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TENENTE ANTONO DI DIO EMMA.LA RESISTENZA 70 ANNI DOPO

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TENENTE ANTONO DI DIO EMMA.LA RESISTENZA 70 ANNI DOPO

13 FEBB 1944 - 13 FEBB 2014, LA RESISTENZA 70 ANNI DOPO. TENENTE ANTONO DI DIO EMMA.Nasce a Palermo il 17 marzo del 1922. Il padre dei fratelli Alfredo e Antonio Di Dio era un brigadiere di Pubblica Sicurezza che venne trasferito a Cremona, dove lo seguì la famiglia. Antonio fece gli studi ginnasiali e liceali a Cremona e, nel 1941, entrò all'Accademia militare di Modena. Nell'agosto del 1943, col grado di sottotenente fu assegnato al 114° Reggimento Fanteria in Calabria e, il 5 settembre, trasferito alla Scuola di Applicazione di Parma.

Dopo l'8 settembre 1943 venne fatto prigioniero dai tedeschi, ma riuscì a scappare e a rifugiarsi a Cremona. Successivamente raggiunse Alfredo a Cavaglio d'Agogna, ospite dell'antifascista Carletto Leonardi.

I due fratelli Di Dio si spostarono in Valstrona, nel Cusio. A Inuggio e Massiola i fratelli Di Dio diventano i fratelli "Diala" dando vita alla prima "banda" partigiana della Valstrona. Altri ex militari raggiunsero i due fratelli e ben presto la formazione si irrobustì fino a compiere azioni nel Cusio e nel medio novarese. Il 23 dicembre del 1943 avvenne la fusione fra la "banda" di Filippo Maria Beltrami e quella dei fratelli Di Dio.

A metà gennaio 1943, Antonio, con Bruno Rutto, Albino Calletti, Alberto Li Gobbi e i loro uomini, si portò in Valsesia, in appoggio ai garibaldini di Vincenzo Moscatelli attaccati da preponderanti forze nemiche, e nei giorni 17-18 gennaio fu fra i protagonisti della battaglia di Roccapietra battendosi con grande coraggio. Quando il grosso della Brigata lasciò la Valstrona (fine gennaio) per sfuggire al rastrellamento, Antonio, con il "Capitano" e parte della Compagnia "Massiola", rimase in Valle per contrastare l'avanzata del nemico.

Il 31 gennaio si trasferirono alla piana del Cortavolo, la terrazza sopra Megolo.

Antonio seguì il capitano Beltrami sia all'incontro di Cireggio¹, nella villa dell'avvocato Paolo Ferraris e sia all'incontro con il capitano tedesco Ernst Simon. Fu uno dei protagonisti della battaglia di Megolo e cadde in quella battaglia a fianco del suo "Capitano" e di altri 10 partigiani il 13 febraio 1943.

Il corpo di Antonio Di Dio venne portato a Cireggio assieme a quello di Beltrami, nella cappella di S. Rocco. Quando le bare stavano per essere introdotte nel sepolcro della famiglia Beltrami, l'avvocato Mario Macchioni gridò: "Capitano Beltrami, tenente Di Dio, viva l'Italia".  E' Medaglia d'Oro al Valor Militare alla memoria.

A settant’anni dalla sua morte ancora camminiamo “attraverso la storia”, ancora percorriamo i “sentieri della libertà”, ancora, riverenti, ci inchiniamo difronte al sacrificio di tanti giovani che non esitarono a donare la propria vita per la Madre Patria, per la Libertà. Nel nome di Antonio e di Alfredo possano ricomporsi le tante, troppe, inutili lacerazioni tra i cittadini se tutti intenderanno il messaggio d’amore contenuto nelle parole di quei due giovani ribelli per amore: “LA NOSTRA VITA PER L’ITALIA”.

N.B. I Fratelli Di Dio sono sepolti, assieme ai loro genitori nella cappella di famiglia, presso il nostro civico cimitero.

 

TESTIMONIANZE DALLE ZONE DELLA RESISTENZA PARTIGIANA NELLE QUALI OPERARONO SIA ANTONIO CHE ALFREDO DI DIO.

Megolo, 13 Febbraio 1944

di Gino Vermicelli

“Verso le cinque del mattino un leggero velo di fumo comincia ad alzarsi dal paese e l’odore del castagno bruciato giunge sino alla sentinella di guardia a metà strada tra Megolo e l’accampamento. È un buon odore quello, familiare, rassicurante. Per la sentinella significa che laggiù le donne si sono alzate per accudire alla casa e al bestiame, che tutto è tranquillo, che la vita riprende come ogni giorno.

