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2006, Sarajevo quindici anni dopo | G.C.Storti

| Scritto da Redazione
2006, Sarajevo quindici anni dopo | G.C.Storti

Sono ritornato a Sarajevo dopo 15 anni. L’ultima volta è stato nell’agosto del 1991. A quel tempo la tragedia era appena iniziata con la guerra del maggio in Slovenia. L’occasione di rivisitare Sarajevo mi è stata data dalla splendida iniziativa organizzata dalla Associazione ADL (Ambasciata della Democrazia Locale), dall’ARCI e dalla CGIL di Cremona, con la partecipazione della Provincia di Cremona nella persona dell'Assessore Anna Rozza. Lo scopo di questa visita era di verificare sul campo a Zavidovići la realizzazione del progetto “ serre” ed incontrare queste martoriate comunità locali per capire i loro problemi.
Nel 1991 la tensione fra le comunità di Sarajevo (bosniaci mussulmani, serbi e croati) si percepiva parlando con la gente. I giovani in particolare erano molto preoccupati e temevano il peggio. Sarajevo è sempre stata una città multietnica e con livelli di integrazione molto elevati. La guerra li ha travolti, oscurati ed indeboliti. Il panorama delle colline circostanti è cambiato: si notano distese e distese di croci e di steli bianche, le tombe dei mussulmani.
Nel ’91 arrivammo a Sarajevo dal mare, da Makarska, dove eravamo in ferie con mia moglie ed amici, passando da Mostar e seguendo per lunghi tratti il fiume Neretva . Le gole del fiume sono imponenti. La strada era stretta, la giornata magnifica e il cielo azzurro si rifletteva nel blu-verde dell’acqua del fiume.
Lo splendido ponte di Mostar era ancora in piedi. Visitammo di corsa la cittadina e su quella strada piena di curve e molto trafficata di camion e di mezzi dell’esercito  jugoslavo arrivammo a Sarajevo.
In quegli anni si guardava con attenzione alle politiche di integrazione perseguite dal regime comunista diretto da Tito. A noi giungevano notizie sull’incentivazione di matrimoni misti fra persone di diversa religione, incentivazione che passava dall’assegnazione di case a quella di automobili. In effetti il regime comunista, così sembrava, era molto impegnato in quella direzione. Quei territori sono sempre stati storicamente esplosivi. Forse pochi sanno che la popolazione di religione islamica non è di etnia araba ma slava, che si convertì a seguito delle invasioni turche dei secoli precedenti.
Guardavamo con preoccupazione i processi di disgregazione in corso e l’aumento delle pretese egemoniche serbe, ma  mai avremmo pensato a quello che poi è avvenuto.
In ogni caso di quei pochi giorni di agosto a Sarajevo serbiamo piacevoli ricordi.
In particolare ricordo queste situazioni:
- enormi ruote che cuociono spiedini;
- la visita al mercatino arabo ed il pranzo in uno di quei localini;
- la moschea;
- il caffè alla turca;
- la biblioteca
- il Ponte Latino di Sarajevo luogo dell’attentato all’arciduca Francesco Ferdinando.
Enormi ruote che cuociono spiedini.( ćevapčići )

Lungo quelle strade strette e irte ogni tanto appariva un’enorme ruota girata da una catena di bicicletta, collegata ad un motorino elettrico riutilizzato da qualche elettrodomestico, zeppa di spiedini, che ruotava lentamente sopra un braciere. Lì per pochi dinari ti servivano 5-6 spiedini , contorno, una birra rigorosamente jugoslava, e del pane arabo o nero a scelta. Il gusto era delizioso. Altre ruote, più grandi, cuocevano polli allo spiedo. La temperatura era fresca e l’odore di carne cotta alla brace con quel fumo che ti circondava ti trasmetteva una sensazione di relax e tranquillità.
La visita al mercatino arabo ed il pranzo in uno di quei localini (Baščaršija)

