Domenica, 05 maggio 2024 - ore 20.24

Libia, l'ITALIA deve impiegare più mezzi per difenderci !

L’Italia DEVE muovere più navi da guerra e usare mezzi, in direzione Libia.

| Scritto da Redazione
Libia, l'ITALIA deve impiegare più mezzi per difenderci !

Per evitare di trovarsi soffocati da questa invasione e, soprattutto, per contrastare il “patto dei barconi” stabilito fra le fazioni libiche affiliate allo Stato islamico dei Abu Bakr al-Baghdadi e le organizzazioni di trafficanti di esseri umani. Un patto da milioni di euro, sulla pelle di una umanità sofferente. Per fermare la “jihad dei barconi”, l’Italia non può attendere i tempi biblici delle Nazioni Unite.

Deve mettere in campo mezzi e uomini che diano conto della richiesta di Roma di essere, come in Libano, alla guida di una azione di peacekeeping o peace enforcing nel Paese nordafricano. Da La Spezia, come riportato da La Stampa, è salpata la nave San Giorgio, a bordo della quale vi sono gli uomini dei reparti speciali della Marina, i cursori. Addestramento, è la versione ufficiosa. Ma a taccuini chiusi e microfoni spenti, fonti bene informate dicono all’Huffington Post che “occorre essere pronti a ogni evenienza, visto che le minacce reiterati dall’Isis contro il nostro Paese sono tutt’altro che propagandistiche”. Il pericolo esiste.

Ed è crescente di adottare quindi l'opzione militare contro la Libia, sia stata finora scartata dal governo, ed adottare "piano b",perchè la diplomazia ha fallito, non riuscendo a  salvaguardare gli interessi italiani. La Marina Militare deve intensificare le manovre nel Mediterraneo, come è avvenuto stanotte il peschereggio AIRONE, tanto che con il ritorno dell'esercitazione "Mare Aperto" deve ritornare nel Mediterraneo, non nel l Tirreno e nello Ionio. L’Italia «è un potenziale obiettivo» dei terroristi di matrice islamica, perché è "il simbolo» della cristianità: c’è dunque «un rischio crescente di attacchi» per il nostro paese, che deve fare i conti non solo con foreign fighters e lupi solitari ma anche con una «nuova generazione di jihadisti», i giovanissimi homegrown che si radicalizzano sul web, e con le donne. Mogli, familiari o amiche dei combattenti partiti per la Siria e l’Iraq, che potrebbero entrare in azione "attratte dall’eroismo dei propri cari, specie se martiri". Dopo il capo della Polizia, Alessandro Pansa, anche i servizi segreti italiani lanciano l’allarme: dall’11 settembre del 2001, mai come oggi l’Italia è stata esposta ai rischi del terrorismo internazionale. Lo dimostrano anche i nuovi numeri sulle espulsioni resi noti dal ministro dell’Interno Angelino Alfano: dalla fine di dicembre sono 21 i soggetti cacciati dal nostro Paese perché «sospettati di estremismo violento".

Ad rendere ancora più grave la situazione, tanto da far adombrare la necessità di stabilire un blocco navale fuori dalle acque territoriali libiche, è la notizia del patto d’azione stabilito dai jihadisti e dalle organizzazioni criminali che gestiscono il traffico di esseri umani. L'avanzata dell'Isis in Libia e l'escalation di sbarchi degli ultimi giorni pone nuovi interrogativi. E il presidente del Copasir, Giacomo Stucchi, il 17 febbraio aveva parlato di «rischio concreto» che «possibili terroristi, anche non coordinati tra loro, si nascondano sui barconi in partenza». «Certo», aveva aggiunto, «fino ad ora, vista la situazione delicata, ogni soggetto che arriva viene controllato in modo approfondito. Mi chiedo però, con molta preoccupazione, come si possano garantire controlli adeguati nel caso di arrivi in massa, magari 10 mila in un giorno». Secondo un “rapporto” dello stesso Stato islamico, ripreso nei giorni scorsi dai media libici, l’Isis ritiene “strategico” conquistare la costa libica per la sua vicinanza all’Europa meridionale, “facilmente raggiungibile con le semplici barche” dei migranti. “Se riusciremo a sfruttare questo canale, la situazione nelle città europee si trasformerà in un inferno”, conclude il rapporto, gettando benzina sul fuoco di un allarme già diffuso nelle cancellerie occidentali. E ancora: le autorità libiche non sono in grado di fermare il commercio illegale di petrolio e il flusso illecito di armi, e per questo hanno bisogno di una forza marittima internazionale che le aiuti. Lo afferma un rapporto del panel di esperti del Consiglio di Sicurezza Onu. ''La capacità della Libia di impedire fisicamente i trasferimenti di armi è quasi inesistente e non vi è alcuna autorizzazione a far rispettare l'embargo per mare o in cielo come c'era nel 2011'', spiega il rapporto. La Libia è diventata in massima parte terreno per trafficanti d'ogni genere, bande criminali e terroristi islamici.

