Sabato, 04 maggio 2024 - ore 14.53

Il punto di Rosario Amico Roxas. Dal peccato al reato, dai sofisti al Vaticano!

L’articolo parte dalle dimissioni del Sindaco di Roma

| Scritto da Redazione
Il punto di Rosario Amico Roxas. Dal peccato al reato, dai sofisti al Vaticano!

La smentita di Papa Francesco circa l’invito che non sarebbe stato rivolto all’ex Sindaco di Roma Ignazio Marino, ha rappresentato il colpo di grazia che ha portato alle inevitabili dimissioni del medesimo.

Non c’è dubbio che Marino ha commesso alcune leggerezze, tutte da dimostrare, ma non tali per sollecitare una condanna generalizzata, quando troppi silenzi hanno ammantato comportamenti criminali da parte di altri Sindaci, con particolare riferimento ad Alemanno, Sindaco di Roma mentre Berlusconi e Ratzinger governavano rispettivamente l’Italia e il Vaticano. Silenzi omertosi, complici, frutto di scambi tra reati e peccati, nonché tra sacro e profano.

Anche nell’attuale circostanza appare uno scivolamento di Papa Francesco verso teorie anti-relativistiche, che furono il cavallo (fortunatamente azzoppato) di Benedetto XVI. Si è trattato di un castigo che ha punito la colpa di Marino nell’aver aperto le porte della laicità del governo della città di Roma, trascurando (anzi ignorando) i doveri di un pubblico amministratore di curare gli interessi dei cittadini, senza discriminazioni di sorta, per consentire l’appagamento di reali bisogni che la Chiesa considera “peccato” ma che il governo laico non può considerare “reato”. Marino è stato collocato fuori dalla Chiesa con quella improvvida e decisiva affermazione del pontefice in carica: «Marino non è stato da me invitato. Chiaro?». Un relativismo praticato avrebbe sollevato da reciproche responsabilità entrambi gli attori: Marino e papa Francesco, riconoscendo i diritti civili del pianeta laico, senza confusioni di sorta, perché il peccato condannato dalla Chiesa non può essere imposto e condannato come reato a un governo laico non teocratico.

Accadde l’inverso con Benedetto XVI, che cercò di confondere il reato penale della pedofilia in peccato veniale da assolvere nel segreto delle sacrestie (vedi lettera ai vescovi americani Crimen sollicitationis, a suo tempo inviata da Ratzinger). Bisogna decidersi se accettare l’analisi relativistica, come sta facendo papa Francesco, o respingerla come aveva fatto Benedetto XVI, che fu una delle concause che provocarono le sue dimissioni.

A proposito del relativismo culturale e del nichilismo etico ritengo di poter dire la mia, convinto come sono e resto che il relativismo contiene in sé le fondamenta della cultura sociale e del vivere civile. Si intrecciano le discussioni intorno al “relativismo”, ma senza chiarire cosa sta nel calderone relativistico, esprimendo condanne generalizzate o assoluzioni formali. Bisogna partire dalla considerazione che il relativismo non è una teoria o una ideologia, bensì un “metodo” di analisi e, quindi, di valutazione, che, per avere valenza scientifica, non può operare scelte a monte secondo i modelli culturali evidenziati da una sola parte. L’esigenza di uno studio approfondito delle varie culture si è fatta urgente alla luce della mondializzazione che prevede una possibile e necessaria integrazione tra popoli di culture diverse. L’imposizione di una cultura, senza le dovute tappe frutto di analisi sociologiche, antropologiche, etiche, psicologiche, lungi dall’essere viatico di integrazione diventa una forma mimetizzata di coercizione.

L’elemento estraneo che si inserisce dentro una cultura diversa deve affrontare il problema della ri-socializzazione, intesa come adeguamento ai nuovi parametri vigenti nella cultura ospite.

