile trattamento risocializzante, attraverso il suo accesso ai benefici penitenziari. Ma se il nodo è costituzionale, si tratta di risposte insufficienti: perché la Costituzione pretende che una pena esclusivamente retributiva non sia mai inflitta né, prima ancora, legislativamente minacciata.
La semplice previsione edittale di una pena perpetua, quindi, interpella costituzionalmente. E richiama ad un esigente obbligo di coerenza, a fortiori dopo la scelta finalmente compiuta di dire «mai più» alla pena capitale, anche nell’ipotesi estrema delle leggi di guerra : a quale titolo lo Stato può prendersi la vita di un condannato a morte? Nessuno, risponde il nuovo art. 27, comma 4, della Costituzione. L’interrogativo, oggi, va solo riformulato, aggiornandolo: a quale titolo lo Stato può prendersi la vita di un condannato all’ergastolo?

2. Trama (costituzionale) e interpretazioni fuori copione

A guardare con le lenti del giurista in quale modo sia stato affrontato in passato questo problema, l’impressione è che nessuno degli attori in scena (dalla Corte di Cassazione ai tribunali penali, dal legislatore al Giudice delle leggi) abbia interpretato correttamente la trama (costituzionale), finendo spesso per recitare un ruolo non suo.
E’ accaduto certamente alla Corte di Cassazione le cui Sezioni Unite, sollecitate a porre la questione in via incidentale già nel 1956, mascherarono da delibazione processuale di manifesta infondatezza quello che, nella sostanza, fu un vero e proprio esercizio di sindacato (diffuso, dunque non ammesso) di costituzionalità . Chiamate a interpretare il ruolo di giudice a quo, si sostituirono invece alla parte assegnata dall’art. 134 Cost. al Giudice delle leggi.
Quel precedente ha pesato, ben oltre il suo valore processuale non vincolante. Ha contribuito per lunghi anni a inibire l’operato dei tribunali penali restii a proporre la quaestio alla Corte costituzionale: chi per convinta adesione alla indefettibilità del carcere a vita (costi costituzionalmente quel che costi); chi preferendo la exit strategy del ricorso alla concessione delle attenuanti generiche, con conseguente pronuncia di condanna alla reclusione da venti a ventiquattro anni,  evitando così di infliggere nel caso concreto una pena sine die.
Quanto al legislatore, non è stato capace di andare oltre alcuni tentativi di abrogare il carcere a vita dall’ordinamento penale, tutti falliti . Acconciandosi addirittura - nella X Legislatura - ad approvare una mozione alla Camera che impegnava il Governo a presentare un disegno di legge per l’abolizione dell’ergastolo : scelta davvero singolare, dato che l’iniziativa legislativa è prerogativa di ogni deputato, mentre il  compito di un’assemblea parlamentare è di approvare leggi (e i voti favorevoli a quella mozione avrebbero potuto, ben più utilmente, essere usati a tale scopo). Un vero monumento alla politica del rinvio.
Più complesso è il ruolo interpretato dalla Corte costituzionale. Finalmente investita - due anni prima - della quaestio, la rigetta con sentenza n. 264/1974, sbrigativa già nello stile redazionale . Lo fa negando che funzione (e fine) della pena sia «il solo riadattamento dei delinquenti» e, soprattutto, riconoscendo nella liberazione condizionale - e nella sua concessione attraverso un procedimento oramai giurisdizionalizzato  - la porta che «consente l’effettivo reinserimento anche dell’ergastolano nel consorzio civile». Fin da subito, dunque, la scelta dei giudici costituzionali è di misurare la legittimità dell’ergastolo guardando al «momento dinamico dell’applicazione della pena», ignorandone invece il «momento statico […] della previsione e dell’irrogazione» : scelta strategica - da allora sempre confermata  - che ha consentito alla Corte costituzionale di estendere progressivamente le novità dell’ordinamento penitenziario anche a chi, altrimenti, ne sarebbe rimasto escluso in ragione di una implicita presunzione di irrimediabile pericolosità . Ma a quale prezzo?
Il Giudice delle leggi ci dice che l’ergastolo non vìola la Costituzione perché non è più pena perpetua: cioè, costituzionalmente parlando, afferma che l’ergastolo esiste in quanto tende a non esistere. In tal modo, però, l’argomento della Corte costituzionale dimostra, a contrario, che una reclusione a vita è certamente incostituzionale: dunque, tutti i colpevoli che – per le ragioni più varie – hanno scontato un ergastolo fino a morirne, sono stati sottoposti ad una pena che la Costituzione respinge. E’ accaduto. Accade anche oggi. Continuerà ad accadere, sopravvivendo edittalmente la pena della reclusione perpetua.
La ratio decidendi sposata dai giudici costituzionali presenta, inoltre, una qualche ambiguità processuale. La Corte costituzionale è un giudice di norme che pronuncia su disposizioni . Nei confronti dell’ergastolo, invece, ha sempre espresso un giudizio su un fatto (l’eventuale accesso dell’ergastolano alla liberazione condizionale), evitando così di pronunciarsi sulla relativa disposizione che parla, testualmente, di «pena perpetua» (art. 22 c.p.) Così, invece di sindacare il testo legislativo impugnato, ha finito per giudicare impropriamente della sua occasionale disapplicazione. Anch’essa, dunque, andando fuori copione.
 

3. Ritornare a parlare di ergastolo

Nel tempo, la strategia argomentativa elaborata a Palazzo della Consulta ha finito per inaridire la vena incidentale del giudizio di costituzionalità. La questione di legittimità dell’art. 22 c.p. è arrestata sul nascere come manifestamente infondata dagli stessi giudici penali perché «l’ergastolo, nella concreta realtà, a seguito della l. 25 novembre 1962, n. 1634 e dell’entrata in vigore dell’ordinamento penitenziario (l. 26 luglio 1975, n. 354, con successive modificazioni), ha cessato di essere una pena perpetua e, pertanto, non può dirsi contraria al senso di umanità od ostativa alla rieducazione del condannato; e ciò non solo per la possibilità della grazia, ma altresì per la possibilità di un reinserimento incondizionato del condannato nella società libera, in virtù degli istituti del vigente diritto penitenziario» .
Così la mera possibilità per l’ergastolano di essere ammesso alla liberazione condizionale viene accreditata nella giurisprudenza (penale e costituzionale) come un dato giuridico certo, capace addirittura di trasformare la natura perpetua dell’ergastolo in pena temporanea.
Non importa che l’accesso al beneficio penitenziario sia tutt’altro che automatico e che venga concesso dai giudici di sorveglianza con grande parsimonia. Né che proprio la perpetuità dell’ergastolo comporti, per chi vi è sottoposto, una serie di conseguenze, di tipo interdittivo e di tipo penitenziario, estranee – in tutto o in parte – alle altre pene restrittive della libertà personale. Né che, tra i 1581 ergastolani , molti si trovino dietro le sbarre da oltre 26 anni, soglia temporale fissata dalla legge per aspirare al beneficio della liberazione condizionale. Né che la legge precluda tale beneficio, come tutte le altre misure extramurarie, ai condannati all’ergastolo c.d. ostativo (e sono qualche centinaio), sottoposti cioè al regime speciale dell’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario. Per quanto immaginifica, l’idea che nessuno resti più in carcere per tutta la vita è, oramai, senso comune.
E’ invece un’impostura, giuridica e fattuale, che occorre svelare. Inermi ma non inerti, sono stati soprattutto gli «uomini ombra» all’ergastolo (come loro stessi si definiscono) a vincere la nostra abitudine a non sentire e a non vedere le cose che preferiamo non ascoltare né guardare. L’hanno fatto con iniziative che hanno rotto il muro del silenzio  o con la forza della narrazione autobiografica tradottasi in libri preziosi per comprendere cosa sia davvero il carcere a vita , ora addirittura preannunciando forme di lotta nonviolenta anche estreme, come il digiuno a oltranza, dove il corpo recluso dà corpo alle proprie ragioni altrimenti inascoltate.
Stando così le cose, per chi è convinto che la reclusione perpetua sia estranea al disegno costituzionale della pena, avere il potere di fare qualcosa, e non farlo, rappresenta un grave peccato di omissione. L’ergastolo (ma più corretto sarebbe parlare di ergastoli al plurale ) è ancora presente nel nostro ordinamento, come per un persistente episodio di paraplegia costituzionale che dura ormai da troppo tempo. E’ il momento di porvi rimedio, ma come?  
 
