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AccaddeOggi 23 agosto 2007 Bruno Trentin si spegneva Riflessione Giovanni Rispoli

Il 23 agosto 2007 si spegneva il grande sindacalista. Per ricordarlo ripubblichiamo un’intervista a Rassegna Sindacale dedicata al modo in cui il sindacato visse l’anno della contestazione giovanile, all’emergere di nuove politiche e alla successiva crisi

| Scritto da Redazione
AccaddeOggi 23 agosto 2007  Bruno Trentin si spegneva  Riflessione Giovanni Rispoli

AccaddeOggi 23 agosto 2007  Bruno Trentin si spegneva  Riflessione Giovanni Rispoli

Il 23 agosto 2007 si spegneva il grande sindacalista. Per ricordarlo ripubblichiamo un’intervista a Rassegna Sindacale dedicata al modo in cui il sindacato visse l’anno della contestazione giovanile, all’emergere di nuove politiche e alla successiva crisi

Il 23 agosto 2007 si spegneva a Roma Bruno Trentin. A cinquant’anni dal ’68, per ricordarlo, pensiamo sia utile ritornare alla sua straordinaria capacità di analisi ripubblicando un’intervista a Rassegna Sindacale, autore Giovanni Rispoli, dedicata al modo in cui il sindacato visse l’anno della contestazione giovanile, all’emergere in quella fase di nuove politiche e forme di organizzazione – condensatesi con il ’69 e l’autunno caldo nel sindacato dei consigli –, alle ragioni della crisi intervenuta negli anni settanta e precipitata durante i primi anni ottanta con la vicenda della scala mobile.

L’intervista, apparsa sul n. 15/1988 di Rassegna (numero speciale del primo maggio), venne riproposta dieci anni dopo in: Bruno Trentin, Il nostro lavoro. Un’antologia degli interventi su Rassegna Sindacale (supplemento del settimanale, n. 33/2008, curato sempre da Giovanni Rispoli)

“L’insorgere dei movimenti studenteschi, l’esplosione del maggio francese coincisero da noi con un ripensamento delle forme di rappresentanza e di democrazia che il sindacato avrebbe dovuto garantire”. È questa, per Bruno Trentin, la peculiarità del ’68 sindacale italiano. Da quel ripensamento, sul tronco di rivendicazioni di potere e di eguaglianza – nei diritti e nelle opportunità –, nascerà il sindacato dei consigli, protagonista per buona parte degli anni settanta delle vicende sociali, ma anche politiche, del paese. Per buona parte. A un certo punto sarebbero giunti la crisi e il riflusso entro un alveo per alcuni magari più rassicurante, ma certo molto lontano da quel bisogno di autogoverno del lavoro in cui Trentin vede uno dei messaggi di maggior significato dell’esplosione di vent’anni fa. Sul percorso compiuto dal sindacato in seguito alle spinte del ’68, sulle ragioni per cui quel cammino per tanti versi si è interrotto, il segretario Cgil ci offre alcuni elementi di riflessione.

Rassegna Il ’68 del sindacato, dicevi, si inscrive dentro il segno di un preciso ripensamento. Ma da dove viene l’esigenza di discutere delle forme della rappresentanza?

Trentin Il sindacato doveva affrontare nel corso dell’anno la prova della contrattazione decentrata. E assolverla dopo una fase contrattuale molto difficile, quella del ’66, in cui si erano evidenziati vuoti di partecipazione dei lavoratori alla gestione delle vertenze. Per questo motivo già nel ’67, e poi appunto nel ’68, si cominciò a mettere in discussione la validità di vecchie modalità di rappresentanza nei luoghi di lavoro, a confrontarsi sulla necessità di trovare terminali nuovi cui affidare anche compiti contrattuali. Al tempo stesso era presente con forza, in quel periodo, il tema di un ricambio generazionale nei gruppi dirigenti in grado di riflettere i mutamenti profondi intervenuti nella composizione sociale della forza lavoro, soprattutto nell’industria. L’effetto di richiamo del maggio francese, la discussione sulle nuove forme di democrazia aperta soprattutto in Cgil e in alcuni sindacati industriali come la Fiom, la sperimentazione concreta che su questo particolare terreno venne condotta durante grandi vicende di contrattazione aziendale: ecco, da questo intreccio nacque l’esperienza più vitale del ’68, che si tradurrà l’anno successivo nella forma più organica dei delegati e del sindacato dei consigli.

