Qual è la relazione tra la pandemia e i cambiamenti climatici o viceversa? Non è immediatamente facile comprendere quello che da tempo sostengono gli scienziati, ovvero che entrambi i fenomeni sono il risultato di un pianeta portato all’estremo delle sue capacità, il risultato della progressiva distruzione degli ecosistemi e della loro capacità equilibratrice. Tuttavia, man mano che la crisi del coronavirus si impone globalmente, con risposte differenziate a livello di governi, di comunità e di singole persone, ecco che si svelano meglio le relazioni e i parallelismi che legano le due crisi.
In primo luogo, sia la scienza sui cambiamenti climatici che la scienza sul rischio di pandemie sono predittive, si fondano sulla conoscenza dei fenomeni e della loro possibile evoluzione, spesso sulla base di analisi di dati del passato, e proiettano nel futuro il possibile impatto sulle società umane.
Un secondo aspetto in comune è che sia i cambiamenti climatici che una pandemia come quella in corso sono in grado di provocare effetti economici e sociali giganteschi e globali, capaci di stravolgere l’attuale ordine mondiale, regionale e locale.
Il terzo aspetto riguarda la mancanza di capacità di preparazione e registra in verità sia una similitudine che una differenza tra le due crisi. La similitudine è il fatto che, nonostante i rischi immensi, ben poco è stato fatto fino a oggi da una parte per sopprimere le cause dei cambiamenti climatici – ovvero, in estrema sintesi, fermare il consumo di combustibili fossili – e dall’altra per prepararsi a far fronte a un’epidemia globale, nonostante i campanelli d’allarme di Hiv, Sars, Mars o Ebola.
La differenza tra i due casi è che i cambiamenti climatici sono in corso e sono certi, mentre lo scatenarsi di un virus pandemico come il Covid-19 aveva sì una certa probabilità di verificarsi, ma era impossibile fare previsioni sul quando e come. Mi rendo conto che la differenza non giustifica affatto – e per entrambe le crisi – la mancanza di preparazione o di risposta, ma mette in evidenza aspetti inquietanti sulla capacità delle società umane di prendere in anticipo decisioni sagge.
Ci sono poi differenze che sembrano tali a prima vista, ma non reggono a un’analisi più attenta. Per esempio, qualcuno potrebbe dire che i cambiamenti climatici sono un processo nel suo complesso “lento”, mentre una pandemia corre molto veloce. Ma vi ricordate l’estate del 2003 in Europa o quella del 2010 in Russia? Nel 2003 in un solo mese, tra luglio e agosto, flagellato da ondate di calore morirono 35 mila persone, soprattutto in Francia, secondo una stima prudente (altre stime parlano del doppio). Nella torrida estate del 2010 in Russia – caratterizzata anche da immensi incendi di steppa e boschi – i morti di caldo furono più di 50 mila. Non parliamo poi dell’estate australiana appena terminata con i suoi roghi, o della scia di morte lasciata dagli uragani Katrina nel 2005 o Maria nel 2017.
Le differenze
Forse la differenza più evidente è che la risposta dei governi all’avanzare del coronavirus è stata nella maggioranza dei casi abbastanza rapida e decisa, presa di concerto con la scienza, cosicché pure le misure di contenimento e di limitazione delle libertà di movimento delle persone sono state ben accettate dalla popolazione sulla base del rispetto delle opinioni degli esperti e certamente anche per la paura del contagio. Per i cambiamenti climatici – al di là di misure parziali, prevalentemente in Europa – siamo ancora in attesa delle grandi decisioni. Eppure, ogni molecola di CO2 che deriva dall’utilizzo di combustibili fossili (carbone, petrolio o gas naturale) si accumula nell’atmosfera e fa aumentare la temperatura del pianeta. È come un’epidemia non confinata. E per quanto riguarda il rapporto con la scienza, abbiamo ancora intere nazioni – e tra le più importanti del pianeta quali Stati Uniti, Brasile, Australia, Russia – i cui leader sciaguratamente professano posizioni negazioniste.
Ma anche nell’affrontare l’emergenza del coronavirus, i governi hanno mostrato alcune differenze che riflettono aspetti puramente ideologici. Basta pensare alle dichiarazioni del governo britannico (poi corrette in corsa) e di quello olandese, entrambi orientati da convinzioni neo-liberiste, con la scommessa di puntare sull’immunità di gregge per non introdurre misure restrittive forti, che avrebbero potuto causare danni all’economia. Si tratta di una scommessa che è come una condanna a morte per la parte più fragile della popolazione: ultra-ottantenni e persone con patologie pregresse. Si tratta anche di una ulteriore conferma che, per questo tipo di visione del mondo, l’economia – e la sua infinita crescita – non è un mezzo per lo sviluppo delle società, ma un fine ultimo e irrinunciabile, a cui, darwinianamente, sacrificare chi non ce la fa.
I tanti paesi, Cina e Italia in testa, che hanno scelto una strada diversa, cercando di salvare più vite umane possibili, si saranno svenati con le drastiche misure contenitive, ma avranno avuto anche la possibilità di sviluppare migliori esperienze di cura per essere in grado di far fronte a eventuali ritorni dell’epidemia, così come di aiutare con il loro esempio altri stati di fronte al contagio. Ma forse l’effetto più importante sarà la nuova coesione sociale, che la durissima prova potrebbe aver cementato, una volta che i sacrifici richiesti avranno avuto successo.
La complessità della crisi del coronavirus, così come di quella climatica e delle molte altre che si intersecano oggi, richiede che la politica si elevi al livello della sfida, in un rapporto non ambiguo con la scienza e la conoscenza, per non ripercorrere gli errori già fatti. E i cittadini stessi devono sapere, devono essere informati, devono conoscere i meccanismi, le previsioni scientifiche, i rischi dell’inazione e i benefici delle misure che vengono proposte. Qualsiasi popolo informato è disposto a fare sacrifici, se questi portano domani a condizioni migliori per sé, per i propri figli e nipoti. Ma la prospettiva di un popolo informato e consapevole delle proprie scelte è assai diversa rispetto al popolo suddito, consumatore cieco che forti interessi economici e politici vogliono mantenere nel mondo.
Investire sulla liberazione dell’uomo dall’ignoranza, su un sistema educativo che formi persone capaci di cambiare il mondo e di pensare e progettare il futuro è oggi vera politica rivoluzionaria.