  
4. Ritornare davanti alla Corte costituzionale

In occasione di un recente convegno promosso presso il Senato della Repubblica e dedicato al problematico rapporto tra ergastolo e democrazia , ho motivato le ragioni per le quali (non la via legislativa né quella referendaria, bensì) la questione incidentale di costituzionalità dell’ergastolo rappresenti una strada praticabile, con qualche ragionevole chance di successo. E, per dare maggior concretezza alla proposta, ho offerto la mia disponibilità per elaborare un atto di promovimento pilota alla Corte costituzionale, da mettere nelle mani di chi possiede le chiavi d’accesso al sindacato incidentale: i tribunali penali e, in via mediata, gli avvocati difensori di persone imputate per reati puniti con la pena dell’ergastolo o alla pena perpetua già condannati.
Onoro ora l’impegno assunto allora, attraverso l’ipotesi di ordinanza di rimessione allegata al presente testo.
Dal punto di vista processuale, l’atto è pensato come se provenisse da un tribunale penale, chiamato a irrogare la pena dell’ergastolo al termine di un giudizio di cognizione. Ma, debitamente emendato, può essere utilmente promosso anche in sede di esecuzione penale, dove non mancano le occasioni per il magistrato di sorveglianza di applicare misure che presuppongono la condanna all’ergastolo. In ambedue i casi, la  rilevanza processuale della quaestio è certa.
Nel merito, l’indicazione di numerosi parametri costituzionali sospettati di violazione non nasce da bulimia argomentativa. Risponde semmai all’esigenza di strutturare la quaestio in modo da ottenere dal Giudice delle leggi una pronuncia che, finalmente, misuri la legittimità dell’ergastolo quale pena edittale. Così come – sia pure in via subordinata – si fa carico di argomentare l’incostituzionalità nell’ipotesi in cui, come finora ha sempre fatto, la Corte spostasse la propria attenzione dalla dimensione statica dell’ergastolo alla sua proiezione dinamica.
Della persuasività di tutte le censure prospettate sono personalmente convinto. Ovviamente la scelta di quali selezionare e sottoporre alla Corte costituzionale spetta, però, a chi vorrà innescare in concreto il giudizio incidentale di legittimità. 
Segnalo che il petitum non si limita alla declaratoria d’incostituzionalità degli artt. 17, n. 1, 18, comma 1, e 22 c.p.: l’ordinanza ipotizzata prefigura la necessaria integrazione normativa conseguente all’eventuale annullamento della pena perpetua (da sostituirsi con quella a trent’anni di reclusione), in coerenza con quanto già previsto nel nostro ordinamento per scelta legislativa. E richiede altresì alla Corte costituzionale l’annullamento, in via consequenziale, dell’autonoma pena dell’ergastolo con isolamento diurno (art. 72 c.p.), che aggrava esponenzialmente tutti i profili d’illegittimità contestati all’ergastolo comune.
Un’ultima avvertenza redazionale. In un atto di promovimento alla Corte costituzionale le citazioni dottrinali sono precluse: a tale regola ho dovuto attenermi. Il mio auspicio è di poter rimediare alle forzate omissioni bibliografiche quanto prima, in sede di commento alla sentenza che – ne sono convinto – la Corte sarà, presto o tardi, chiamata a pronunciare.

 
ALLEGATO

IPOTESI DI ATTO DI PROMOVIMENTO
ALLA CORTE COSTITUZIONALE


1. Rilevanza processuale della quaestio 

[Illustrazione dei fatti di causa, dai quali si evince che l’imputato è a giudizio per reato punito con la pena dell’ergastolo. Laddove ne ricorrano le condizioni, attestazione del compiuto bilanciamento tra circostanze, il cui esito conferma l’applicabilità della pena dell’ergastolo]. 
Allo stato degli atti, nel corso del presente giudizio, questo giudice si trova dunque nelle condizioni di infliggere all’imputato la condanna della reclusione a vita.
Certa la sua rilevanza processuale, con il presente atto di promovimento si sottopone alla Corte costituzionale la questione di legittimità dell’ergastolo, annoverato tra le pene detentive agli artt. 17, n. 2 e 18, comma 1, c.p. e disciplinato dall’art. 22 c.p.


2. Impossibilità di un’interpretazione conforme a Costituzione

Come si argomenterà, i molteplici dubbi di legittimità costituzionale dell’ergastolo nascono dalla sua connotazione, esclusiva e insieme necessaria, di pena perpetua, stante quanto espressamente prescritto all’art. 22 c.p. Si tratta di una barriera testuale ermeneuticamente insuperabile.
Per un verso, è la stessa Corte costituzionale a riconoscere che, «essendo l’ergastolo per definizione una pena senza una scadenza che sia possibile anticipare» (sent. n. 274/1983) esso «non può mai essere considerato una pena temporanea» (ord. n. 337/1995), nonostante i benefici penitenziari e la causa estintiva della liberazione condizionale di cui anche l’ergastolano può godere a fini di reinserimento sociale.
Per altro verso, proprio in ragione della sua perpetuità, l’ergastolo conosce un regime giuridico per molti aspetti (ancora) diverso da quello di tutte le altre pene detentive. E’ esclusa l’applicabilità all’ergastolano degli istituti della sospensione condizionale della pena e dell’affidamento in prova ai servizi sociali, perché intrinsecamente incompatibili con una pena di infinita durata. E’ esclusa la prescrizione dei delitti per i quali la legge prevede la pena dell’ergastolo (ex art. 157 c.p.), in base al principio ordinamentale che vuole il periodo di tempo necessario per l’effetto prescrittivo non inferiore alla durata massima della pena prevista. E’ esclusa la possibilità di una riduzione di pena per effetto dell’indulto (cfr., ex plurimis, Cass. pen., sez. I, 12 gennaio 1993, Pau; Cass. pen., sez. I, 10 febbraio 1993, Di Guardo): poiché la durata complessiva dell’ergastolo non è determinabile a priori, sottraendo ad una pena infinita il numero di anni di reclusione condonati, ciò che residua è ancora una pena infinita. Solamente il condannato alla pena dell’ergastolo, cui sia stata revocata la liberazione condizionale, può essere nuovamente ammesso a fruire del beneficio ove ne sussistano i presupposti (giusto quanto deciso dalla Corte costituzionale con sent. n. 161/1997): il mantenimento di una preclusione assoluta equivarrebbe altrimenti per il condannato all’ergastolo – e solo per lui - alla sua perpetua esclusione dall’esito risocializzante del circuito rieducativo. Da ultimo, l’ergastolo, «per il suo carattere di perpetuità», comporta « per chi vi è sottoposto una serie di conseguenze, di tipo interdittivo e di tipo penitenziario, che sono, in tutto o in parte, estranee alle altre pene» restrittive della libertà personale (sent. n. 161/1997).
L’art. 22 c.p., dunque, non si presta ad alcuna interpretazione conforme a Costituzione, che presupporrebbe una natura temporanea di cui l’ergastolo è privo, in ragione del suo inequivoco significato letterale confermato dalle illustrate conseguenze ordinamentali. Non resta, quindi, che investire incidentalmente della questione l’organo istituzionalmente chiamato alla risoluzione dei dubbi di costituzionalità delle leggi.