Rassegna Ma non fu un percorso lineare, ci fu uno scontro…

Trentin Uno scontro molto duro: all’interno del sindacato e tra sindacato e forze politiche. E i partiti della sinistra non giocarono certo un ruolo promozionale nel rinnovamento democratico del sindacato: o sono stati assenti, o hanno espresso resistenza, dissenso, spirito di conservazione. Nel sindacato si era aperta già prima, nel ’67, una lotta politica incentrata su una questione ancor oggi attuale. Ci si chiedeva se, firmando contratti per tutti, fosse giusto che le regole della democrazia e della rappresentanza dovessero valere solo per gli iscritti e non anche per i lavori rappresentati.

Un secondo punto di scontro venne, già a partire dal ’68, dalla pressione di gruppi politici – sorti nella fase discendente del movimento studentesco – convinti che l’azione rivendicativa dovesse mantenere un carattere indeterminato e spontaneo, senza precipitare nella formazione di nuove strutture di rappresentanza, di nuovi strumenti di governo e di contrattazione. Lo scontro con questi gruppi aveva delle implicazioni che riguardavano la natura stessa del sindacato. In sostanza: le organizzazioni dei lavoratori dovevano essere il ricettacolo di spinte più o meno indeterminate e affidarsi, di conseguenza, alla forza d’urto di ristrettissime avanguardie, abilitate, esse sole, a interpretare la volontà di una base indistinta? O, piuttosto, rifondarsi e quindi ricostruire non soltanto nuovi strumenti di rappresentanza che guardassero al di là degli iscritti, ma anche nuovi strumenti di elaborazione delle politiche rivendicative? Questo fu il secondo fronte di lotta politica. Ma il fatto solo in apparenza curioso è che poi le posizioni di pura conservazione si ritrovarono in felice sintonia, più di una volta, con le posizioni estremistiche. Avevano, credo, un elemento in comune: la convinzione che il sindacato non potesse mutare il proprio mestiere, rispettando in definitiva il confine tra l’azione sociale e l’azione politica, e affidando completamente la seconda ai partiti, grandi o piccoli che fossero.

Rassegna Le lotte, per la qualità delle domande che allora insorgevano, chiedevano al sindacato di varcare quel confine. Ecco, spostiamoci sull’altro versante della questione: dalla sperimentazione di nuove forme di democrazia ai contenuti inediti di alcune rivendicazioni.

Trentin Attenzione, le due cose sono inseparabili: le nuove strutture – nel ’68 ancora in fieri – nascevano non solo da un bisogno di democrazia ma, contemporaneamente, come risposta a nuove domande. I delegati erano concepiti come strumenti di autogoverno conflittuale dei lavoratori su questioni direttamente collegate alla condizione di lavoro, cioè su quei problemi che sono irrisolvibili, nella loro specificità, a livello d’impresa e tanto più a livello di un contratto nazionale di categoria. Erano strumenti funzionali, quindi, a una politica rivendicativa, non ad altre. Se non si tiene conto di questa connessione, non si comprende perché si arrivò ai delegati e non a nuove commissioni interne o a sezioni sindacali più democratiche. E non si capisce che in seguito sarebbe stato l’appannarsi di quei contenuti e di quelle funzioni rivendicative del sindacato a determinare la crisi del ruolo e dell’autonomia del delegato.

Mi chiedevi dei contenuti rivendicativi. Tra quelli che appaiono nuovi rispetto all’esperienza tradizionale del sindacato, collocherei senza dubbio l’autogoverno della salute; un tema che si sviluppò in tutti i sensi, dalla prevenzione alla conoscenza, all’intervento per rimuovere le cause oggettive delle minacce alla salute psicofisica dei lavoratori.

L’altro grosso filone rivendicativo è quello delle condizioni di lavoro in senso proprio, che era molto legato al primo, ovviamente, ma tendeva non soltanto a contrattare a monte l’erogazione della fatica dei lavoratori – e quindi i tempi, le cadenze –, ma a “ripulire” questo terreno di contrattazione e di confronto dagli schermi che la stessa contrattazione sindacale aveva costruito negli anni. La lotta per superare vecchie forme di cottimo, ad esempio, non esprimeva, se non in casi molto limitati, l’illusione di cancellare, con il cottimo, il lavoro predeterminato. Ma aveva l’obiettivo preciso di portare la contrattazione del lavoro a tempo determinato alla luce del sole e di consentire, quindi, un intervento dei lavoratori non sulle ricadute salariali di una specifica organizzazione del lavoro, ma su quella organizzazione del lavoro. Allo stesso modo, la rivendicazione sull’orario era tesa a ridurre, sì, la fatica del lavoratore, ma contemporaneamente a consentire un controllo, un governo delle condizioni di lavoro più in generale. In questo senso l’orario di lavoro ebbe allora un grande peso. E nel ’69, con i contratti, si realizzò un enorme salto di qualità, all’interno di una concezione che forse poi si è persa per strada: quella del governo complessivo degli orari.

