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Lavorare in Palestina, un'odissea quotidiana

| Scritto da Redazione
Lavorare in Palestina, un'odissea quotidiana

Lavorare in Palestina, un'odissea quotidiana
Visita della Cgil in Medio Oriente dove il segretario generale Camusso ha incontrato i sindacati delle due parti. Disumane le condizioni di lavoro per 30mila palestinesi che ogni giorno attraversano i check points. Situazione ancor più grave per le donne di Sergio Bassoli

Lavorare in Palestina, un'odissea quotidiana (immagini di Emiliano Pinnizzotto - Graffiti Press)

Dal 21 al 24 febbraio scorsi, il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, ha guidato una delegazione del sindacato in visita in Israele ed in Palestina. Durante il breve soggiorno, la delegazione ha realizzato visite ed incontri con i vertici e con rappresentanze dei lavoratori dei due sindacati, Histadrut (Israele) e PGFTU (Palestina), constatando sul campo quanto sia urgente la ripresa dei negoziati diretti tra i due governi per il raggiungimento di un accordo che metta fine al conflitto tra i due popoli.

Oltre 30.000 lavoratori palestinesi con regolare permesso e contratto passano quotidianamente i check points sottoponendosi a lunghe code, in condizioni inaccettabili, uscendo di casa all'una di notte per poter essere sul luogo di lavoro alle sette del mattino, rientrando non prima delle dieci di sera. Ma a questi lavoratori “regolari” si aggiungono altrettanti lavoratori che entrano in Israele con il permesso, ma senza contratto di lavoro, ed un'ultima categoria di lavoratori che passano i controlli senza alcun permesso e senza contratto. Una situazione drammatica che si aggrava ancor di più per le donne: per le discriminazioni salariali, per il lavoro senza orario, per le violenze e per dover scegliere tra il lavoro e la famiglia.

Testimonianze e situazioni, confermano, ancora una volta se ce ne fosse bisogno, che senza accordo e senza il riconoscimento dei diritti dell'altro, non vi sarà giustizia sociale, crescita della democrazia, libertà e stato di diritto, ed ogni azione e decisione non sarà altro che il riflesso automatico del reciproco stato d'emergenza: umanitaria e di spoliazione da una parte, di paura e di isolamento dall'altra.

Auspichiamo quindi che le due comunità riescano a sostituire la spirale di incomunicabilità - che ha prodotto generazioni di uomini e donne cresciute dentro due narrazioni contrapposte, a partire dalla Naqba (catastrofe) per gli uni, all'indipendenza per gli altri - con una narrazione condivisa. Questa dovrà fondarsi e riconoscere la storia e l'esistenza dei due popoli, per una nuova generazione di Israeliani e di Palestinesi preparati a vivere fianco a fianco, in due stati amici.

Il quadro di riferimento non può che essere quello del diritto internazionale e delle risoluzioni delle Nazioni Unite e non lo status quo, delle colonie, dell'isolamento di Gaza e della frammentazione del territorio palestinese. Non può essere la forza a piegare il diritto. Il riconoscimento reciproco dei due stati, con Gerusalemme capitale d'Israele e di Palestina, il confine sulla linea antecedente la guerra del giugno del 1967, il riconoscimento del diritto dei profughi e rifugiati, la continuità territoriale, la sicurezza per entrambe i popoli, debbono essere le basi per la ripresa dei negoziati diretti.

Come ha dichiarato il Segretario Generale della Cgil, all'uscita del museo della Shoa, Yad Vashem, di Gerusalemme: “.....occorre tener presente i rischi che corre l'Europa, con il ritorno di idee di nazionalismi, di razzismo e di settarismo nei confronti del popolo ebraico, quindi la necessità di unire due cose: la necessità della pace e l'esercizio della memoria”. Se così non fosse nessun accordo e nessuna mediazione sarà mai possibile.

Un segnale positivo è arrivato dagli incontri avuti con il presidente ed il segretario generale del Labor Party, oggi alla guida dell'opposizione nel parlamento israeliano, ed a capo di una coalizione trasversale di parlamentari, 70 su 120, pubblicamente schierati per un accordo di pace. Secondo il Labor Party, la maggioranza degli israeliani è per la pace, come conferma un recente sondaggio che indica il 65% favorevole.

Diversi interlocutori, sia Israeliani che Palestinesi, hanno confermato che la pressione americana è

forte come mai si è visto. Lo comprova l'agitazione e la mobilitazione delle forze conservatrici e dei coloni che temono decisioni a favore del ritiro degli insediamenti nei territori occupati.

Da parte palestinese, di fronte alla disponibilità reale per un accordo che tenga conto delle legittime rivendicazioni nazionali e che sia definitivo, sicuramente vi sarà la volontà e la capacità politica di ricomporre l'unità nazionale e di sedersi al tavolo per risolvere i nodi lasciati in sospeso da Oslo, sapendo che questa potrebbe essere veramente l'occasione per voltare pagina.

L'impressione che accompagna la delegazione al rientro in Italia è che, il clima sembra essere cambiato nella direzione buona, ma saranno la volontà, il coraggio dei leader politici e la proposta di accordo a confermare se il vento porterà la pace o nuova tempesta.

Fonte: http://www.rassegna.it/articoli/2014/02/26/109499/lavorare-in-palestina-unodissea-quotidiana

2014-02-27

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