3. Riproponibilità della quaestio

Questo giudice non ignora che analoga questione è stata già respinta come infondata dalla Corte costituzionale (cfr. sent. n. 264/1974 e, implicitamente, sentt. nn. 115/1964, 168/1994) e ripetutamente delibata come manifestamente infondata dalla Corte di Cassazione (a far data almeno da Cass. pen., sez. un., 16 giugno 1956; vedi, da ultima, Cass. pen., sez. I, 22 agosto 2012, n. 33018). Ciò nonostante si ritiene certamente ammissibile una sua riproposizione, per ragioni sia processuali che di merito.
Sul piano processuale, una sentenza costituzionale di rigetto produce un effetto preclusivo alla riproposizione della medesima quaestio limitatamente a quel giudice di quel giudizio a quo. Non diversamente, un’ordinanza di manifesta infondatezza della Cassazione è priva di un effetto preclusivo processuale erga omnes.
Sul piano sostanziale, rispetto agli oramai lontani precedenti del Giudice delle leggi, è nel frattempo mutato il contesto costituzionale in cui la pena dell’ergastolo viene a collocarsi. Come si vedrà, si tratta di mutamenti di grande rilievo, intervenuti sia nel testo costituzionale sia nell’interpretazione sistematica offertane dalla più recente giurisprudenza costituzionale.
Né, ovviamente, osta ad una riproposizione della quaestio l’esito del referendum popolare del 17-18 maggio 1981, contrario all’abrogazione dell’ergastolo. La sovranità popolare, anche quando esercitata direttamente, incontra il limite insuperabile della Costituzione (ex art. 1, comma 2, Cost.): limite che, ad avviso di questo giudice, è travalicato dalla previsione legislativa di una reclusione a vita. Sul piano giuridico, casomai, è da rilevare come, dichiarando ammissibile il quesito abrogativo (cfr. sentenza n. 23/1981), la Corte abbia implicitamente riconosciuto che l’ergastolo non è una previsione legislativa imposta dalla Costituzione: le leggi costituzionalmente necessarie, infatti, non sono sottoponibili a referendum abrogativo popolare.


4. Il mutato contesto costituzionale

La non manifesta infondatezza della quaestio proposta, per essere adeguatamente motivata, richiede preliminarmente di tratteggiare il disegno costituzionale della pena (e della sua esecuzione), che fornisce le coordinate per la valutazione di conformità degli artt. 17, n. 2, 18, comma 1, e 22 c.p.
Con inizio almeno dalla sentenza n. 313/1990 (poi reiteratamente confermata: cfr., ex plurimis, le decisioni nn.306/1993, 343/1993, 422/1993, 283/1994, 341/1994, 85/1997, 445/1997, 354/2002, 257/2006, 322/2007, 129/2008, 183/2011), l’evoluzione ormai compiutasi nella giurisprudenza costituzionale è nel senso di una presa di distanza dall’originaria concezione polifunzionale della pena, a favore di una valorizzazione in massimo grado della finalità di risocializzazione, che – in quanto  testualmente prevista - non può mai essere integralmente obliterata a vantaggio di altre e diverse funzioni astrattamente perseguibili. Oggi – insegna la Corte costituzionale - tutti i soggetti che entrano nella vita della sanzione penale partecipano di questo medesimo vincolo teleologico: il legislatore (nella fase dell’astratta previsione normativa), il giudice di cognizione (nella fase della commisurazione della pena), il giudice di sorveglianza al pari della polizia penitenziaria (nella fase della sua esecuzione), finanche il Presidente della Repubblica (nell’esercizio del suo potere di fare grazia e commutare le pene).
Unitamente al «senso di umanità», la finalità rieducativa traccia dunque – in ragione dell’art. 27, comma 3, Cost. - l’orizzonte costituzionale cui tutte le pene «devono tendere». Dove l’accento cade ora sul «devono», mentre il «tendere» - lungi dal rappresentare una mera formula ottativa - è da intendersi quale limite all’ordinamento penitenziario, chiamato a garantire il processo rieducativo ma non a imporlo, restando libero il detenuto di aderire o no al trattamento.
Tale orizzonte costituzionale deve restare ben visibile in qualunque fase della vicenda ordinamentale della pena, perché «se la finalità rieducativa venisse limitata alla fase esecutiva, rischierebbe grave compromissione ogni qualvolta specie e durata della sanzione non fossero state calibrate (né in sede normativa né in quella applicativa) alle necessità rieducative del soggetto» (sent. n. 313/1990).
L’orientamento della Corte costituzionale è ora messo in sicurezza dalla nuova formulazione dell’art. 27, comma 4, Cost., introdotta con l. cost. 2 ottobre 2007, n. 1, che ha abolito incondizionatamente la pena di morte. E’ così venuta meno l’unica eccezione costituzionalmente prevista al principio secolarizzato del finalismo rieducativo penale, che recupera in tal modo la propria natura di autentico paradigma costituzionale: per la Repubblica italiana nessuna persona è mai persa per sempre.
La citata revisione costituzionale, da sola, attesta già il superamento di taluni argomenti adoperati in passato dalla Corte di Cassazione a giustificazione della legittimità dell’ergastolo: [1] cade, evidentemente, l’argomento a fortiori, secondo cui se la pena di morte è contemplata in Costituzione, a maggior ragione l’ergastolo non potrà essere considerato costituzionalmente illegittimo; [2] cade, parimenti, l’argomento a contrario, secondo cui il silenzio della Costituzione sull’abolizione dell’ergastolo – a fronte dell’esplicito rifiuto della pena di morte - andrebbe inteso quale sua implicita inclusione. In realtà l’ultimo comma dell’originario art. 27 Cost. non vietava affatto la pena di morte, consentendola invece a particolarissime condizioni ordinamentali («Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra»). I Costituenti avevano cioè fatto testuale riferimento alla pena capitale per includere un’eccezione - altrimenti vietata - alla regola generale, che vuole tutte le pene finalizzate alla risocializzazione del reo e mai contrarie al senso di umanità. La revisione costituzionale del 2007, ripristinando la regola, conferma l’illegittimità di pene esclusivamente retributive aventi – come l’ergastolo - la morte del condannato quale orizzonte temporale.
Lo statuto della pena così tracciato in Costituzione garantisce uno standard di tutela più elevata di quello assicurato nella CEDU (come pure nei Trattati e nella Carta dei diritti dell’UE), dove è testualmente assente un referente teleologico vincolante per la funzione della pena.
Ciò ha consentito alla Corte EDU di elaborare una giurisprudenza che esclude l’incompatibilità tra ergastolo e divieto di trattamenti inumani o degradanti (art. 3 CEDU) alla triplice condizione che: [1] la pena perpetua non sia «gravemente o manifestamente sproporzionata» rispetto al reato commesso; [2] la protrazione della sua esecuzione sia ancora funzionale a uno dei molteplici scopi legittimamente ascrivibili alla pena (indicati dalla Corte di Strasburgo nelle funzioni di retribuzione, prevenzione generale, difesa sociale, risocializzazione del reo); [3] sussista per il condannato la possibilità, de facto o de iure, di essere rimesso in libertà anticipata (cfr. Corte EDU, Grande Camera, sent. 12 febbraio 2008, Kafkaris c. Cipro; Id., sez. IV, sent. 17 gennaio 2012, Vinter e altri c. Regno Unito; Id., sez. IV, sent. 17 gennaio 2012, Harkins e Edwards c. Regno Unito; Id., sez. IV, sent. 10 aprile 2012, Babar Ahmad e altri c. Regno Unito).
Nel complesso, la legittimità convenzionale della pena della reclusione perpetua appare meno esigente di quanto richieda, invece, la legittimità costituzionale. Ci si trova, dunque, in un segmento ordinamentale dove la tutela apprestata dalla CEDU, espressione di uno standard minimo comune a tutti i Paesi aderenti al Consiglio d’Europa, non può mettere in discussione le norme nazionali più favorevoli (ex art. 53 CEDU).