Una ''polveriera'' afferma l'Onu pronta ad esplodere in qualsiasi momento. Il blocco navale deve essere immediato, o rischi altissimi. Per questo, l’Italia si attrezza ad essere parte, addirittura possibile guida, di questa iniziativa navale. «Siamo pronti a contribuire al monitoraggio di un cessate il fuoco e al mantenimento della pace, pronti a lavorare all'addestramento delle forze armate in una cornice di integrazione delle milizie in un esercito regolare e per la riabilitazione delle infrastrutture Siamo anche pronti a curare le ferite della guerra e a riprendere il vasto programma di cooperazione con la Libia: la popolazione civile deve poter toccare con mano i vantaggi della riconciliazione auspicata dalla comunità internazionale», ha sostenuto nei giorni scorsi al Consiglio di Sicurezza il Rappresentante Permanente italiano, l’ambasciatore Sebastiano Cardi. Lo scenario che si ventila è quello delle marine militari di alcuni Paesi, tra i quali l’Italia, che potrebbero attaccare e distruggere le imbarcazioni di cui si servono i trafficanti attuando un vero e proprio blocco navale davanti alla costa libica per impedire la partenza dei barconi. Sarebbe questa la premessa dell’apertura di un corridoio umanitario molto più efficace dei soccorsi in mare. Quanto alle rotte dei barconi, direzione Italia, i punti di partenza sulla costa ad ovest di Tripoli sono Zuara, Sabratha, Sourman e Zanzur. Alle porte della capitale gli imbarchi avvengono a Tagiura e verso Misurata a Tarabuli. Tutte zone sotto il controllo del governo non riconosciuto di Tripoli legato agli islamisti e alleato di fatto con Ansar al Sharia, che combatte in Cirenaica sventolando le bandiere nere del Califfato. Almeno a Sabratha, uno dei punti di partenza verso Lampedusa, operano milizia legate ad Ansar al Sharia, la fazione jihadista più attiva e meglio armata tra le oltre 230 che spadroneggiano in Libia, e che nei mesi scorsi è entrata a far parte dell’Esercito islamico di al-Baghdadi. I clan criminali che si occupano materialmente della tratta pagano il pizzo alle milizie che controllano il territorio. A Zuara, lo snodo più importante, ogni viaggio genera un giro d'affari medio di 150mila euro. Il pizzo ai miliziani è di 18mila euro, poco più del 10 per cento. “Più si deteriora la situazione libica, più i trafficanti di persone diventano dominus degli affari; ed è chiaro che ci può essere un punto di contatto anche con l’organizzazione terroristica tout court , perché con uno Stato fragilissimo, niente più entrate economiche e pozzi petroliferi fermi, l’unica cosa che funziona è il traffico di esseri umani”, rimarca in proposito il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio delegato alla Sicurezza Marco Minniti. Non basta. “C'è un rapporto tra trafficanti di uomini e mafie italiane. – rileva ancora Minniti -. Più si deteriora la situazione libica, più i trafficanti di uomini sono il dominus degli affari ed è del tutto evidente che a un certo punto ci può essere un punto di contatto anche con l'organizzazione terroristica tout court perché in un momento in cui c'è uno Stato che è fragilissimo, non ci sono più entrate economiche e i pozzi petroliferi sono fermi, l'unica cosa che funziona è il traffico di esseri umani. E a quel punto il traffico di esseri umani può diventare un punto dominante della situazione economica e sociale di quel Paese".

