Svizzera: riflessioni a un mese dal voto sull’Iniziativa contro l’immigrazione di massa| G.Bozzolini
Ad un mese dal voto con cui il popolo svizzero ha approvato “l’iniziativa contro l’immigrazione di massa” presentata dalla destra conservatrice è il momento per fare un bilancio sia sul voto stesso sia sulle articolate reazioni che esso ha suscitato.
Come in tutte le votazioni in tema d’immigrazione la campagna è stata caratterizzata dalla tendenza degli elettori e delle elettrici a non esprimere apertamente la propria posizione; sono quindi proprio le reazioni dopo il voto a permettere di capirne meglio le dinamiche. Reazioni che si concentrano eminentemente sull’aspetto delle relazioni con l’Unione Europea e sul futuro degli accordi bilaterali.
Stampa e forze politiche dibattono quindi sulla possibilità di conciliare l’approvazione della nuova norma costituzionale con l’accordo di libera circolazione, cercando di trovare il modo di convincere l’UE ad un compromesso, e sulla scelta di Bruxelles di bloccare gli accordi per la partecipazione elvetica ai programmi Horizon e Erasmus+.
Leggendo la stampa nelle settimane successive al voto o ascoltando i telegiornali si potrebbe avere pertanto l’impressione che si sia trattato di una votazione sulle relazioni tra Svizzera e Europa e che il risultato costituisca una novità, un’inversione di rotta rispetto alla ripetuta approvazione degli accordi bilaterali negli ultimi dieci anni. Inversione di rotta i cui motivi vengono individuati nelle presunte conseguenze della libera circolazione della manodopera (crescente concorrenza sul mercato del lavoro, dumping salariale nelle regioni di frontiera, forte aumento degli affitti, poco spazio sui mezzi pubblici, ecc.), nel rifiuto di una politica economica centrata totalmente sullo sviluppo quantitativo, sullo stress e sul consumo del territorio e nel fastidio verso il “carattere autoritario” dell’Unione Europea.
Nella realtà l’iniziativa popolare, a partire dal suo stesso titolo, proponeva una votazione sulla politica svizzera in tema d’immigrazione nel senso più ampio possibile del termine: comunitaria, extracomunitaria e d’asilo. E il risultato è perfettamente in linea con quello di tutte le votazioni in tema d’immigrazione dall’inizio del nuovo secolo. Dalla bocciatura delle naturalizzazioni agevolate per le seconde e terze generazioni fino alla proibizione del burka in Canton Ticino, passando per il referendum perso contro le leggi più restrittive sugli stranieri e l’asilo, per l’approvazione delle iniziative sulle espulsioni (Ausschaffungsinitiative) e per la proibizione della costruzione dei minareti, la maggioranza degli elettori e delle elettrici negli ultimi quindici anni ha sempre espresso il proprio consenso per le posizioni della destra populista.
Non inquadrare quanto successo il nove febbraio in questo contesto, permette di continuare a far finta di non vedere come la “Fremdenfeindlichkeit” (l’avversione allo straniero) e la xenofobia siano diventati un problema esplosivo in questo paese e non permette invece di cogliere la dimensione fortemente ideologica e culturale di questo voto.
L’analisi della distribuzione regionale dei risultati evidenzia come il consenso raccolto dall’iniziativa oltre ad essere differenziato per area linguistica e culturale, sia inversamente proporzionale alla presenza degli immigrati nelle varie città e comuni, maggioritario nelle realtà rurali e invece fortemente minoritario nei contesti urbani, slegato dal tasso di disoccupazione nelle varie regioni e del tutto avulso dai problemi nel mercato del lavoro e in quello degli alloggi che sarebbero causati dai flussi migratori. Non si spiegherebbero altrimenti la maggioranza di no raccolti nelle aree di Zurigo, Basilea e soprattutto Ginevra.
Il confronto fatto da alcuni ricercatori tra i risultati del nove febbraio e i sondaggi effettuati nell’arco degli ultimi anni, dimostra come il consenso verso alcuni elementi chiave dell’iniziativa, come il principio della priorità ai cittadini e alle cittadine svizzeri/e nell’accesso al lavoro, sia costante da anni e molto più alto (circa il 65%) dei voti favorevoli raccolti nelle urne (50.3%). La differenza in negativo sarebbe spiegata dalla paura di molti elettori ed elettrici di mettere in pericolo gli accordi bilaterali con l’Unione Europea, considerati importanti per l’economia.
Le relazioni con l’Europa sarebbero quindi un fattore non di aumento ma di riduzione del consenso per l’iniziativa, altrimenti molto più alto.
Ulteriori elementi di riflessione sono dati dalla partecipazione al voto, che fa dell’iniziativa contro l’immigrazione di massa la più importante votazione popolare degli ultimi vent’anni e una delle cinque più importanti all’introduzione del voto femminile, e dal ridotto scarto tra si e no (poco più di venti mila voti, pari allo 0.6%).
La partecipazione al voto conferma come il tema dell’immigrazione sia la questione centrale della politica elvetica, quella con cui si identificano le persone e su cui si definisce lo spartiacque tra destra e sinistra, tra conservatori e progressisti. Lo scarso scarto finale dimostra invece come una diversa campagna del fronte del no avrebbe potuto cambiare di segno il risultato.