5. Determinazione del petitum (dimensione statica e dimensione dinamica dell’ergastolo)

Riepilogando: ogni pena, ergastolo compreso, deve accordarsi al paradigma costituzionale illustrato, quale livello di tutela più elevata. E tale deve risultare in tutte le fasi diacronicamente ordinate della propria esistenza, «da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue» (sent. n. 313/1990).
Di questa sequenza ordinamentale è qui in gioco la dimensione statica dell’ergastolo, quale pena determinata in astratto dal legislatore e che questo giudice è chiamato a infliggere. A essere in questione è la sua misura edittale, non il suo regime esecutivo che attiene, casomai, alla successiva dimensione dinamica.
Quello che viene posto alla Corte costituzionale è dunque il problema di legittimità degli artt. 17, n. 2, 18, comma 1, e 22 c.p. in quanto veicolano una pena che, per la sua misura, appare di più che dubbia costituzionalità.


6. Incostituzionale perché pena non rieducativa (in violazione dell’art. 27, comma 3, Cost.)

Le disposizioni impugnate violano, innanzitutto, l’art. 27, comma 3, Cost. nella parte in cui prescrive che le pene «devono tendere alla rieducazione del condannato».
In quanto pena usque ad mortem, l’ergastolo si configura come espressione di un estremismo punitivo che esclude a priori la possibilità stessa della risocializzazione. In ciò esso condivide il connotato di tutte le altre pene perpetue (i lavori forzati, le deportazioni a vita) che, dato il loro comune carattere eliminativo, sono prive di finalità rieducativa, richiedendosi per tale scopo – quale condizione necessaria, anche se non sufficiente – la temporaneità del regime punitivo.
Di ciò la stessa giurisprudenza costituzionale dimostra piena consapevolezza. Che la misura dell’ergastolo, nella sua astrattezza, sia incompatibile con la funzione che la pena deve assumere (sia pure in riferimento non al solo art. 27, comma 3, ma anche all’art. 31 Cost.), emerge dalla ratio decidendi della sent. n. 168/1994, dichiarativa d’incostituzionalità del carcere a vita per i minori. La stessa strategia argomentativa - su cui si dovrà tornare (cfr. §§13-16) - che risolve la quaestio sull’ergastolo slittando dalla dimensione statica della pena edittale a quella dinamica del trattamento (cfr., ex plurimis, le sentt. nn. 264/1974 e 161/1997) è la migliore prova della violazione del parametro invocato: se, per escludere l’illegittimità del carcere a vita, è necessario fare leva su istituti come la grazia o la liberazione condizionale - perchè ritenuti capaci di interromperne la perpetuità – ciò vuol dire che la formulazione dell’art. 22 c.p., è inconciliabile con il finalismo dell’art. 27, comma 3, Cost. Di conseguenza, l’espressione «pena perpetua» deve essere cancellata dall’ordinamento.
Edittalmente, per l’ergastolo, la questione della risocializzazione neppure si pone. La rieducazione del condannato subisce, infatti, un’impropria metamorfosi in emenda interiore, atto privato e personale privo d’interesse sociale, pretesa estranea all’ordinamento costituzionale, pericolosa conversione in tanto in quanto correlata all’intensità afflittiva della pena.
Né è possibile ritenere soddisfatta la finalità costituzionale imposta dall’art. 27, comma 3, con il recupero dell’ergastolano alla (sia pur limitata) vita di relazione nella comunità carceraria. In tal modo si realizzerebbe quello che - con neologismo di matrice anglosassone (prison) – è definito fenomeno di «prisonizzazione», per cui il recluso abdica alla propria identità e finisce per identificarsi con l’istituzione penitenziaria, elevata a unica condizione esistenziale possibile. Il paradigma costituzionale della pena mira ad altro, al recupero del condannato alla vita di relazione esterna. Le stesse misure extramurarie contemplate dall’ordinamento penitenziario a ciò sono preposte, non a fungere (unicamente) da mezzi utili a garantire un ordine pacifico all’interno degli istituti di pena.


7. Incostituzionale perché pena fissa e automatica (in violazione degli artt. 3, 25 comma 2, 27 commi 1 e 3, Cost.)

In quanto edittalmente perpetuo, nell’ergastolo la durata minima e la durata massima della reclusione coincidono configurando così una pena fissa, l’unica – salvo errore - contemplata nel codice penale. La sua applicazione è inoltre rigidamente imposta dalle relative comminatorie, sia autonome (ad esempio, l’art. 422 c.p.) che circostanziate (ad esempio, gli artt. 576 e 577 c.p.). Anche in ragione di ciò questo giudice dubita, sotto più profili, della legittimità costituzionale dell’ergastolo.
In tema di pene fisse va registrata nella giurisprudenza costituzionale un’evoluzione significativa. Abbandonate precedenti posizioni eccessivamente tributarie ad una concezione polifunzionale della pena (cfr., per tutte, la sent. n. 67/1963), il Giudice delle leggi ha affermato che «in linea di principio, previsioni sanzionatorie rigide non appaiono […] in armonia con il “volto costituzionale” del sistema penale» (sent. n. 50/1980; in senso conforme cfr. anche le decisioni nn. 188/1982, 475/2002, 91/2008). Né sono mancate declaratorie di incostituzionalità che hanno colpito talune pene accessorie proprio per la loro rigidità edittale (cfr. sentt. nn. 31/2012 e 7/2013).
Automatismo e fissità, entrambi caratteri dell’ergastolo, entrano in tensione innanzitutto con le esigenze d’individualizzazione (nella specie e nella durata) della pena, condizione essenziale per soddisfare la sua necessaria finalizzazione rieducativa, in violazione dunque – e di nuovo - dell’art. 27, comma 3, Cost. Né vale obiettare che il principio rieducativo si esaurisce nella sola fase esecutiva della pena, perché (come già visto al §4) esso permea di sé anche le fasi antecedenti, inclusa quella dell’applicazione giudiziaria in sede processuale.
La scelta legislativa più coerente con il paradigma costituzionale della pena è quella a favore della sua mobilità compresa tra un minimo ed un massimo edittale, al fine di consentire al giudice di adeguare la risposta punitiva alla specificità del caso. Qui ad entrare in gioco è il principio di eguaglianza, che impone trattamenti punitivi ragionevolmente differenziati in base all’entità del fatto e alle condizioni personali del reo: esigenza soddisfatta attraverso gli artt. 132 e 133 c.p. che guidano l’esercizio della discrezionalità sanzionatoria del giudice. L’ergastolo quale pena fissa, tanto più quando la sua applicazione risponde a un automatismo normativo, appare dunque fortemente indiziato di illegittimità costituzionale (anche) per violazione dell’art. 3 Cost.
L’ergastolo non si sottrae a tale censura neppure invocando la possibilità per il giudice di calibrare la risposta punitiva attraverso il gioco incrociato delle circostanze del reato: trattasi, infatti, di situazioni esterne alla dosimetria sanzionatoria, meramente eventuali, talvolta addirittura paralizzate per legge (cfr. art.1, comma 3, d.l. 15 dicembre 1979, n. 625, convertito in l. 6 febbraio 1980, n. 15), la cui efficacia sulla determinazione della pena risponde a rigidi meccanismi di calcolo. In realtà, invocando il ricorso all’equivalenza o prevalenza delle attenuanti sulle aggravanti, si tenta impropriamente di trasferire sul giudice il compito di rimediare con mezzi indiretti e insufficienti alla riconosciuta rigidità della pena astratta dell’ergastolo, viziata dunque ab origine.
Automatismo e fissità dell’ergastolo entrano in rotta di collisione pure con l’art. 27, comma 1, Cost.: affermando che «la responsabilità penale è personale», il parametro include (anche) la necessità di un’individualizzazione della pena che – se finalizzata alla rieducazione come esige l’art. 27, comma 3, Cost. - deve essere quanto più commisurata alla specificità e unicità della persona colpevole, oltre che all’entità del fatto di reato. A tal fine si imporrebbe, anche qui, l’uso dei criteri dell’art. 133 c.p., preclusi invece dal ricorso (minacciato dal legislatore e obbligato per il giudice) alla pena fissa dell’ergastolo.
Da ultimo, se i principi costituzionali di eguaglianza, responsabilità penale personale, finalità rieducativa della pena impongono una dosimetria sanzionatoria che consenta al giudice di adattare il quantum di pena alle peculiarità del caso, ne deriva che è lo stesso principio di stretta legalità penale a dover essere inteso nel senso che il monopolio della legge in tema di pene (e reati) va circoscritto all’esclusiva determinazione di una misura edittale compresa tra un minimo ed un massimo temporale. Così interpretato, anche l’art. 25, comma 2, Cost. risulta allora violato dall’astratta previsione normativa di una pena fissa qual è l’ergastolo. 