 

A fianco di questi grandi filoni rivendicativi c’era una generale e a volte generica spinta a tradurre tutti questi obiettivi in un grande movimento per l’uguaglianza. Qui coesistono, e coesisteranno a lungo, elementi molto diversi. Di grande valore era la tensione per l’uguaglianza delle opportunità e dei diritti, quindi per il superamento definitivo delle disparità normative tra operai e impiegati. Su questo versante vi fu un’azione rivendicativa vòlta all’eliminazione di tutte quelle barriere che non hanno poi nessuna funzione rispetto all’organizzazione dell’industria, se non quella di dividere, secondo una logica castale, diverse categorie di lavoratori. All’interno della spinta per l’uguaglianza leggerei anche tutti i movimenti che si sono innestati, a partire dal ’68, per la conquista di un minimo di autonomia culturale e professionale dei lavoratori: la rivendicazione delle 150 ore, ad esempio, ebbe anch’essa una grossa carica di uguaglianza, di conquista di pari opportunità, indipendentemente dalla storia professionale o culturale di ciascuno.

Certo, accanto a questo, nell’obiettivo dell’uguaglianza c’erano anche delle tensioni molto più elementari, e al limite fuorvianti, com’è stato per il grande movimento per gli aumenti salariali uguali per tutti. Quest’obiettivo esprimeva un bisogno primitivo di abbattere d’un colpo una serie di barriere senza capire quali fossero quelle da smantellare e quali, invece, quelle da modificare. Si trattava di una tensione antagonistica rispetto ai temi e alle forme di organizzazione nuovi che ho sin qui ricordato.

Rassegna In cosa consisteva questo antagonismo?

Trentin In una filosofia completamente opposta: la convinzione che la prestazione, l’organizzazione del lavoro fossero assolutamente immodificabili. Il lavoro come una condanna, insomma, che come tale doveva essere compensata, pagata il più possibile e in maniera uguale per tutti. Ma questa forma di egualitarismo, che era terribilmente riduttiva rispetto a una grande carica protesa all’uguaglianza dei diritti, alla fine ha costretto il sindacato a ripiegare nelle sue frontiere tradizionali scacciando, com’era inevitabile, l’altra parte del movimento rivendicativo nato con il ’68: la moneta cattiva ha scacciato quella buona.

Rassegna Il ’68 e in generale gli ultimi anni di quel decennio videro un’effervescenza dell’iniziativa sindacale anche in altri paesi. Ma solo da noi si realizzò una “lunga durata”, si consolidò un’anomalia. Per quale ragione?

Trentin Credo che le ragioni di una maggiore tenuta siano due. Una è il peso relativamente più rilevante di un sindacato di matrice cattolica che ha potuto far contare nel movimento rivendicativo un’istanza liberatoria e umanistica che si è manifestata spesso in termini di rozzo egualitarismo salariale, ma si è espressa anche in termini di primato dell’individuo e di una visione della comunità come momento di micro aggregazione capace di autodecidere. È giusto riconoscere che proprio questo filone del sindacalismo italiano ha avuto grandi meriti nel mettere in crisi una concezione vetusta del movimento operaio di tradizione marxista; una concezione che riteneva immodificabile l’organizzazione della produzione nel mentre lo Stato era in qualche modo soggetto alle classi dominanti.

L’altro dato, di pari importanza, risiede nelle caratteristiche fortemente intrise di politica e di potere del sindacalismo di tradizione socialista in Italia. Quella divisione abbastanza rigida dei campi che ha prevalso in tutto il movimento sindacale dell’Europa occidentale, fra azione sociale e azione politica, sindacato e partiti, nel nostro paese – dove pure c’è stata, per essere poi riproposta e teorizzata più volte – era fortemente messa in questione, sin dall’origine, dalla natura stessa del conflitto sociale, dal fatto che questo investiva in partenza problemi riguardanti l’occupazione, prima e più che i problemi dell’autodifesa dei lavoratori occupati. Abbiamo sempre avuto un sindacalismo fortemente intriso di politica.

Rassegna E in maniera così pregnante che, secondo un’opinione anche abbastanza diffusa, proprio a partire dal ’68, e per un intero decennio, il sindacato avrebbe svolto addirittura una funzione di surroga nei confronti dei partiti. Sei d’accordo?