Quello che l’Italia deve assolutamente evitare è che il Golfo della Sirte si trasformi, come in parte sta già avvenendo, nella “terra di nessuno” nella quale si sviluppino traffici di armi, di uomini, di petrolio nel Mediterraneo. D’altro canto, già nel mese di ottobre del 2014, l’esercito regolare libico aveva individuato campi di addestramento allestiti dallo Stato Islamico per combattenti stranieri (non solo a Derna, ma anche nella zona di Sirte e di Misurata). Nelle regioni meridionali, invece, sono state individuate altre basi logistiche per combattenti integralisti, ma in questo caso di diversa matrice, o meglio per i combattenti impegnati in Mali. Oltre che l’Isis, In Libia agisce una galassia di gruppi jihadisti vicini a al Qaeda: gli uomini di Ansar al Sharia, attivi a Derna e a Bengasi con il leader Sufyan ben Qumu, detenuto prima nel carcere di Guantanamo e poi in una prigione libica. Nella capitale sono operativi anche l’Esercito dei Mujaheddin, la Brigata Rafallah al Sahati e la Brigata dei Martiri del 17 Febbraio (tutti i miliziani hanno già giurato fedeltà ad al Baghdadi). Gli altri gruppi qaedisti sono Aqmi e el Muwaqiin bi Dam. Il primo è “al Qaeda nel Maghreb Islamico”, nato in Algeria come evoluzione del Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento, e il secondo è “Coloro che firmano con il sangue”, guidato dal temibile Mokhtar Belmokhtar (entrambi i gruppi sono operativi in Cirenaica e nel Fezzan).

In sintesi, in Tripolitania agiscono le milizie islamiste alleate al governo di Tripoli (Alba Libica e Misurata), mentre in Cirenaica sono di casa le milizie jihadiste di ispirazione salafita, come Ansar al Sharia e oggi, per l’appunto, anche lo Stato islamico. In un'intervista al “Guardian” Jonathan Powell, inviato speciale del governo britannico in Libia, avverte che il Paese "potrebbe diventare una Somalia dal Mediterraneo che avrebbe conseguenze molto gravi per la Tunisia, per l'Egitto, ovviamente, ma anche per il Sud Europa e alla fine per noi. Se il Paese sprofonderà nella guerra civile le conseguenze per noi saranno molto gravi - non solo per il terrorismo, ma in termini di traffico di esseri umani, droga e armi. La Libia è troppo grande da contenere”. La “nuova” Libia ”non sembra tanto diversa dalla precedente sotto il regime di Gheddafi, stando alle testimonianze che ci giungono da Bengasi e Kufra”. A denunciarlo è don Mussie Zerai, presidente dell’Agenzia Habeshia per la cooperazione e lo sviluppo. Secondo il religioso eritreo residente a Roma, sono ”centinaia i profughi tenuti in condizioni di schiavitù a Kufra”, dove ”sono costretti ai lavori forzati da uomini armati, che li costringono a maneggiare armamenti pesanti, pulire carri armati, senza cibo né acqua, continuamente picchiati”. Chi può pagare fino a 800 dollari viene accompagnato ”da uomini armati fino a Tripoli – aggiunge – quindi il traffico come ai tempi di Gheddafi resta fiorente”.

Don Zerai, che chiede l’intervento dell’Italia perché faccia pressione sulle autorità libiche, per quel poco che possono ancora contare, parla anche di profughi in centri di detenzione a Bengasi, ”che si lamentano per maltrattamenti” e mancanza di cibo, acqua potabile e cure, e per il fatto di non poter entrare in contatto con l’Unhcr o altri organismi per la tutela dei diritti umani. Il governo di Tripoli controlla soltanto la capitale, ma non tutti i quartieri, parte dell’area di Misurata e un limitato territorio del Fezzan, mentre nell’estremo sud le bande ancora fedeli a Gheddafi controllano il traffico di armi e di essere umani verso l’Africa sub sahariana. Nell’area di Bengasi le tribù locali amministrano la giustizia e controllano i commerci, quasi tutti illegali, oltre ad alcuni terminal petroliferi”. E tutto questo a 300 chilometri dalle coste italiane.

Fonte: miguel1947@libero.it

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