8. Incostituzionale per disparità di trattamento tra ergastolani (in violazione dell’art. 3 Cost.)

La perpetuità dell’ergastolo è causa normativa di una peculiare disparità di trattamento, che non può quindi essere ridotta a mera differenza di fatto: l’effettiva lunghezza della pena inflitta non dipende dalla gravità del reato, ma dalla concreta durata della vita del condannato.
Per esemplificare: benché autori dello stesso delitto e per questo condannati alla medesima pena dell’ergastolo, il reo sessantenne al massimo sconterà (prevedibilmente) una ventina d’anni della pena irrogata, mentre il reo ventenne potrà scontarne (prevedibilmente) molti di più. Né vale replicare che ciò può accadere per qualsiasi altra pena e indipendentemente dall’età del condannato: in realtà, quando la pena è temporanea (e lo sono tutte, tranne l’ergastolo) il suo massimo edittale funge da limite alla sofferenza eguale per tutti. Limite comune che, edittalmente, è invece assente nella pena della reclusione a vita, la cui afflittività potrà misurarsi - secondo i casi - in mesi, anni, decenni.
Tutto ciò non è privo di riflessi sulla costituzionalità delle disposizioni impugnate. La misura edittale comune, indicata all’art. 22 c.p., non costituisce di per sé garanzia di parità di trattamento nel momento dell’esecuzione dell’ergastolo. Viene meno così anche l’intrinseco connotato retributivo della pena, nonostante sia identica la colpevolezza: l’afflittività della sanzione sarà direttamente proporzionale (non alla gravità del reato, bensì) alla durata della vita del soggetto in detenzione. Per entrambe le ragioni è il principio di eguaglianza, ex art. 3 Cost., ad uscirne contraddetto.

 
9. Incostituzionale perché contraria al senso di umanità (in violazione dell’art. 27, comma 3, Cost.)

La previsione legislativa dell’ergastolo appare incompatibile anche con la prescrizione dell’art. 27, comma 3, Cost. a tenore del quale «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità».
Come già la finalità rieducativa, anche il divieto di punizioni inumane non si esaurisce nel solo momento dell’esecuzione penale: esso opera quale clausola di protezione in tutti i luoghi in cui il monopolio statale della forza si manifesta (cfr., oltre all’art. 27, comma 3, gli artt. 13, comma 4, e 32, comma 2, Cost.) e, perché non ne sia compromessa la funzione garantista, s’impone da subito, a cominciare dunque dal momento in cui il legislatore sceglie come e quanto limitare la libertà personale. Ecco perché una pena dalla durata temporale smisurata, proprio per la sua eccessività edittale, è di per se stessa crudele, inumana e degradante.
E’ quanto accade con la pena perpetua dell’ergastolo. Indipendentemente dal trattamento concretamente riservato ai condannati, l’ergastolo vìola il divieto costituzionale collocandosi tra quelle pene che «ripugnano alla coscienza democratica e al senso di umanità di ogni persona e comunque non costituiscono neppure un ragionevole deterrente al crimine, essendo invece un esemplare manifestazione di brutalità dello Stato» (X Legislatura, Mozione parlamentare 1-00310 approvata il 3 agosto 1989 alla Camera dei Deputati). La smisurata retribuzione della colpevolezza si traduce, con la condanna all’ergastolo, in feroce esemplarità.
Ciò vale ora più di allora. Se nel 1930, all’entrata in vigore dell’art. 22 c.p., l’attesa di vita media corrispondeva a circa cinquant’anni, questa è oggi proiettata verso gli ottant’anni: un rinnovato orizzonte temporale che può tradursi in un carico afflittivo per il condannato all’ergastolo radicalmente diverso (e ben più pesante) di quanto fosse in passato. A questa eccedenza quantitativa si cumula un’eccedenza sanzionatoria qualitativa dovuta ai persistenti livelli di sovraffollamento carcerario, in ragione dei quali l’Italia è oggetto di ripetute condanne da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo per violazione dell’art. 3 CEDU (cfr., da ultima, Corte EDU, sez. II, sent. 8 gennaio 2013, Torregiani e altri c. Italia). In questo modo, è messo gravemente a repentaglio il «diritto» a usufruire dei mezzi rieducativi predisposti dall’ordinamento (sent. n. 276/1974), essenza di quel «patto» penitenziario (sent. n. 343/1987) che va attuato all’interno del carcere per consentire anche all’ergastolano un possibile reinserimento nella società. Come la Corte costituzionale ha inteso precisare, «sul legislatore incombe l’obbligo di tenere non solo presenti le finalità rieducative della pena, ma anche di predisporre tutti i mezzi idonei a realizzarle e le forme atte a garantirle» (sent. n. 204/1974), evitando che «le ben note carenze strutturali e finanziarie» ne intacchino l’efficacia (sent. n. 343/1987): diversamente, a venir meno è proprio il motivo in forza del quale l’ergastolo è stato considerato una pena costituzionalmente legittima.
In conclusione, l’art. 27, comma 3, Cost. vieta quel trattamento contrario al senso di umanità che è consustanziale a una pena a vita che non conosce fine se non con la fine della vita. E’ tale perpetuità che andrà allora bandita dall’ordinamento.
 

