Le conseguenze della guerra in Ucraina sulla crescita e l’inflazione non sono facili da valutare. Dipendono molto sia dalla durata del conflitto che dalla qualità e dall’entità del coinvolgimento dei Paesi “occidentali”, fattori che non possono per ora valutarsi adeguatamente. La crescita dovrebbe contrarsi per diversi motivi. Innanzitutto per l’incertezza diffusa dappertutto dal focolaio bellico: essa frena investimenti e consumi. La guerra causa inoltre ostacoli al commercio internazionale, amplificati dai colli di bottiglia che interrompono le complesse catene del valore fra i semilavorati e i prodotti finiti di imprese collocate a cavallo di zone colpite direttamente o indirettamente dal conflitto. C’è poi la scarsità di energia e combustibili, e molto altro. L’inflazione dovrebbe crescere sia per la subentrata scarsità di alcuni beni prodotti dai Paesi in guerra, soprattutto combustibili e alimentari, sia per il diffondersi di aumenti dei prezzi del gas e del petrolio che accrescono i costi dei prodotti che ne richiedono l’utilizzo, compresi i servizi di trasporto che sono il diffusore più potente. Eventuali politiche di freno all’inflazione potrebbero a loro volta deprimere ancor più la crescita. È lo scenario peggiore, quello della stagflazione, dove la politica economica si trova a scegliere fra combattere l’inflazione, contraendo ancor più la crescita, o stimolare quest’ultima aumentando l’inflazione.
Previsioni incerte
Sono ancora poche le previsioni ufficiali (OCSE, BCE, ISTAT, Fitch Ratings) delle congiunture macroeconomiche mondiali fatte dopo lo scoppio della guerra, anche se quando ancora la sua gravità poteva essere sottostimata. Nel complesso, la revisione delle previsioni dovuta alla guerra conferma la tendenza alla stagflazione ma è per ora contenuta nel caso degli USA il cui tasso di crescita del Pil viene diminuito in media di circa lo 0,5%. Per l’area dell’euro le previsioni tagliano invece la crescita di circa 1,5%. Per l’Italia la più recente stima di Fitch Ratings contrae la crescita dell’1,6%. L’aumento del tasso di inflazione previsto per il 2022 in seguito alla guerra è attorno all’1% in USA, dove l’inflazione è prevista crescere molto per ragioni diverse, soprattutto per le pressioni al rialzo sui salari; per l’area dell’euro si prevede invece che la guerra causi fra i 2 e i 2,5 punti percentuali di inflazione in più.
Occorrerebbe anche poter prevedere in modo credibile le spese pubbliche dovute alla guerra e i conseguenti disavanzi di bilancio che ne deriveranno: dai sussidi ai produttori al sollievo dei costi energetici di imprese e famiglie, agli oneri per i profughi, dagli aiuti all’Ucraina al costo degli armamenti. A quanto ammonteranno? Che effetto avrà l’aumento dei debiti pubblici sui tassi di interesse e la stabilità finanziaria?
Politiche disorientate
Sono tutte incertezze e fragilità che si inseriscono su uno scenario già difficile, complesso e incerto come quello prodotto da una pandemia che, fra l’altro, non pare completamente conclusa. L’incertezza disorienta le politiche macroeconomiche, fiscale e monetaria. È probabile che il disorientamento sarà maggiore in Europa che negli USA, dove la banca centrale ha definito l’impatto della guerra “molto incerto” e comunque non tale, per ora, da modificare le sue decisioni. Infatti la Federal Reserve in marzo ha iniziato la graduale salita dei tassi di interesse che aveva da tempo preannunciato e ha accennato persino alla possibilità di reagire a una accelerazione dell’inflazione con aumenti più ingenti dei tassi di interesse. Il 10 marzo la BCE, con una mossa reversibile, ha invece timidamente annunciato solo per la seconda metà dell’anno un arresto degli acquisti di titoli pubblici e insiste nel non impegnarsi sulla data di avvio dell’aumento dei tassi, lasciandosi così aperta la strada espansiva se l’evolvere della situazione lo suggerisse. Finora i rendimenti a 10 anni dei titoli di Stato sia USA che europei sembrano confermare aspettative di rialzo del costo del denaro senza contemplare significative flessioni della crescita reale. In seguito alla guerra, però, la prospettiva di normalizzazione delle politiche monetarie, caratterizzate da tanti anni da un’eccezionale espansività che aveva alimentato l’inflazione già ben prima della guerra, risulta più incerta e meno omogenea fra le due sponde dell’Atlantico. Ciò è anche coerente con l’andamento del cambio euro-dollaro: circa metà dell’8% di svalutazione dell’euro degli ultimi 12 mesi è avvenuta durante la guerra.