Megolo di Mezzo in Val d'Ossola. Appena sopra il paese, sulla sinistra, l'alpeggio del Cortavolo. il luogo dove si erano accampati i partigiani comandati da Filippo Maria Beltrami

In febbraio il freddo è ancora pungente un Val d’Ossola. Al mattino, poi, morde ancora di più. Alle sei la sentinella finisce il suo turno ed entra nella baita. Ravviva il fuoco, si toglie le scarpe ed avvicina alla fiamma i piedi intirizziti. Allettato da crepitio della fascina che arde, mi alzo e vado a sedermi vicino al focolare. Sono almeno quindici giorni che non ci spogliamo. Si dorme vestiti. Qualcuno si toglie le scarpe, altri no. Quelle catapecchie sopra Megolo non sono mai state costruite per essere abitate, dato che il paese è a un tiro di schioppo. Le baite del Cortavolo: il comando, la cucina e il deposito. Qui, in mezzo ai castagni, i contadini hanno costruito casupole per riparare la legna, custodire il fieno e talvolta ritirarvi il bestiame. Ora ci siamo noi: due baite fanno da dormitorio, con una striscia di mezzo metro di largo in terra battuta per il giaciglio; altre sono il Comando, la Cucina, il Deposito. Quei nomi che sanno di logistica militare non si addicono molto a quelle baite sconnesse, ma è così. La baita dormitorio. I partigiani vi dormivano vestiti per il freddo pungente. Per quanto tempo rimango lì, seduto su una pietra accanto al focolare? Forse un’ora, forse più. Nella baita già molti si sono svegliati, alcuni parlano e scherzano, altri riordinano la loro poca “roba”. Uno più diligente esce con il sapone ed asciugamano per andarsi al lavare al rigagnolo che scorre qualche cinquanta metri più in alto, ma torna subito pallido ed eccitato.

- Ci sono i tedeschi, ci sono i tedeschi, sono qui sotto, qui sotto, vi dico!

- Sei matto?

- Il paese brucia, bruciano le case di Megolo, correte, venite e vedere!

- È vero, laggiù le case bruciano…

- Bisogna avvisare il Capitano.

- Gaspare, va a dare l’allarme al Comando. Ragazzi, fuori con le armi.

- Dove sono gli ufficiali?

- Ma fregatene delle coperte, prendi le munizioni, prendi!

Un gruppo di partigiani in postazione difensiva. Saranno passati dieci minuti? Quindici? Forse un solo minuto. Il gruppo del Comando è lì in piedi al centro dello spiazzo. Ufficiali danno ordini ad altri ufficiali. Capi squadra concretizzano gli ordini in movimenti di uomini.

- Voi a destra e voi a sinistra – Tu con la mitragliatrice nella piazzuola al centro.