10. Incostituzionale come la pena di morte (violazione dell’art. 27, comma 4, Cost.)

Carcere a vita e pena capitale, possono essere sussunte nella stessa categoria della morte come pena, in ragione della loro comune natura eliminativa: entrambe sono privazione di vita perché cancellazione di futuro, azzeramento di ogni speranza, amputazione dal consorzio umano. Attraverso l’ergastolo, infatti, lo Stato si prende la vita del condannato, senza togliergliela. Della pena di morte, dunque, il carcere a vita (rectius: a morte) rappresenta edittalmente la misura vicaria. Così è stato storicamente, quando l’ergastolo si affermò non come alternativa umanitaria alla pena capitale ma per ragioni di efficienza, ritenendosi l’estensione del primo ben più afflittiva dell’intensità della seconda (cfr. Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, 1764, § XXVIII). Così è stato giuridicamente, quando – vigente la pena capitale - l’art. 38 c.p. equiparava la condizione giuridica dell’ergastolano a quella del condannato a morte. O quando nel periodo transitorio (cfr. art. 1, comma 2, d. lgs. lgt 10 agosto 1944, n. 224) e all’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione (cfr. art. 1, comma 1, d. lgs. 22 gennaio 1948, n. 21) la pena di morte fu sostituita con l’ergastolo (rispettivamente nel codice penale e nelle leggi penali speciali diverse da quelle militari di guerra). Il suo ruolo di misura vicaria persiste ancora oggi, in forza del rinvio mobile dell’art. 1, comma 1, l. 13 ottobre 1994, n. 589, il quale, abrogando la pena di morte dall’ordinamento penale militare di guerra, la sostituisce con la pena massima prevista dal codice penale, che - allo stato del giure – conserva la foggia dell’ergastolo.
In ragione di ciò, la pena edittale dell’ergastolo si espone ad alcune delle obiezioni mosse già alla pena di morte e che hanno indotto il legislatore (ordinario prima, costituzionale poi) a cancellarne ogni traccia dall’ordinamento.
Entrambe esprimono un assolutismo retributivo che esige la vita di chi ha soppresso una vita (o altro bene giuridico equivalente), rivelando così l’assenza di ogni valenza risocializzativa (in violazione dell’art. 27, comma 3, Cost.). Entrambe, con la loro feroce esemplarità in nome di esigenze collettive di difesa sociale, strumentalizzano il condannato come mezzo per l’affermazione di obiettivi generali di intimidazione e deterrenza: il che è «sicuramente da escludersi nel nostro sistema costituzionale» (sent. n. 364/1988), dove la persona umana è tutelata nella sua dignità individuale (artt. 2, 3 comma 1, 19, 21 Cost.) e garantita nello sviluppo della propria personalità in un’ottica di solidarietà (artt. 3 comma 2, 4, 32, 34 Cost.).  Entrambe corrispondono al convincimento che vi siano delitti il cui prezzo è incommensurabile, quando invece un diritto penale che voglia essere diverso dal proprio oggetto, davanti ai crimini più gravi, non può che rivelarsi sproporzionato per difetto se intende conservare la sua umanità (imposta dal secondo periodo dell’art. 27, comma 3, Cost.).
Va infine ricordato che, facendo leva sul carattere assoluto del rifiuto della pena di morte, la giurisprudenza costituzionale in tema di estradizione (cfr. sentt. nn. 54/1979 e, soprattutto, 223/1996) ha escluso ogni eccezione, anche solo ipotetica, al divieto costituzionale. A maggior ragione, dopo la l. cost. 2 ottobre 2007, n. 1 e la l. 15 ottobre 2008, n. 179 (di ratifica ed esecuzione del 13° Protocollo addizionale alla CEDU, relativo all’abolizione della pena di morte in qualsiasi circostanza), il nostro ordinamento si conferma contrario certamente all’esecuzione della pena capitale ma, prima ancora, alla sua inflizione, che ne rappresenta il prodromo processuale. Ragionamento analogo deve allora valere anche per l’altra pena massima: essendo l’ergastolo incostituzionale, la sua previsione edittale non può sopravvivere, neppure come pena semplicemente minacciata o irrogata.
L’attuale art. 27, comma 4, Cost. compendia tutto ciò, affermando il divieto assoluto e generalizzato della morte come pena. Così interpretato, l’ergastolo finisce per configurarne un’illegittima eccezione.
 

11. Incostituzionale per anacronismo legislativo

L’ergastolo, in quanto scelta penale fondata su presupposti empirici viziati da anacronismo, è pena costituzionalmente irrazionale. Tale censura è la risultante di una concatenazione argomentativa che va debitamente ripercorsa, almeno nei suoi passaggi fondamentali. 
Il disegno di chiara matrice liberale che la Costituzione traccia del diritto penale vieta il ricorso allo strumento punitivo in funzione simbolica, quale mezzo per l’affermazione astratta di valori. Il legislatore è – tutt’al contrario – costituzionalmente condizionato a valutare in concreto il bisogno di tutela penale, la sua idoneità e la sua misura, la sua eventuale fungibilità con altre forme di tutela meno gravi. E’ questo il telaio che regge i caratteri di frammentarietà, sussidiarietà, extrema ratio, stretta necessità, assenza di obblighi di penalizzazione che disegnano il volto costituzionale della pena (e del reato).
E’ in ragione di ciò che le scelte legislative penali non sono mai assolute e astrattamente assiologiche. Vanno, anzi, continuamente verificate alla luce dell’esperienza. Soprattutto, presuppongono prognosi empiriche legislative capaci di giustificare, razionalmente e nel momento presente, la scelta del ricorso alla leva penale in quella forma ed in quella misura.
Questa impostazione di teoria generale ha un corollario: la Corte costituzionale può annullare una legge penale se fondata su presupposti empirici inesatti, carenti, inadeguati, falsificati (come già accaduto in passato: ex plurimis, cfr. sentt. nn. 139/1982 e 324/1998, in tema di presunzioni assolute di pericolosità sociale; sentt. nn. 438/1995 e 439/1995, in tema di incompatibilità tra custodia in carcere e condizione di immunodeficienza da Aids grave o conclamata). In ciò non è ravvisabile alcuna indebita invasione nel campo della discrezionalità legislativa, presidiato dal principio di stretta legalità penale: una volta annullata la disposizione, toccherà infatti al legislatore rinnovare la valutazione circa l’an, il quando e il quomodo del ricorso alla leva penale. Né può confondersi il sindacato della Corte sul sufficiente fondamento empirico della scelta legislativa punitiva con una valutazione squisitamente politica sulla prestazione di difesa sociale della pena (o del reato) oggetto di scrutinio costituzionale, certamente preclusa al Giudice delle leggi ex art. 28, l. 11 marzo 1953, n. 87.
In questo contesto, possono essere messe a valore recenti acquisizioni scientifiche pertinenti al tema dell’ergastolo. Studi neurologici e neuroscientifici dimostrano che il nostro sistema di neuroni non è fisso e immutabile, ma è plastico e capace di rinnovarsi: ciò fa pensare che il cervello umano, dotato di cellule staminali in grado di generale nuove cellule, non sia uguale a quello che era nei decenni precedenti. Per ogni persona esiste dunque, nel corso del tempo, la possibilità di cambiare, evolversi, adattarsi: non solo riguardo all’influenza ambientale esterna e a causa delle esperienze di relazione, ma anche grazie al ricambio neuronale.
Sono acquisizioni scientifiche che minano alla base la scelta di una reclusione perpetua, compiuta nella convinzione che il colpevole resti per sempre ciò che è stato nell’atto di commettere il reato. E’ vero che dalla circostanza per cui dopo anni di detenzione l’ergastolano sarà certamente diverso, non si può ancora dedurre che sarà anche rieducato: ma ciò che s’imputa alla pena dell’ergastolo è di negare aprioristicamente tale processo evolutivo e/o di vanificarlo attraverso il «fine pena: mai». E tanto basta.
 Le scienze avvalorano oggi quanto già la Costituzione insegna e pretende: l’uomo non è il suo errore, per quanto orrendo questo possa essere. Prevedere astrattamente la pena dell’ergastolo si rivela, così, un’opzione viziata da anacronismo legislativo e perciò (anche perciò) incostituzionale in quanto irragionevole.


