Giovedì, 25 aprile 2024 - ore 20.00

Il precario equilibrio delle linee rosse in Ucraina

| Scritto da Redazione
Il precario equilibrio delle linee rosse in Ucraina

Il dialogo russo-americano avviato il 10 gennaio a Ginevra fatica a decollare, essenzialmente perché nella visione occidentale deve servire solo a scongiurare il pericolo di una aperta aggressione all’Ucraina. Nelle intenzioni di Mosca, però, non sarà esclusa dalla discussione la questione della sicurezza europea, cioè degli equilibri geopolitici, a lungo elusa da Washington e dalla Nato.

La crisi ucraina vista da Mosca

In questa prima fase le due parti si sono limitate a manifestare la volontà di giungere a un accordo, indicare le proprie linee rosse, e minacciare sconquassi nel caso che l’avversario le superi.

La linea rossa di Putin – lo scenario nel quale l’invasione non viene esclusa – è l’ipotetico ingresso dell’Ucraina nell’Alleanza Atlantica (rinviato alle calende greche nel 2008). Ma dato che nel 2021 questo non appariva imminente, la pressione militare esercitata con  il trasferimento di circa centomila uomini nelle regioni contigue – e la previsione di arrivare a 175mila – si spiega con ulteriori obiettivi, esplicitati nelle due bozze di Trattati presentate il 17 dicembre scorso: divieto permanente di nuovi allargamenti della NATO; ritiro delle forze militari alleate dai paesi entrati nella NATO dopo il 1997; impegno occidentale a non collocarne in altri paesi confinanti e a non svolgervi esercitazioni militari.

In altre parole Mosca, uscita dalla situazione di debolezza che aveva permesso a Washington di proclamarsi vincitore della Guerra Fredda e mettere da parte le promesse di self-restraint fatte nel 1990 da Baker e Genscher, ma anche dal Segretario Generale della Nato Wörner, intende sfruttare la congiuntura favorevole per rompere quello che percepisce come un accerchiamento.

L’impasse di Washington

Per Biden la linea rossa sarebbe l’invasione dell’Ucraina. L’Alleanza reagirebbe non con mezzi militari – anche se Stoltenberg è sembrato non escluderli – bensì con sanzioni senza precedenti. Dato che tali sanzioni comporterebbero una forte componente autolesionistica e inevitabili contrasti fra alleati, è nell’interesse di tutti cercare una soluzione di compromesso che allontani simili scenari.

Sulla prima richiesta russa, quella di una cristallizzazione degli attuali confini geografici della Nato, il problema è più di principio che di sostanza: nessuno pensa ormai seriamente ad ammettere l’Ucraina nella Alleanza, ma non si può rinunciare al principio di auto-determinazione, per cui ogni stato sovrano è libero di scegliere con chi allearsi. Sta alla diplomazia elaborare una formula di compromesso che rassicuri Mosca riguardo ai paesi del vicinato orientale dell’Ue (Ucraina, Moldova e i tre caucasici) senza precludere l’ammissione di Svezia e Finlandia, e che non leda il principio di auto-determinazione, il quale dovrebbe anzi essere riaffermato in un preambolo.

Il negoziato su tale questione-chiave comporterebbe necessariamente una contropartita: un rinnovato impegno a rispettare e difendere l’integrità territoriale dell’Ucraina (meglio se, con l’occasione, anche della Moldova), dovere già sancito in vari documenti Csce/Osce e Onu ma ribadito nei confronti dell’Ucraina nel Memorandum di Budapest del 5 dicembre 1994 relativo alla denuclearizzazione – accessione al Trattato di non proliferazione (Tnp) di quel paese, nonché della Bielorussia e del Kazakistan. Questa security assurance venne ribadita nel 2009 da Russia e Stati Uniti.

Crisi aperte: Donbass e Crimea

Un ostacolo è l’annessione della Crimea, che l’Occidente sa essere irreversibile ma non può riconoscere formalmente. Costituendo una aperta violazione di quel Memorandum, intacca la credibilità di qualsiasi nuovo impegno al riguardo. Questo è comunque un grave limite di ogni garanzia territoriale, e in generale degli accordi internazionali, compresi i veri e propri trattati: possono essere denunciati, oppure violati senza gravi conseguenze, a meno di una guerra. Ma non per questo sono da considerarsi inutili. In questo caso l’accordo servirebbe a reintegrare le province orientali ribelli nello stato ucraino, con la collaborazione della stessa Russia. La garanzia territoriale verrebbe considerata credibile  sulla base di una tacita intesa che la Crimea è un caso sui generis, come lo fu secondo gli occidentali il distacco del Kosovo dalla Serbia (il precedente è stato più volte richiamato da Mosca per auto-assolversi).

La rinuncia alla secessione del Donbass sarebbe una importante concessione russa. Essa presuppone la collaborazione del governo di Kiev, tutt’altro che scontata, all‘attuazione del regime di autonomia prescritto dagli accordi di Minsk. Difficile che si materializzi senza una ferma azione  di persuasione sul presidente Zelensky.

Una simile operazione diplomatica, che non si limiti a disinnescare temporaneamente il rischio di una guerra ma risolva alla radice la crisi ucraina e ponga le basi per una nuova intesa sulla sicurezza europea è probabilmente un’utopia. Richiederebbe una lungimiranza americana, un sostegno del Congresso a ipotetiche iniziative coraggiose di Biden, una unità degli europei nel sostenerle,  e sull’altro versante una moderazione e una fiducia, che non appaiono all’orizzonte.

Trattati complementari da rivedere

Su altre richieste russe incluse nella duplice bozza di trattato con Usa e Nato, gli americani si mostrano più possibilisti.  Sono quelle relative all’esclusione o limitazione di esercitazioni militari e stazionamento di forze Nato in Ucraina e altri paesi non membri. Esse dovrebbero fare oggetto di negoziati per un nuovo accordo CFE (Conventional Forces in Europe). Quello del 1990 è stato sospeso dalla Russia nel 2007 in risposta al continuo rifiuto occidentale di ratificare la sua versione aggiornata che era stata firmata nel 1999.

In tale contesto possono anche essere concordate limitazioni agli spostamenti di truppe russe verso regioni di confine e, simmetricamente, alla collocazione di forze NATO in paesi membri dell’Europa orientale (c.d. fianchi). In parallelo, andrebbero affrontati la revisione del documento di Vienna sulle CSBM (Confidence and Security-Building Measures) e la rinegoziazione del trattato sul divieto di missili nucleari a gittata intermedia. Questo trattato INF, con cui nel 1987 Gorbaciov e Reagan avevano avviato la fine della guerra fredda, è stato denunciato da Trump nel 2019 a seguito di violazioni russe.

 

La verifica costante del rispetto degli accordi multilaterali CFE e CSBM, ora in stato comatoso, era uno dei compiti dell’Osce. Se la trattativa politica per resuscitarli deve per l’essenziale essere affrontata dai principali protagonisti, la formalizzazione dei risultati e la gestione potrebbero essere nuovamente affidati all’organizzazione viennese e contribuire a rivitalizzarla.

Si è letto in questi giorni da più parti che Putin ha già conseguito il suo principale obiettivo: costringere gli americani a un dialogo su un piede di parità, indipendentemente dagli esiti. Ma significa sopravvalutare ancora una volta la statura internazionale degli Stati Uniti e sottovalutare il peso politico attuale della Russia e la assertività del suo presidente. Putin, è vero, tiene molto ad essere rispettato, ma non si accontenterà di una parvenza di dialogo che non porti a risultati.

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