Si legge, chissà perché, che in battaglia gli ordini sono come frustate. Non è vero. Filippo Beltrami distribuiva i suoi ordini come fossero raccomandazioni, magari severe. E il movimento degli uomini che obbedivano non aveva niente di marziale. Filippo Maria Beltrami, il Capitano. L'architetto milanese di 35 anni, originario di Cireggio, capitano di artiglieria del Regio Esercito, dopo l'Armistizio è al comando della Brigata Patrioti Valstrona nella zona di Quarna, sopra Omegna. Il distaccamento di cui il nostro gruppo faceva parte fu così destinato al fianco destro, cioè più indietro. Ma già con Gaspare e Carletti avevamo promesso di “fare vedere loro” alla prima occasione, come si combatte, non ci rassegniamo e chiediamo al Comandante di poter rimanere col gruppo più avanzato…….Ci avviamo alla battaglia. Come si chiamasse il mio mitragliere non lo so. Non ricordo nemmeno il suo volto. Doveva avere qualche anno meno di me, cioè era un giovanissimo, non molto alto, piuttosto esile. Affrontò correndo la discesa verso la nostra postazione, portando il suo “Breda” sulla spalla destra. Io lo seguii col moschetto a tracolla e con la valigetta dei caricatori portata a mano: correvamo a perdifiato giù per il costone. Il paese era lì sotto. Grosse colonne di fumo si innalzavano dai fienili incendiati. In un baleno siamo al nostro posto e guardiamo giù. Eccoli, gli uomini dai lunghi cappotti. Eccoli; elmo e cappotto, tutti uguali, grigi e massicci. Poniamo il mitragliatore sulla sua piazzuola. Siamo a un terzo della strada che divide l’accampamento al paese. I gesti dei tedeschi non ci sfuggono, ed essi, invece, non ci hanno ancora visto. Ciò è bene. Il mio mitragliere si prepara alla battaglia con frenesia, come fosse una festa. Carica l’arma, la sistema con cura e subito spara la prima breve, caratteristica raffica del “Breda”. Ecco, sulla strada sotto arriva un camion. Il ragazzo lo prende di mira. “Ta-ta-ta-tac, ta-ta-ta-tac, ta-ta-tac”. È la voce della nostra arma. “Tatatatatatatatatata”. Un partigiano prende la mira con la mitragliatrice Breda. Sopra anche la mitragliatrice pesante comincia a conversare. Sotto i tedeschi si nascondono dietro le case. Molti si sono riuniti dietro l’argine della Rumianca. Adesso ci hanno individuati e iniziano contro di noi un fuoco infernale. Una mitragliatrice ci prende sotto tiro. I colpi si infrangono sulla roccia attorno a noi, così che questi sembrano l’eco di quelli. “Tac tac tac tac” e giù “Tatatata”. Siamo ben protetti dalla piazzuola attorniata da grossi massi. Alcune fessure per le canne delle armi e niente di più, e contro queste fessure si accanisce il fuoco nemico. Noi, pancia a terra, da quelle feritoie guardiamo giù. I tedeschi hanno cominciato l’avanzata. Stanno salendo. “Guardali, marciano a fischietto”. I tedeschi all'attacco. Secondo le stime ufficiali erano 150 unità, ma per i partigiani e la popolazione di Megolo erano almeno 300. Guardo con occhi sbarrati. Non sembra possibile. Ad un colpo di fischietto i tedeschi di un determinato gruppo, tutti insieme, escono dal loro riparo e balzano dietro ad un altro, più in alto. Qualche secondo di sosta, ordina rauchi per disporre la direzione e poi un altro fischio ed un altro balzo. Il tempo di sparare contro quelli è minimo. Hop-là! Se non sei pronto, quello è di nuovo nascosto, ma più vicino. Fischio-balzo. Fischio-balzo. Fischio-balzo. Noi si spara, ma quasi sempre a vuoto. “Porca, porca miseria. Ce la fanno!”. Schema delle forze in campo nella battaglia di Megolo: due plotoni tedeschi (indicati dalle frecce nere), salendo con manovra a tenaglia, a sinistra da Megolo di Fondo e a destra dal Valloncello dell'Arsa, accerchiano le forze partigiane, tenute sotto tiro intenso dal terzo plotone posto più in basso vicino alla Chiesa da Megolo di Mezzo. La lettera A indica il gruppo del Capitano Beltrami con Gianni Citterio, Antonio Di Dio, Gaspare Pajetta e Aldo Carletti. Il gruppo B è quello del tenente Fausto Testori, con Jean il Francese, Gino Vermicelli e Aldo Mori. Alla lettera C corrisponde il tenente Cesare Bettini con i suoi "carabinieri" in un totale 15-16 con tre o quattro mitragliatori e il gruppetto degli otto lodigiani. La rocca, attorno a noi, è crivellata. Al piano, dietro all’argine del canale, hanno piazzato armi pesanti, e adesso ci stanno passando a setaccio. La battaglia infuria. Loro sparano e noi spariamo. Ma loro sparano di più. Ora hanno anche mortai e cannoncini. I tedeschi spararono verso i partigiani con mortai e cannoncini. Gli obici scoppiano sopra le nostre teste. Fumo e odore di polvere. Polvere e detriti di roccia. Sentiamo dietro di noi, più in alto, che la nostra mitragliatrice si comporta bene. Il nostro mitragliatore, invece, non va più. Tac. Spara un colpo e poi più niente. Si ricarica. Tac. Spara un colpo e basta. È sempre così con quella maledetta arma. Niente da fare. Postazione mitragliatrice di Gino Vermicelli. Il gruppo del tenente Fausto Testori, con Jean il francese, Aldo Mori e altri coprivano la zona a sinistra del comando di Beltrami.

- Torniamo su e cambiamo le munizioni – dice il mitragliere.

Tornare su è una parola. Sopra di noi è un inferno. Come fare?

- Facciamo come loro – grido – va coul sass! Un balzo e siamo dietro a un masso, più in alto. Io corro portandomi la valigetta semivuota dietro. Ma il ragazzo deve portarsi l’arma, che è ingombrante oltremodo, anche se non funziona…………Attendevamo l’arrivo delle prime pattuglie nemiche sul nostro pianoro, ma forse non ce l’avrebbero fatta a giungere sino a quassù. Comunque ci sentivamo abbastanza sicuri. Erano le dieci circa.

Un grido. È Carletti.

- È ferito – dice Citterio.

Beltrami allora lo chiama:

- Ascoltami, non muoverti, ascolta, cerca di raggiungerci piano piano.

- Sì, sì. Ah, il ginocchio.

Un silenzio e poi:

- Aaaaah….aaah…ah……

Carletti, allora lo chiamavamo con un altro nome che non rammento più, il mio amico Carletti, il nostro compagno, morì così. Siamo in cinque lì: Filippo Beltrami, ANTONIO DI DIO, Gianni Citterio, Gaspare Pajetta ed io….Ormai è quasi buio. Il fuoco divora il bosco lungo il torrente e ci illumina la strada.

Era il tredici febbraio del millenovecentoquarantaquattro”
GIORGIO CARNEVALI

2014-02-05

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