In Europa anche la politica di bilancio è disorientata. L’Unione non sa che fare del suo Patto di Stabilità e Crescita che prima della guerra si avviava a riformare e riattivare. In Italia si discute se vi siano ragioni per uno “scostamento di bilancio” come quelli che furono decisi a più riprese negli anni scorsi in seguito alla pandemia. È molto probabile che, se la crescita rallenterà significativamente e la guerra solleciterà ingenti spese, i bilanci pubblici verranno lasciati andare verso disavanzi che aggraveranno l’indebitamento dei governi. Anche le banche centrali potrebbero allora frenare molto la normalizzazione.
Sarebbero decisioni di emergenza. Ma siamo al terzo anno di politica fiscale e monetaria di emergenza, dopo aver attraversato le onde improvvise della crisi del 2008 e di quella dell’eurozona. Se non riprendiamo il controllo rischiamo disastri, dall’inflazione galoppante alla crisi finanziaria. Come sarebbe bello poter oggi contare su spazio fiscale, liquidità moderata, tassi normali, per poter spendere liberamente, creare moneta, abbassare i tassi!
Spazio fiscale e monetario
Solo qualche Paese, come la Germania e i "frugali", con debiti pubblici non molto sopra o molto inferiori al 60% del Pil, hanno qualche spazio fiscale. Essi avranno dunque un nuovo argomento a favore di politiche molto prudenti in tempi normali: riservarsi spazio per rapide manovre espansive in caso di imprevedibili avversità. Ciò va al di là della classica ricetta di muovere le leve fiscali e monetaria in senso anticiclico, cioè espansivo quando la crescita rallenta troppo e restrittivo quando accelera. Non si tratta di ciclo, con le sue prevedibili fluttuazioni, ma di “cigni neri”, cioè quei fenomeni imprevedibili al punto che se ne nega l’esistenza a priori, salvo doverla ammettere quando accadono davvero. Neri, ma anche piuttosto frequenti! Proprio per mettersi in grado di fare espansioni anticicliche quando servono, occorre essere “frugali” in tempi normali (e ancor più frugali in tempi di ciclo prospero), sia nel dimensionare i disavanzi di bilancio che nel governare i tassi di interesse e la liquidità.
In un mondo che negli ultimi tre lustri è passato da un’emergenza all’altra, dobbiamo riuscire a inserire l’incertezza in modo più concreto nelle ricette di politica economica. Soprattutto quella che contempla eventi poco probabili ma molto negativi. Ciò significa, in tempi normali, tenere il bilancio e la moneta più stretti e i tassi di interesse leggermente più alti di come consideravamo prima giusto e limitare l’attivismo fiscale e monetario quando l’economia ristagna. Inoltre, se le brutte sorprese (Lehman, eurocrisi, pandemia, guerra) ci portano sempre a spendere di più e creare più liquidità, dobbiamo impegnarci a fare il contrario appena finiscono e, soprattutto, quando ci sono sorprese belle! In altri termini, dobbiamo essere più frugali.
Una versione più sintetica di questo articolo è stata pubblicata su “Domani”.