Secondo le stime, la popolazione mondiale continuerà a crescere fino al 2064, quando raggiungerà la quota impressionante di 9,7 miliardi. L’esplosione demografica sarà dovuta principalmente al calo del tasso di mortalità, grazie ai miglioramenti nella medicina, nell’alimentazione, nella tecnologia, nell’educazione e al minor numero dei morti di guerra. Quello sarà il picco massimo, dopodiché si inizieranno a sentire gli effetti del calo della natalità già in atto da almeno un secolo: la popolazione inizierà a ridursi, fino a tornare sotto i nove miliardi alla fine del secolo. Per l’Italia, dove il tasso di fecondità è particolarmente basso (1,29 figli per donna nel 2018) e continua a calare, si calcola che la popolazione non supererà i 30 milioni – meno della metà di quella attuale.
Il tasso di fecondità decresce anche perché entra nel quadro la quota crescente di donne senza figli: per le nate nel 1978, considerate ai fini statistici al termine della propria storia riproduttiva, tale quota si stima raddoppiata (22,5%) rispetto a quella delle nate nel 1950. Al Centro-Nord, da lungo tempo sotto il livello di sostituzione di circa 2 figli per donna (il tasso che permette a una generazione di venire sostituita dalla successiva, mantenendo la popolazione stabile), quasi una donna su 4 della medesima generazione è senza figli.
I motivi? Più alto livello di istruzione, soprattutto femminile; crisi economica; urbanizzazione; disponibilità della contraccezione, ma anche delle tecnologie di fecondazione assistita; più consapevolezza e conseguente maggiore facoltà di scelta; relazioni e nuclei famigliari non tradizionali; ma anche, recentemente, un maggiore senso di responsabilità nei confronti dell’ambiente.
Sì, perché, se pure non si vogliono considerare riscaldamento globale, emissioni inquinanti, perdita della biodiversità e incremento dei rifiuti, bisogna essere consapevoli che, già ora, consumiamo risorse a un ritmo molto più veloce di quello al quale la Terra si rigenera. E avere figli è uno dei maggiori contributi del singolo essere umano al deterioramento del pianeta. Si calcola che se una famiglia decide di avere un figlio in meno può ridurre le proprie emissioni di CO2 equivalente di 58,6 tonnellate. Tanto quanto vivere 24 anni senza auto, oppure convincere 684 adolescenti a riciclare responsabilmente i rifiuti per il resto della loro vita, oppure ancora evitare 20 viaggi transatlantici in aereo. Un non-genitore può avere un’impronta al carbonio fino a sei volte inferiore a quella di un suo simile che ha deciso di riprodursi.
Da questa e da tante altre considerazioni, è in crescita il numero di persone, donne e uomini, che si identificano come childfree, senza figli per scelta. Se fatto principalmente per motivazioni di sostenibilità ambientale, una scelta di questo tipo può avere una doppia faccia: da un lato, non voler contribuire a sovrappopolamento, inquinamento e riscaldamento globale; dall’altro, non voler condannare altri esseri umani a vivere in un mondo che sembra avere una data di scadenza. Il che quindi significa che essere childfree può non corrispondere alla scelta di non diventare genitori: l’adozione è vista da alcuni come una pratica accettabile e del tutto sostenibile.
Allargando ancora di più il discorso, non significa nemmeno che la soluzione sia quella di non fare più figli: a simili estremi arrivano solo organizzazioni che è lecito definire “eco-fasciste”, come il Movimento per l’estinzione umana volontaria. Non dobbiamo, in tutto questo, dimenticare che anche l’essere umano è parte dell’ecosistema Terra e deve, in quanto tale, riconoscersi responsabile delle proprie azioni sull’ambiente e imparare a conviverci in modo più sostenibile.
È evidente, del resto, che, in un mondo democratico, una politica che punti al controllo delle nascite sia assai poco praticabile. Limitare il diritto alla riproduzione sarebbe, infatti, una grave violazione dei diritti umani: quello che possiamo fare è promuovere l’istruzione, soprattutto femminile, e migliorare il sistema sanitario. Al mondo ci sono tuttora 215 milioni di donne che ogni anno rimangono incinte senza volerlo: magari conoscono la contraccezione, ma non la usano, perché troppo costosa o non facilmente accessibile. L’emancipazione femminile e il miglioramento dell’istruzione portano a tassi di natalità più contenuti, rendendo le politiche che si orientino verso questi obiettivi un quadro di win-win, a doppio vantaggio.
Oltre alle ragioni antropologiche, è interessante anche considerare l’aspetto socio-economico del problema della sovrappopolazione. Il punto, infatti, spesso non è semplicemente quante persone ci sono sulla Terra, ma quanto ciascuna di esse consuma. Se tutti vivessero come negli Stati Uniti, per esempio, la Terra potrebbe sostenere solo 200 milioni di persone: un americano medio consuma come 20 indiani, 30 pakistani, o 250 etiopi.
E non si tratta solo di consumo, ma anche di disparità di accesso alle risorse e di distribuzione della ricchezza. 663 milioni di persone nel non hanno accesso all’acqua. 2,4 miliardi di persone non hanno accesso a una toilette. Secondo i dati Oxfam, nel 2015 appena 62 persone possedevano la stessa ricchezza di 3,6 miliardi di persone, ossia la metà più povera della popolazione mondiale. Il nostro modello di sviluppo porta con sé pesanti disuguaglianze alla radice. La crescita esponenziale della popolazione mondiale e la conseguente scarsità delle risorse ne sono solo il risultato. Finché non affronteremo le cause strutturali, continueremo a pagarne le conseguenze.