Sotto le ceneri contenute nel “sarcofago” cova ancora la brace del fuoco atomico. I rilevatori posti negli impianti di Chernobyl, riporta Science, negli ultimi tempi hanno registrato un aumento del numero di neutroni, indice dell’attività di fissione nucleare nell’area.
Per ora la crescita è contenuta e piuttosto lenta – il flusso di neutroni sarebbe raddoppiato in quattro anni – ma il timore è che superato un certo livello la reazione sfugga al controllo e inizi a crescere esponenzialmente. Una prospettiva che aleggia sul sito ucraino fin dal disastro avvenuto tra il 25 e il 26 aprile 1986: il reattore quattro, teatro dell’esplosione, conserva ancora al suo interno circa il 95% del combustibile originario, sepolto da una sorta di lava solidificata (Fuel-containing materials – FCMs o chernobylite) dove è mischiato a detriti, sabbia, grafite derivante dalle vecchie barre di controllo e zirconio.
“In realtà non sembra stia succedendo nulla di particolare, anche i giornali per il momento stanno evitando i catastrofismi: è stato misurato un incremento di neutroni ma non sono noti i valori assoluti – spiega a Il Bo Live il fisico Marco Casolino, primo ricercatore presso l’Infn e docente all’università di Roma Tor Vergata, da anni collaborare con il centro di ricerca giapponese Riken –. Il punto è che in qualunque materiale radioattivo le reazioni nucleari non si spengono da un momento all’altro. Se poi si intende una reazione a catena, quella è tecnicamente possibile solo in una centrale o in una bomba”.
Attualmente l’area è protetta dal New Safe Confinement (NSC), l’enorme coperchio di cemento e acciaio costato un miliardo e mezzo di dollari inaugurato nel 2016. Nel vecchio ‘sarcofago’ costruito subito dopo l’esplosione entrava l’acqua piovana, “che agisce da moderatore di neutroni e quindi aumenta la reazione nucleare: se i neutroni sono più lenti tendono infatti ad avere più urti con i nuclei piuttosto che a scappare via – continua Casolino –. Ora che il NSC che non fa più entrare più l’acqua ci si aspettava che l’attività sarebbe diminuita, invece sta accadendo esattamente il contrario. Non sappiamo ancora perché: l’aumento potrebbe essere anche favorito da qualche movimento di assestamento tra i detriti, ma è presto per fare ipotesi”.
Al momento le condizioni per intervenire all’interno del vecchio reattore sono ancora proibitive: a causa dell’elevato livello di radiazioni è difficile persino avvicinarsi per installare dei sensori di rilevamento. In passato i detriti sono stati comunque irrorati con una soluzione di nitrato di gadolinio, atta a rallentare la reazione assorbendo neutroni, che però non è riuscita a penetrare in profondità nella colata di FCMs. Non è ancora chiaro cosa fare: sono allo studio varie soluzioni, tra cui bonificare l’area servendosi di robot o facendo carotaggi nella massa di detriti in modo da calarvi dei cilindri di boro, che in sostanza agirebbero come le barre di controllo all’interno dei reattori.
L’immagine evocata da Science è quella dei tizzoni sotto la cenere, che però al momento non inquieta più di tanto Casolino: “I pezzi combustibile continuano a decadere per periodi molto lunghi: l’importante è monitorare la situazione giorno per giorno; se poi la radioattività continuasse ad aumentare, anche nello scenario peggiore potrebbero al massimo verificarsi una o più esplosioni chimiche di piccola portata, incapaci di intaccare l’involucro esterno”. La reazione si ‘spegnerà’ da sola o sarà necessario un intervento? “Come ho detto le reazioni nucleari sono sempre attive – risponde il fisico –. In queste condizioni, in cui il combustibile è mischiato a detriti, una reazione a catena è praticamente impossibile. Al momento comunque i valori sono ancora in crescita lineare e non esponenziale; per restare al paragone con le braci diciamo che è molto difficile che da queste possa scatenarsi un incendio, anche perché intorno manca la legna”.
Eppure a distanza di 35 anni dal disastro il nucleare continua a fare paura: a confronto ad esempio il disastro di Bhopal, oltre 3.000 morti e danni all’ambiente paragonabili a quelli della centrale sovietica, non ha ricevuto una copertura mediatica minimamente comparabile. “Credo che la paura dell’atomo nasca soprattutto dalle bombe, anche se poi è stata in qualche modo tenuta viva dal problema delle scorie – continua Casolino, che al tema ha dedicato anche un libro divulgativo, Come Sopravvivere alla Radioattività (Cooper editore, 2011) –. Oggi inoltre è diventata anche una questione politica, con il movimento ecologista che in maggioranza si è schierato contro: un paradosso, visto che le minacce all’ambiente arrivano soprattutto dal riscaldamento globale”.
Un altro problema è che i detriti, a causa delle loro caratteristiche intrinseche, si stanno erodendo molto velocemente, dando origine a una polvere radioattiva che in futuro potrebbe riversarsi anche al di fuori del NSC. “Anche se a livello generale la centrale è in sicurezza, la soluzione definitiva è sicuramente il trasporto del materiale radioattivo in un deposito geologico – conclude lo scienziato –. Un’operazione già prevista estremamente complessa, perché difficile è avvicinarsi e lavorare in sicurezza nell’area. Ci sono ditte specializzate come quelle si occupano dello smantellamento dei sottomarini atomici, qui però si tratta di condizioni molto più estreme”. Prima insomma che Chernobyl (e Fukushima) tornino a essere posti normali ci vorranno ancora soldi e tempo: “Direi almeno 30 anni. Probabilmente la mia generazione non arriverà a vedere il decommissioning completo di queste aree”.
(Daniele Mont D’Arpizio, Il Bo Live cc by nc nd)
Il giornale dell’Università di Padova