Trentin Il sindacato ha certamente surrogato, in parte, una carenza delle forze politiche e del sistema istituzionale. Credo che in quegli anni abbia delineato anche la possibilità di diventare – come si è detto poi – un soggetto politico, superando definitivamente vecchi steccati tra il sociale e, appunto, il politico, contestando il monopolio della politica da parte dei partiti. Ma questo mi sembra un problema ancora attuale.

La questione più rilevante è però un’altra: capire in quale misura le forze politiche hanno saputo comprendere e scommettere sulle novità del ’68 e ’69 o in quale misura hanno contribuito a far prevalere, alla fine, gli aspetti più tradizionali e scontati di quella stagione, costringendo il sindacato a tornare nell’alveo. Il mio parere è – parliamo ovviamente dei partiti di sinistra – che al di là di alcuni atti di apertura abbastanza generici o del gesto convinto e illuminato di un singolo – penso a Luigi Longo (all’epoca segretario del Pci, ndr) – ci sia stata una fortissima disattenzione nei confronti dei contenuti specifici del conflitto sociale, delle reali novità del ’68. Una disattenzione non solo dei gruppi dirigenti, ma degli intellettuali, ancorati a una vecchia cultura capace di leggere il ’68-69 unicamente come un ennesimo, più forte conflitto distributivo tra salario e profitto, e non – come sarebbe stato più corretto – tra capitale e lavoro.

Rassegna I partiti, quindi, confortati dall’opinione di tanta parte della cultura, non hanno compreso la novità. Ma hanno rioccupato l’antico spazio…

Trentin Sì, e proprio perché – ripeto – non hanno compreso i significati nuovi del conflitto sociale emersi alla fine degli anni sessanta. Ma il mutamento di equilibri che si è realizzato negli ultimi anni settanta si è tradotto in una perdita secca per tutto il movimento operaio. C’è stata una nuova redistribuzione delle aree d’intervento, di potere, però su uno schema che non era quello emerso negli anni della contestazione, bensì sul vecchio schema del rapporto sindacato-partito. Il sindacato aveva troppo tralignato in alcune aree tradizionalmente riservate alle forze politiche, i partiti hanno tentato – senza peraltro riuscirci in modo efficace – di sviluppare quegli spazi, e si è arrivati anche per questa ragione a una specie di reciproca rincorsa nel governo della redistribuzione del reddito attraverso gli strumenti più tradizionali, quelli delle classi dominanti. La politica dei redditi intesa come predeterminazione dei tassi di crescita degli stessi è diventata in qualche modo l’oggetto di una contesa tra sindacati e partiti. Tutto ciò mentre la questione di fondo era un’altra: quella, anche qui, di costruire nuovi strumenti di governo dei redditi. Si è giunti alla centralizzazione prima, alla crisi del movimento sindacale poi, esplosa nell’84; crisi che ha responsabilità profonde, ma che segna davvero – mi sembra – una parabola rispetto al ’68.

Rassegna Parabola che, ovviamente, se conosce un percorso ascendente, ne ha anche uno inverso. Ecco, quando comincia la discesa?

Trentin Direi dieci anni prima di quell’84 che, abbiamo visto, è il punto di caduta: quando il movimento sindacale e operaio non riesce a intravvedere la grande partita che si apre con la crisi energetica. C’è il problema di giocare d’anticipo, di intuire le enormi trasformazioni che cominciano a investire l’industria e la società nel suo complesso. Ma non accade. È questa ondata di trasformazioni – nell’assetto produttivo, nella struttura sociale, nella composizione della classe lavoratrice – a determinare il declino del sindacato dei consigli. Nel momento in cui avrebbero potuto vivere la loro più grande stagione, le nuove strutture nate dal ’68 vennero a trovarsi senza l’humus di cui si erano nutrite. E questo per due motivi. Il primo consiste nel fatto che la politica rivendicativa del movimento sindacale si era spostata su altre frontiere, diventando una politica prevalentemente distributiva. Vi era stata una progressiva “salarializzazione” dell’azione rivendicativa nelle sue varie versioni – l’accordo sulla scala mobile espresse anche questo dato – e non si comprese che in questo modo si sarebbe determinato un inaridimento degli altri aspetti dell’azione rivendicativa. I delegati cominciarono perciò a perdere progressivamente la loro funzione specifica, trasformandosi sempre più in terminali meramente organizzativi, o al massimo informativi, di politiche decise altrove.