12.  Dalla dimensione statica alla dimensione dinamica dell’ergastolo (profili d’inammissibilità processuale)

Fin qui, i dubbi non manifestamente infondati di costituzionalità degli artt. 17, n. 1, 18, comma 1, e 22 c.p. hanno riguardato l’ergastolo nella sua dimensione statica (cfr., supra, §5). Nei suoi precedenti giurisprudenziali, tuttavia, la Corte costituzionale ha sempre inteso prenderne in considerazione anche la dimensione dinamica, ritenendo che «la previsione astratta dell’ergastolo deve ormai essere inquadrata in quel tessuto normativo che progressivamente ha finito per togliere ogni significato al carattere della perpetuità che all’epoca dell’emanazione del codice lo connotava» (sent. n. 168/1994). In particolare – già nel leading case della sent. n. 264/1974 – ha sostenuto che l’ergastolo avrebbe perduto la sua natura di pena perpetua in ragione dell’accesso possibile del condannato alla liberazione condizionale (ex art. 176, comma 3, c.p., come modificato dall’art. 2, l. 25 novembre 1962, n. 1634 e, in seguito, dall’art. 28, l. 10 ottobre 1986, n. 663) secondo un procedimento oramai giurisdizionalizzato (giusto quanto deciso con sentt. nn. 204/1974 e 192/1976).
Si tratta di una strategia argomentativa che - ad avviso di questo giudice remittente - è da ritenersi preclusa al giudice ad quem, per ragioni attinenti alle regole e alla logica proprie del processo costituzionale incidentale.
La Corte costituzionale, così operando, allargherebbe oltremisura il thema decidendum a disposizioni legislative processualmente irrilevanti nel presente giudizio a quo, dove l’istituto della liberazione condizionale (al pari di ogni altro possibile beneficio penitenziario o di altra causa estintiva della pena) non trova evidentemente applicazione alcuna.
Di più. Per quanto il sindacato di legittimità delle leggi abbia accentuato, nel tempo, il suo carattere “concreto”, la Corte costituzionale resta pur sempre un giudice di norme che pronuncia su disposizioni (cfr., ex professo, sent. n. 84/1996). Guardando alla dimensione dinamica dell’ergastolo essa, al contrario, esprimerebbe un giudizio di costituzionalità su un fatto ipotetico (l’eventuale accesso dell’ergastolano alla liberazione condizionale), evitando di pronunciarsi sull’attuale disposizione legislativa a tenore della quale «la pena dell’ergastolo è perpetua» (art. 22 c.p.). Così, invece di giudicare della legge impugnata, la Corte finirebbe per giudicare della sua occasionale disapplicazione.
Il nesso di pregiudizialità costituzionale tra giudizio a quo e giudizio ad quem (ex art. 1, l. cost. 9 febbraio 1948, n. 1);  il necessario requisito processuale della rilevanza (ex art. 23, comma 3, l. 11 marzo 1953, n. 87); il principio processuale di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 27, l. 11 marzo 1953, n. 87); lo stesso ruolo istituzionale della Corte costituzionale quale Giudice delle leggi e degli atti equiparati (art. 134 Cost.): sono queste le ragioni processuali che ostano alla dilatazione dell’oggetto del presente sindacato di legittimità. Qui e ora, è in gioco l’ergastolo quale pena edittale che il giudice di cognizione è chiamato ad applicare, non l’ergastolo nella sua dimensione trattamentale.


13. Il postulato (non persuasivo) della giurisprudenza costituzionale

In via subordinata, qualora la Corte costituzionale si determinasse egualmente a dilatare l’oggetto del suo sindacato, questo giudice conferma i propri dubbi di legittimità dell’ergastolo anche nella sua dimensione dinamica.
Preliminarmente, va detto che l’eventualità di un ritorno dell’ergastolano al consorzio dei liberi è legata, pressoché esclusivamente, alla concessione della liberazione condizionale. Altri istituti estintivi della pena si rivelano inidonei allo scopo per la loro natura straordinaria e politicamente discrezionale. Così è per il provvedimento di grazia, espressione di un potere del Presidente della Repubblica eccezionale, eminentemente umanitario-equitativo e ad personam (giusto quanto argomentato nella sent. n. 200/2006). Così è per l’indulto, provvedimento oramai una tantum (in ragione del procedimento deliberativo pluriaggravato ex art. 79 Cost., come modificato con l. cost. 6 marzo 1992, n. 1) e necessitante di esplicita volontà legislativa di remissione o commutazione dell’ergastolo (cfr. Cass. pen., sez. I, n. 22760 del 2006) in assenza della quale l’atto di clemenza non risulta ad esso applicabile (vedi, supra, §2). Entrambi i provvedimenti, dunque, rappresentano chances di liberazione “anticipata” del condannato all’ergastolo soltanto teoriche e, comunque, davvero remote.
Va egualmente escluso che incidano sulla sua natura perpetua gli istituti premiali che anche l’ergastolano può ottenere durante il periodo di espiazione della pena, come stabilito dall’ordinamento penitenziario: i permessi premio (in caso di regolare condotta e dopo 10 anni di detenzione) e la semilibertà (in relazione ai progressi compiuti nel corso del trattamento e dopo 20 anni di detenzione); benefici le cui soglie temporali di accesso possono abbassarsi (rispettivamente a 8 e 16 anni) nell’ipotesi di partecipazione del condannato all’opera di rieducazione, ed anche essere anticipate grazie al meccanismo premiale della riduzione di pena (45 giorni per ogni semestre di detenzione) di cui anche l’ergastolano può beneficiare (giusto quanto deciso con sent. n. 274/1983). Simili misure (oltre ad essere solo eventuali) contribuiscono semmai a temperare l’afflittività della pena e a favorire un graduale reinserimento (anch’esso solo eventuale) dell’ergastolano nel consorzio sociale. Ma la progressione del trattamento penitenziario è altra cosa dall’interruzione definitiva dell’espiazione dell’ergastolo, che pertanto conserva la sua perpetuità.
Vale dunque quanto la stessa giurisprudenza costituzionale ha avuto modo di chiarire: «la liberazione condizionale è l’unico istituto che in virtù della sua esistenza nell’ordinamento, rende non contrastante con il principio rieducativo, e dunque con la Costituzione, la pena dell’ergastolo» (sent. n. 161/1997). Trattasi, però,  di un postulato più suggestivo che persuasivo.
In linea generale, costruire la legittimità costituzionale dell’ergastolo sull’idea di una pena edittalmente perpetua che trasfigura nella fase esecutiva in pena temporanea è – si parva licet – un sofisma. Equivale a dire che l’ergastolo esiste poiché tende a non esistere. E’ un’astuzia del linguaggio che si traduce in una normativa rinnegante, con la quale si affermano e si negano nello stesso tempo due principi tra loro opposti.
Nel particolare, si è già avuto modo di illustrare (supra, §2) come la perpetuità dell’ergastolo permea di sé l’intero regime della pena e della sua esecuzione, differenziandola da quello delle altre misure limitative della libertà personale. A ciò possono di seguito aggiungersi nuovi rilievi al postulato fin qui fatto proprio dalla Corte costituzionale (e dalla Corte di Cassazione).


