di
Luca Aterini
A un quarto di secolo dal Dlgs 22/97, che ha recepito tre direttive europee e strutturato la raccolta differenziata nel nostro Paese, l’Italia presenta ancora profonde lacune nella gestione dei propri rifiuti ma un concetto almeno si è radicato: quello della raccolta differenziata appunto, divenuta ormai nella pubblica percezione un obiettivo da conseguire a prescindere, in grado di perseguirei al contempo fini ambientali e vantaggi economici.
In realtà, dal punto di vista ambientale la raccolta differenziata è un utile strumento solo se finalizzata ad uno scopo, ovvero la massimizzazione del riciclo; al contempo, non si contano le promesse elettorali di sindaci e altri pubblici amministratori in pectore, che giurano di abbassare la Tari ai cittadini a fronte di un aumento della raccolta differenziata, per poi essere invariabilmente smentiti dai fatti. Come mai?
A monte del problema c’è l’errata commistione tra bilanci ambientali ed economici: una determinata pratica può avere un impatto positivo sul piano ambientale ma non su quello economico, o viceversa.
Per fare chiarezza sul tema il laboratorio Ref ricerche ha pubblicato un nuovo studio, basato sui dati raccolti nei 328 Comuni dell’Emilia-Romagna: un territorio particolarmente virtuoso in fatto di raccolta differenziata (al 72,2% rispetto al 64% raggiunto a livello nazionale) e al contempo con una ricca dotazione impiantistica per termovalorizzare i rifiuti secchi non riciclabili meccanicamente (del resto l’ultimo rapporto Ispra sui rifiuti urbani certifica come «il ricorso all’incenerimento non costituisca un disincentivo all’aumento della raccolta differenziata»).
Nell’analisi sono prese in esame varie modalità di raccolta rifiuti (stradale, porta a porta, mista) e modelli tariffari (Tari presuntiva o puntuale). Il primo dato emerso è che «non esiste una differenza statisticamente robusta della produzione pro capite di rifiuto (rifiuti urbani/abitanti equivalenti) nei 6 sistemi di raccolta considerati». Una constatazione per certi versi banale, ma che è utile sottolineare: il quantitativo di spazzatura che generiamo ogni giorno non cambia se la suddividiamo in tanti sacchettini colorati.
Cambia semmai la ripartizione tra i vari sacchetti, con una diminuzione dell’indifferenziato (Rur): «Questi risultati confermano la necessità di uscire dalla logica che vede il sistema di raccolta come strumento di prevenzione, in grado di ridurre la produzione di rifiuto», argomenta lo studio. Più in dettaglio, «con riferimento ai Comuni che applicano il tributo (Tari) la produzione di Rur pro-capite si riduce passando dalla modalità di raccolta stradale (S-Tari) a quella mista (misto-Tari) e quindi al porta a porta (Pap-Tari). A prescindere dal modello di raccolta in essere, l’introduzione della tariffa puntuale funge da acceleratore nel ridurre la produzione di rifiuto indifferenziato». In altre parole, a parità di modalità di raccolta, l’adozione di una tariffazione puntuale aumenta la quota di raccolta differenziata del 10%.
Dal punto di vista del bilancio ambientale, il risultato dello studio è chiaro: «Dal circa 50% di quota di raccolta differenziata che si osserva nei sistemi di raccolta “tradizionali”, ossia caratterizzati da una tariffa presuntiva e raccolta stradale, si passa al 73% dei sistemi che abbinano la raccolta porta a porta alla Tari, ad oltre l’83% nei sistemi che le affiancano una tariffa/tributo puntuale. Il modello di raccolta misto, porta a porta per alcune frazioni e stradale per altre, supportato dalla tariffa/tributo puntuale, è quello con le performance migliori di avvio a riciclo, con un valore medio di Rur pro-capite intorno ai 50kg/ad e l’87% di raccolta differenziata. È lecito quindi affermare che sistemi di raccolta che combinano modalità di raccolta miste o porta a porta con la tariffa puntuale risultano in una maggiore sostenibilità per l’ambiente».
Dal punto di vista del bilancio economico, invece, il risultato dell’analisi è più sfumato per almeno due motivi: da una parte al crescere della differenziata crescono relativi costi (si tratta infatti di modalità di raccolta più complesse, con più elevati costi per la logistica, per il personale, per gli investimenti, etc), mentre diminuiscono quelli associati all’indifferenziato; dall’altra parte, l’aumento quantitativo della differenziata sembra andare a discapito della qualità dei rifiuti raccolti, anche nei territori coperti da tariffa puntuale, il che porta a un minore valore economico dei materiali raccolti per essere riciclati.
In definitiva, guardando a tutti i costi ricompresi in un’ottica di Piano economico finanziario (Pef), la riduzione che si osserva nel costo per abitante equivalente (ae) a seguito di un incremento della raccolta differenziata pari al 10%, è di appena 1,3 euro/ae.
«Nel complesso i benefici di un aumento della percentuale di raccolta differenziata sui costi pagati dal cittadino appare trascurabile, anche per effetto dei costi indiretti, suggerendo la necessità di migliorare la qualità e la valorizzazione delle raccolte differenziate», con la conseguente urgenza di aumentare in qualità e quantità anche le informazioni nel merito rivolte alla cittadinanza.
Da evidenziare, in ogni caso, che simili risultati sono stati ottenuti analizzando un contesto come quello dell’Emilia-Romagna, dotato di buone pratiche di raccolta rifiuti quanto di una solida dotazione impiantistica per la loro gestione. Non ci sarebbe da stupirsi se, ampliando l’esame al resto del Paese, i risultati peggiorassero a causa della carenza di impianti, come del resto già evidenziato dalla Corte dei conti: del resto i nostri rifiuti urbani percorrono ogni anno circa 68 milioni di Km in cerca di impianti di gestione, coi relativi costi ambientali ed economici.
Infine, occorre sottolineare che non ci sono benefici economici dal riciclo se i prodotti riciclati (materie prime seconde) non vengono poi ri-acquistati sul mercato, a partire dagli acquisti verdi della pubblica amministrazione (Gpp). In questo modo i benefici economici della raccolta differenziata e successivo riciclo aumentano anche a livello di sistema Paese: nonostante sia ancora la seconda potenza industriale d’Europa, l’Italia soffre una cronica carenza di materie prime vergini, e ogni azione volta a ridurre la dipendenza dall’estero – come nel caso del riciclo, appunto – assume una valenza strategica per il benessere economico collettivo.
«La raccolta differenziata trova il suo senso più intimo nella possibilità di restituire una seconda vita ai rifiuti, ossia a ciò che, nel suo utilizzo quotidiano, non trova più valore presso i cittadini. Ciò risulta quindi in un indubbio valore ambientale, ma anche in un significativo valore economico, a patto che esista un mercato in cui vengono scambiate le frazioni differenziate al fine di produrre nuovamente materie prime, le cosiddette materie prime seconde», concludono nel merito da Ref ricerche.