Ma la crisi ha anche una seconda ragione, di natura politico-culturale. Affrontare la prova delle grandi trasformazioni significava per il sindacato essere in grado di esprimere un’egemonia culturale di dimensioni assolutamente inedite e quindi passare da quella che era diventata rapidamente una contrattazione di esperti, di specialisti del negoziato, a un’iniziativa rivendicativa gestita da milioni di uomini informati e consapevoli. Questo voleva dire uno sforzo gigantesco nella formazione dei quadri, nell’addestramento professionale dei delegati, nel governo dei processi formativi per consentire, appunto, al sindacato non di chiedere delle contropartite, ma di gestire il cambiamento da una posizione di forza e, aggiungo, di conoscenza.

Il primo segno del fallimento che da questo punto di vista l’esperienza dei consigli registrò lo si può cogliere nelle esperienze di controllo degli investimenti: il sindacato si mostrò incapace di gestire e socializzare, anche perché non aveva i referenti per farlo, e rapidamente questa forma di contrattazione che era, forse, la più avanzata, divenne affare di pochi, pochissimi addetti ai lavori. E quando poi si è presentato il problema di governare la rivoluzione informatica, questa contraddizione si è moltiplicata per mille.

Rassegna Esauritasi l’esperienza del sindacato dei consigli, quali dovrebbero essere i tratti distintivi del sindacato nuovo? E quali i soggetti cui fare riferimento?

Trentin Sono quelli di una società che ha visto moltiplicarsi, non ridursi, le forme di lavoro in qualche modo condizionato. Allora, il sindacato nuovo deve essere prima di tutto un sindacato che riesca a ritrovare la propria identità nella difesa del lavoro, ovunque esso sia, e quando questo lavoro è in qualche modo sottoposto a eterodirezione. E questa è una prima grossa discriminante, che non è affatto scontata, perché qui si tratta di sapere qual è il minimo comun denominatore tra soggetti estremamente diversi. Io credo che ricercarlo, quando si guarda all’acquisizione di determinati diritti o di determinate opportunità, sia decisivo.

La seconda discriminante consiste nella capacità di assicurare, sul terreno appunto dei diritti, una rappresentanza a tutti i soggetti, assumendo la diversità della loro storia, della loro cultura, persino della loro storia associativa. Quindi il sindacato nuovo non può che essere aperto a una pluralità di forme di rappresentanza. Si dovranno immaginare forme di rappresentanza capillare che però facciano i conti con l’esistente, quindi con movimenti, associazioni, forme di aggregazione anche temporanee attorno a un obiettivo, che debbono trovare nel sindacato un punto di riferimento. Da qui una struttura organizzativa anche molto flessibile.

Un sindacato nuovo, in terzo luogo, deve qualificare gli strumenti della rappresentanza in relazione agli obiettivi che persegue. Qui c’è l’analogia con i consigli. Le forme di organizzazione e di rappresentanza non sono fungibili per tutte le politiche, per tutti gli obiettivi. Se occorre rimettere al centro la questione del potere, dei diritti, dell’autogoverno del lavoro, allora certe forme di rappresentanza capillare ridiventano necessarie, molto diverse nella loro natura dai consigli di ieri, ma con caratteristiche analoghe. La cosa, però, ha un senso se queste forme di rappresentanza hanno contemporaneamente dei diritti da esercitare, un potere contrattuale effettivo, direttamente collegato alla specificità delle loro funzioni. Contenuti e forme organizzative, quindi, non si possono in alcun modo separare.

Infine, il sindacato nuovo deve consentire una democrazia degli iscritti: si tratta di un problema fondamentale e non antagonistico rispetto a quello di una democrazia della rappresentanza. Quindi, si tratta da un lato di individuare una democrazia degli iscritti che faccia del sindacato un’organizzazione di proposta – ed è già molto importante garantire al sindacato questa funzione –. E, dall’altro, una democrazia di rappresentanza che diventi una democrazia di mandato su una proposta del sindacato o su una proposta diversa, qualora una proposta diversa emergesse dall’universo dei rappresentati in questo o quel conflitto sindacale. Questo vuol dire superare rapidamente la pratica dei referendum di ratifica che abbiamo troppo a lungo perseguito e immaginare una democrazia molto più complessa, ma che dovrebbe poter funzionare se fosse una democrazia gestita da strutture capillari e articolate.

La democrazia dei consigli non aveva nulla a che vedere con la democrazia assembleare. Era molto più più ricca, e consentiva sia di superare il ruolo schiacciante di alcune minoranze di avanguardia sia di evitare che l’esercizio della democrazia si limitasse a un sì o a un no riguardo a una proposta complessa. Su questo bisognerebbe riflettere.

Fonte rassegna sindacale 23 agosto 2007

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