14. Incostituzionale perché giuridicamente resta una pena perpetua

Il postulato in esame assimila giuridicamente l’inassimilabile. Infatti, anche nella loro dimensione dinamica, resta irriducibile la differenza tra ergastolo e pena temporanea: a fronte della temporaneità certa della seconda, quella del primo resta sempre incerta. La previsione della liberazione condizionale non fa venire meno la perpetuità dell’ergastolo - che è e resta il suo tratto costitutivo necessario - quanto la sua concreta indefettibilità, alla duplice condizione che ne sussistano i presupposti per la concessione e che – una volta concesso – la condotta dell’ergastolano nei successivi cinque anni di libertà vigilata non appaia incompatibile con il mantenimento del beneficio (giusto quanto deciso con sent. n. 418/1998). 
Ciò significa che nei confronti della liberazione condizionale (e del suo effetto estintivo) l’ergastolano gode solo di una spes beneficii che può anche non realizzarsi mai. Sul piano dell’effettività, è proprio l’esistenza d’individui – tanti o pochi che siano - chiamati a scontare integralmente una pena senza fine a confermare tutti i dubbi di legittimità costituzionale dell’ergastolo. Trattasi di casi non infrequenti: secondo un trend da sempre crescente, alla data del 31 dicembre 2012 il numero di detenuti (italiani e stranieri) presenti negli istituti penitenziari condannati all’ergastolo è pari a 1581, ed è statisticamente certo che, tra essi, molti sono reclusi da oltre 26 anni, soglia temporale per poter ambire alla liberazione condizionale (ex art. 176, comma 3, c.p.). Nel caso poi dei c.d. ergastolani ostativi (ex art. 4-bis, l. 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni) questa è addirittura la regola, essendo esclusa per legge la possibilità di essere ammessi a qualunque beneficio penitenziario, fatta salva la sola liberazione anticipata.
Come per un’eterogenesi dei fini, la stessa soglia temporale di accesso alla liberazione condizionale (26 anni di pena scontata, riducibili a 21 se l’ergastolano partecipa all’opera di rieducazione) può concretamente sbarrare le porte in uscita dal carcere a vita. Trattasi, infatti, di un termine non correlato all’età dell’ergastolano che, se condannato in età avanzata, non ha alcuna chance di raggiungere. In simili casi, il correttivo della liberazione condizionale è per forza di cose inoperante. Inoperante – sia detto per inciso – in ragione di un limite temporale ben più lontano di quello analogamente previsto nella decisione quadro 2002/584/GAI in tema di mandato di cattura europeo, dove (ex art. 5 §2) la consegna di un soggetto passibile di condanna all’ergastolo può essere subordinata alla condizione che l’ordinamento dello Stato richiedente contempli un meccanismo di revisione dell’esecuzione della pena perpetua a richiesta del condannato o, al più tardi, trascorsi 20 anni dall’inizio della sua esecuzione
In conclusione, anche ammettendo che in concreto l’ergastolo possa tradursi in una pena che viene a cessare, non si può tuttavia escludere la possibilità che, al contrario, il condannato sconti senza soluzione di continuità la pena in un carcere per tutta la vita. Replicare affermando che ciò che conta è la mera possibilità di accedere alla liberazione condizionale (e non la certezza dell’ammissione al beneficio) significa rassegnarsi a pagare un prezzo costituzionalmente fuori mercato: l’accettazione della circostanza di detenuti rinchiusi per sempre dietro le sbarre.  


15. Ancora sulla sua concreta perpetuità (alla luce del diritto vivente in tema di concessione della liberazione condizionale)

L’alibi di generalizzare il risultato estintivo della liberazione condizionale, fino a prospettarlo come un dato giuridico certo, addirittura idoneo a modificare la natura perpetua dell’ergastolo, cade anche alla luce del diritto vivente giurisprudenziale formatosi riguardo ai presupposti per la concessione del beneficio.
Raggiunta la soglia temporale dei 26 (o, se ridotti, 21) anni di pena scontata, il condannato può esservi ammesso qualora «durante il tempo di esecuzione della pena, abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento» (art. 176, comma 1, c.p.). Secondo la prevalente giurisprudenza di legittimità, non è sufficiente [1] il dato oggettivo della regolare condotta precedente del condannato. Sono richiesti, cumulativamente, altri indicatori quali: [2] l’essersi adoperato, anche e soprattutto con sacrificio personale, nella rimozione o elusione delle conseguenze dannose del reato (cfr. Cass. pen., sez. I, 26 gennaio 1993, n. 5132; Cass. pen., 8 giugno 1993; Cass. pen., sez. I, 20 dicembre 1999, n. 7248; Cass. pen., sez. I, 2 maggio 2005, n. 16446), includendo in ciò il grado di interesse e di concreta disponibilità del condannato a fornire alla vittima ogni possibile assistenza (cfr. Cass. pen., sez. I, 1 marzo 2000, n. 1541); [3] la condanna incondizionata della propria pregressa condotta criminale, declinata in forme che richiamano la conversione psicologica, il riscatto morale, il pentimento sincero e profondo, la trasformazione ideologica, addirittura la propensione verso una nuova visione della vita con l’accettazione di principi e valori anche morali precedentemente misconosciuti o negletti (cfr., in termini, Cass. pen., sez. I, 3 aprile 1985; Cass. pen., sez. I, 15 ottobre 1990; Cass. pen., sez. I, 19 novembre 1990; Cass. pen., sez. II, 26 marzo 1992; Cass. pen., sez. I, 26 giugno 1995, n. 3868; Cass. pen., sez, I, 2 maggio 2005, n. 16446). Una radiografia del profondo individuale, tanto fluida nelle modalità di accertamento quanto a rischio di arbitrarietà negli esiti.
La compresenza di un orientamento giurisprudenziale minoritario, che ritiene invece sufficiente – quanto al presupposto [3] - la prognosi di una condotta futura del condannato conforme all’ordinamento giuridico precedentemente violato (cfr. Cass. pen., sez. I, 11 marzo 1997, n. 1965; Cass. pen., sez. I, 11 gennaio 2005, n. 196), non fa che confermare l’aleatorietà della concessione della liberazione condizionale: il condannato è in balìa della sorte, perché tutto finisce per dipendere dalla maggiore indulgenza o severità del proprio giudice di sorveglianza. E’ una condizione d’incertezza che si traduce in un «ulteriore pesantissimo aggravio» per l’ergastolano (sent. n. 270/1993), ben più che per ogni altro condannato: perché nel suo caso la concessione (o meno) del beneficio segna il discrimine tra la vita e la morte dietro le sbarre o fuori dal carcere.
Lo stato della giurisprudenza fotografa una situazione a rischio di arbitrio, imputabile al dato legislativo di partenza il quale – parlando, senza specificarne il contenuto, di «sicuro ravvedimento» - vanifica l’esigenza che i criteri per l’ammissione al beneficio della liberazione condizionale siano stabiliti dalla legge in maniera chiara, giusto quanto reiteratamente richiesto nelle raccomandazioni elaborate in seno al Consiglio d’Europa (sia dal Comitato dei Ministri che dall’Assemblea parlamentare: in dettaglio, cfr. Corte EDU, Grande C

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