In un primo momento scatta lo “shock culturale” che può essere facilmente superato se la cultura ospite favorisce il nuovo arrivato e ne promuove l’integrazione; ma quando la cultura ospite manifesta ostilità e rifiuto allora avviene un “eclissi culturale” (v. R. Amico Roxas, Tunisie: Le defi du 2000, Tunisi, ed. Universitaires La Manhnuoba, 2001), inteso come mancanza di ogni riferimento: manca la propria cultura perché disapprovata e respinta e manca la nuova cultura perché non favorita nel recepimento, nella comprensione e nell’adattamento.

Tutto ciò provoca una regressione culturale che porta il nuovo arrivato a richiudersi dentro i propri valori, come in un torre, isolandosi dal contesto che lo respinge. L’analisi sociologica serve proprio a questo, a valutare le condizioni migliori perché l’integrazione diventi un momento costruttivo e non demolitore del patrimonio che ognuno porta con sé. Devono essere gli stessi appartenenti al nuovo gruppo, adeguatamente istruiti, che devono farsi portatori delle nuove norme e dei nuovi modelli culturali e condurre per mano il proprio gruppo verso l’accoglimento dei valori culturali che li ospitano; ipotizzare, come avviene, il metodo coercitivo conduce inevitabilmente a scontri e incomprensioni difficilmente sanabili.

L’idea dell’eclissi culturale che svuota i singoli di ogni valore e li lascia sbandati dentro un coacervo di ipotesi che non conoscono, rappresenta l’antitesi del dialogo e del confronto.

Peraltro viene denigrato il relativismo, ma solo per poterlo applicare lì dove più conviene:

il federalismo fiscale è anti-relativismo perché premia talune regioni che per motivi contingenti si ritrovano a godere di una migliore e più proficua produttività, per penalizzare le altre che quei motivi contingenti e temporanei non hanno. L’utilizzo differenziato della giustizia è antirelativismo, specie quanto propone tolleranza zero per taluni reati e massima tolleranza per altri reati, addirittura legiferando per ammorbidire l’impatto del reato con il concetto di giustizia, come la depenalizzazione di taluni reati. L’uso della Sanità non equilibrato è antirelativismo quando fornisce servizi primari da una parte e malasanità da un’altra. E così via. Trasportare poi l’antirelativismo sul terreno della ricerca del giusto e del non giusto, del vero e del falso, rischia di riportarci a una nuova sofistica, dove giusto e vero coincidono con le scelte del più forte e servono solo a dilatare sempre più la forbice che divide i possessori dai nullatenenti, i produttori dai consumatori, i creditori dai debitori, elevando un muro insonorizzato attraverso il quale ogni ipotesi di dialogo diventa impossibile.

È diventata una moda rifiutare il relativismo, indicarlo come “il male assoluto”, metterlo all’indice per presupposte alterazioni al predominio della ragione. Ma nello stesso tempo viene usato il medesimo relativismo per elaborare le teorie antirelativismo. Non è un paradosso, bensì la realtà nella quale viviamo, anche se troppo distrattamente. Il “relativismo” iniziò il suo itinerario ai tempi di Pericle, quando si sviluppò una nuova aristocrazia, quella dei mercanti, degli artigiani, degli usurai, cioè l’aristocrazia del denaro e del potere che il denaro porta con sé; fu la nuova aristocrazia che si sostituì alla precedente basata sulla proprietà terriera e, quindi, sull’economia del lavoro, per spostare l’interesse sull’economia delle capacità intellettuali dell’uomo. Il sistema democratico, che fu il primo della storia dell’uomo, divenne demagogia, dove veniva privilegiata la ricerca del piacere, del lusso, dell’edonismo e anche della cultura, ma non come conoscenza, bensì come mezzo per aggiungere al potere del denaro anche il prestigio della cultura.