Di fronte a questa doppia constatazione emergono con evidenza sia l’assenza dalla campagna e in generale al dibattito politico sull’immigrazione della comunità italiana, di quella che una volta si definiva l’emigrazione organizzata, sia la contraddizione tra le reazioni a posteriori della sinistra politica e sindacale e il loro (scarso) impegno prima del voto.
La comunità italiana, con più di trecentomila doppi cittadini e con una lunga storia alle spalle, avrebbe potuto esercitare un ruolo decisivo nel contrastare la destra populista, invece ha latitato pensando di non essere direttamente coinvolta. Tutto questo mentre dall’Italia tornano a emigrare in Svizzera decine di migliaia di persone ogni anno e sono gli italiani e le italiane ad essere oggetto delle polemiche sul dumping salariale legato al lavoro transfrontaliero.
E’ un problema su cui è necessario riflettere, senza polemica ma non senza domandarsi se l’attuale sistema di organizzarsi della comunità non la renda presbite, attenta a quanto si discuta a Roma ma incapace di vedere ciò che accade al suo fianco, e incapace di includere, rappresentare e tutelare le nuove migrazioni.
Lo scarso impegno della sinistra politica e sindacale svizzera dalla campagna che ha preceduto il voto richiede invece un discorso più articolato. Si tratta infatti di un elemento che ha fortemente influito sull’esito finale e che non è semplicemente attribuibile solo al doppio errore di sottovalutare l’importanza del tema e di pensare che la campagna l’avrebbero comunque condotta e vinta il le imprese e le lobby padronali. Sottovalutare l’importanza di un tema che è invece centrale per la vita politica elvetica e per l’identità delle stesse organizzazioni politiche e sociali, è comunque gravissimo per il sindacato, la cui maggioranza degli iscritti sono migranti.
E’ il segno della mancanza del polso di ciò che avviene nella società, della difficoltà di leggere i fenomeni che la attraversano e la formano. Delegare alle organizzazione padronali una campagna profondamente “culturale e identitaria”, nella quale si confrontano idee, valori e modi diversi di affrontare la complessità di una società multiculturale e i processi di globalizzazione, nel momento in cui si è rotto il rapporto storicamente molto forte tra elite economica e ceto medio, ha depotenziato pesantemente la posizione contraria all’iniziativa e ha contribuito invece a “giustificare” di riflesso l’avversione alla libera circolazione delle persone.
Ma come detto questo doppio errore di valutazione non può essere analizzato separatamente dalla constatazione che da anni il sindacato nelle trattative sugli accordi di libera circolazione (ad esempio sull’allargamento alla Croazia) ha continuato a giocare con le autorità federali la carta del “Si, ma…” per ottenere il miglioramento delle misure di accompagnamento contro il dumping, ovvero la ripetuta minaccia di votare contro se non si fossero ottenuti miglioramenti. Con la tripla conseguenza che ormai l’idea che la libera circolazione delle persone produca problemi nel mercato del lavoro si è sedimentata anche in fasce della popolazione non direttamente coinvolte, la campagna contro il dumping salariale assume aspetti di vera e propria caccia alle streghe verso le imprese e i lavoratori provenienti dall’estero e il sindacato viene vissuto sempre più come un problema dai lavoratori e dalla lavoratrici irregolari, i “sans papier”.
Non si tratta quindi di un momentaneo errore tattico, ma di un’impostazione di lungo periodo frutto del fatto che nel gruppo dirigente del movimento sindacale elvetico, a partire dalla sua organizzazione più grande, Unia, permangono ancora radicate nel profondo la priorità assoluta del salario rispetto ad altri diritti (ad esempio quello della sicurezza della residenza) e l’idea che il lavoro e il salario dei residenti si difendano innanzitutto limitando la concorrenza sul mercato del lavoro, cioè l’accesso dei migranti.
E’ il permanere di una cultura corporativa, in cui i diritti degli uni si difendono riducendo i diritti degli altri, con la conseguenza della spaccatura tra chi è dentro e chi è fuori, in cui l’uno percepisce l’altro come pericolo per il proprio reddito e la propria carriera, tra gli inclusi e gli esclusi dal paradiso svizzero.
Sono posizioni che il nuovo gruppo dirigente, in cui negli ultimi anni hanno trovato ampio spazio le seconde generazioni, deve rapidamente buttarsi alle spalle se vuole stare da protagonista nel movimento che si è aperto dopo l’esito disastroso del voto e che ha avuto il suo primo appuntamento il primo marzo con 12’000 persone che si sono ritrovate in Piazza Federale per manifestare per una Svizzera aperta e solidale.
Se il confronto è tra due idee di società, bisogno (ri)mettere in campo una critica progressista e solidale dei processi di globalizzazione, alternativa al populismo nazionale della destra e costruita attorno alla necessità di garantire i diritti delle persone (il diritto al lavoro, ad una vita degna, a sottrarsi alla guerra o alla fame e alla miseria, alla realizzazione della propria persona, ad opportunità di crescita umana e professionale, a vivere con la propria famiglia, alla protezione sociale) indipendentemente dal loro passaporto.
Guglielmo Bozzolini
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2014-03-16