Lo studio “Multi-method evidence for when and how climate-related disasters contribute to armed conflict risk”, pubbicato su Global Environmental Change da un team di ricercatori australiani, tedeschi e svedesi, conferma che «Il rischio di conflitti violenti aumenta dopo che condizioni meteorologiche estreme come siccità o inondazioni colpiscono le persone nei Paesi vulnerabili«. Per Paesi vulnerabili si intende quelli «caratterizzati da un’ampia popolazione, esclusione politica di particolari gruppi etnici e scarso sviluppo». Per fornire nuove prove del legame tra cambiamenti climatici e guerre ai responsabili politici, lo studio mette insieme analisi statistiche globali, dati osservativi e valutazioni di casi studio regionali.
Uno degli autori, Jonathan Donges del Potsdam-Institut für Klimafolgenforschung (PIK), sottolinea che «Le catastrofi climatiche possono alimentare alcuni conflitti accesi: questa è una prospettiva preoccupante poiché queste catastrofi sono in aumento. Le emissioni continue di gas serra da combustibili fossili stanno, se non mitigate, destabilizzando il nostro clima. Gli estremi climatici più frequenti e più severi sono uno degli effetti. Il nuovo studio aggiunge prove importanti e quindi robustezza alle analisi dei conflitti che abbiamo fatto negli ultimi anni».
Uno di questi è lo studio “Armed-conflict risks enhanced by climate-related disasters in ethnically fractionalized countries”, pubblicato nel 2016 su Proceedings of the National Academy of Sciences da un team di ricercatori del quale facevano parte Donges e Carl-Friedrich che ha firmato insieme a lui questo secondo studio. Ed è proprio Schleussner, del Pik, di Climate Analytics- Berlin e dell’IRI THESys dell’Humboldt-Universität a dire che «Le cifre sono piuttosto sconcertanti. Abbiamo scoperto che quasi un terzo di tutte le insorgenze di conflitti nei Paesi vulnerabili negli ultimi 10 anni era stato preceduto da un disastro relativo al clima entro 7 giorni. Questo, tuttavia, non significa che i disastri causino conflitti, ma piuttosto che il verificarsi di un disastro aumenti i rischi di un conflitto. Dopotutto, la guerra è fatta dall’uomo».
L’analisi di casi concreti di ricorrenza di conflitti disastrosi dimostra che la maggior parte di questi casi non sono semplici coincidenze, ma che sono probabilmente collegati da meccanismi causali e questa è una delle nuove scoperte chiave del nuovo studio.
Il team di ricercatori guidato da Tobias Ide della School of geography dell’università di Melbourne fanno l’esempio del Mali, dove nel 2009 si è verificata una grave siccità, dopo la quale i Jihadisti di Al Qaeda nel Maghreb islamico ha nno sfruttato la conseguente debolezza dello Stato e la disperazione della popolazione locale per reclutare combattenti ed espandere la propria area operativa. Altri esempi analizzati includono Cina, Filippine, Nigeria e Turchia. L’India risulta essere il Paese con il numero di gran lunga più elevato di coincidenze conflitti-disastri naturali.
Secondo un altro autore, Michael Brzoska dell’ Institut für Friedensforschung und Sicherheitspolitik dell’Universität Hamburg, «Il risultato più sorprendente dello studio è stato il prevalere di opportunità di violenza armata rispetto a quelle legate alle proteste in situazioni post-disastro».
Ide conclude: «I disastri legati al clima possono agire come un moltiplicatore di minacce per conflitti violenti. La scoperta più importante dello studio è che solo i Paesi con una grande popolazione, con l’esclusione politica dei gruppi etnici e livelli relativamente bassi di sviluppo economico sono sensibili ai legami disastro-conflitto. Le misure per rendere le società più inclusive e più ricche sono, quindi, scelte da fare senza rimpianti per aumentare la sicurezza in un mondo in fase di riscaldamento».