Questa nuova prospettiva formò il terreno di coltura dei sofisti, abili parlatori che sostenevano la causa dei più forti, intesi come i più potenti. Iniziò l’analisi circa la valutazione di ciò che è giusto, che avrebbe dovuto sostituire ciò che veniva indicato dalle leggi dello Stato con ciò che veniva universalmente accettato come legge di natura. Il primo passo lo segnò Protagora, affermando: «L’uomo è misura di tutte le cose: di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono», dando inizio all’elaborazione di un quesito che dura da secoli: «La realtà è costituita dell’“essere” o dal “divenire”?».

Le implicazioni divennero enormi, perché entrò in discussione la staticità della realtà o il suo sviluppo; nel secondo caso chi avrebbe dovuto e potuto interpretare “il giusto” nel tipo di evoluzione da sviluppare? Così il quesito si spostò sulla ricerca di un principio di validità universale: «Per natura è giusto ciò che piace», ma questa affermazione scatenava l’individualismo e promuoveva l’affermazione «Homo homini lupus», trasformando la società in una grande giungla dove ogni individuo avrebbe cercato la propria affermazione. Così l’affermazione divenne: «È giusto ciò che piace al più forte»; ma cosa avrebbe identificato il più forte? Giunse il chiarimento: «Il più forte è colui che sa usare meglio la parola», intesa come elemento di comunicazione.

A questo punto emerge plateale l’analogia con i nostri tempi, e l’emergere di un nuovo Gorgia.

Ci hanno regalato la democrazia, che è diventata demagogia, sostenuta dall’apparenza delle parole, mentre l’uso del linguaggio per comunicare è diventato monopolio dei detentori dei mezzi di comunicazione di massa, che riescono a farsi sentire, effettuando un costante lavaggio del cervello che arriva anche al convincimento subliminale. Anche i rapporti con lo Stato e le sue leggi subiscono una modificazione secondo l’indirizzo suggerito dal relativismo sofista: «Per prudenza e utilità bisogna rispettare la legge ma trasgredirla solo se conviene e modificarla quando si ha la forza per farlo». Mi pare superfluo sottolineare le analogia con i nostri ultimissimi tempi, specialmente a fronte della visione della vita: «Di fronte al dramma della vita l’unica consolazione è la parola, che acquista valore proprio perché non esprime la verità ma l’apparenza. La parola crea un mondo di sogno dov’è bello vivere» (le due citazioni sono recuperate da Gorgia, Sul non-essere e sulla natura). Così la verità assoluta non esiste, emergendo un relativismo che investe tutto lo scibile; per contrastare tale relativismo non resta che utilizzare il medesimo relativismo per affermare ciò che le parole sostengono e le apparenze dimostrano. Basterebbe solo saper distinguere il relativismo etico dal relativismo culturale per dare spazio alla dialettica del divenire, che può essere unificabile solo nel profilo etico, universale e valido per tutti, escludendo ogni pretesa di primato per razza, religione, o cultura. Per i governanti laici vige l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge.

Allora neanche in Vaticano «La legge è uguale per tutti» e il relativismo viene messo all’indice quando fa comodo; ma quando c’è da sanzionare severamente un pubblico comportamento commesso dal componente più importante della casta al potere, allora tutto diventa relativo, anche l’infanticidio.

Tengo a sottolineare che sono un cattolico, cristiano, praticante, che crede nelle parole di Cristo e molto meno nella diplomazia d’occasione del Vaticano, che eleva ai massimi onori Magdi Allam e bandisce fuori dalla Chiesa Piergiorgio Welby, non permettendo l’ingresso della salma nella Casa di Dio; il Vaticano che condanna la Teologia della Liberazione e il suo massimo teologo Jon Sobrino, ma scrive e sottoscrive con le mani del Pontefice dimissionario, insieme al razzista Pera, Senza radici, un pamphlet razzista secondo solo al ben noto Mein Kampf che sosteneva il primato della razza ariana e il libercolo di Ratzinger/Pera che esalta la superiorità del cattolicesimo occidentale, cancellando il relativismo culturale elaborato nei più accreditati studi di antropologia.

Rosario Amico Roxas

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