Entrando in città dalla via principale vedevi in lontananza minareti, croci ortodosse, croci cattoliche, palazzi antichi e moderni. Sulle colline circostanti si notava il nuovo villaggio olimpico costruito da poco. Sapevamo che il mercatino arabo di Sarajevo si trovava nelle strade circostanti la moschea principale. Con le nostre cartine ci siamo avvicinati trovandolo subito. Ci siamo immersi nelle viuzze piene di gente, di profumi e di odori. I turisti non erano molti. In seguito ci spiegarono che il turismo stava crollando per paura della guerra civile probabile e imminente.
Era la prima volta che vedevo un suq , anche se molto ben organizzato per i turisti. Ci affascinò. Le donne erano prese a guardare e toccare pezzi variopinti di stoffa, noi il resto e in particolare tutta quella chincaglieria luccicante ed ottonata dei servizi da caffè, i relativi bollitori in rame (džezva), spadoni, spade, spadini, pugnali. I banchi delle spezie ti inebriavano coi profumi e ti accecavano per il colori. Tanta gente locale con gli uomini vestiti in maniera trasandata e le donne più curate con o senza velo oppure vestite all’occidentale, con grandi occhi scuri che ti guardavano intensamente. Molti bambini vocianti e qualche signore con tanti anelli alle dita che per lo più stazionava davanti a gioiellerie o negozi più eleganti degli altri. Una bella passeggiata che ci permise  di acquistare diversi servizi di caffè (due tazzine ed un piccolo bollitore con relativi cucchiaini e zuccheriera) che omaggiammo a tutti nostri parenti.
La moschea
Anche le moschee hanno sicuramente un nome. Non ricordo il nome della moschea ma bene tutto il resto.
“Sarajevo”, dice Predrag Matvejević in un'intervista per La storia siamo noi, è “una città che nel suo centro ha quattro luoghi di preghiera. È raro. Un luogo musulmano, due cristiani, uno ebraico. A un centinaio di metri uno dall'altro. Non esiste in nessuna altra parte al mondo”.
Decidemmo di visitare la moschea.
Nel cortile c’erano delle fontanelle per lavarsi le mani e altre più basse per lavarsi i piedi. Le mura esterne  della moschea erano di granito non pregiato, molto spoglie e quadrate.
Decidemmo di entrare. Forse abbiamo dovuto pagare un ingresso o lasciare un obolo. Di certo, appena entrati, un addetto ci ha invitati a toglierci le scarpe e riporle sotto una panca. Potevano entrare anche le donne, ma non ricordo se dovevano coprirsi il capo con un velo. Era la prima volta che vedevo e sentivo gli odori di una moschea. Compiuta l’operazione di infilare le scarpe sotto la panca come indicato, Rosy (mia moglie) se ne uscì con una delle sue frasi perentorie: - Ehhii voi due  (si rivolgeva a me e all’altro amico) potevate almeno lavarvi i piedi… emanate una puzza nauseante…!!! -
Io e l’amico ci guardammo in faccia e iniziammo a sghignazzare da non riuscire più a fermarci. Ridendo come dei pazzi e guardati da tutti, indicammo alle rispettive consorti di guardare sotto la lunga panca dove si trovavano almeno una cinquantina di paia di scarpe maschili e femminili. Mia moglie non cede mai, così proseguì:  - Ho visto ..ma l’odore dei tuoi piedi purtroppo lo conosco. Dovevi lavarteli! -
A piedi scalzi, camminando sui tappeti, abbiamo iniziato a visitare la moschea. Un grande spazio, forse circolare, forse ottagonale, con grandi finestre ed un grande lampadario in centro. Si nota subito l’altare o la nicchia, dove il muezzin si pone per lanciare le preghiere, che è collocato in direzione della Mecca. Non ci sono preghiere in corso, se non qualche gruppetto isolato che si inginocchia e mormora con cantilena parole incomprensibili. Non vediamo donne locali in moschea ma sappiamo che quando ci sono le preghiere esse devono rimanere in fondo, dietro gli uomini. Al momento non facciamo mente locale sul perché di questo comportamento. Io lo verrò a sapere  quindici anni dopo visitando Zavidovići. 
Ritornammo alla panca, cercammo le nostre scarpe, e sorpresa delle sorprese tutte e quattro le paia di scarpe erano senza lacci! Ci venne da ridere. Calzammo le scarpe così com’erano e ci immergemmo nelle viuzze alla ricerca di un venditore di lacci, trovato vicino ad un locale, dove sostammo per il pranzo.
Strano il sorriso dell’uomo che ci ha venduto i lacci a pochi centesimi di dinaro. “Vuoi vedere che manda suo figlio a rubare i lacci? “ disse il nostro amico. Scoppiammo a ridere ed entrammo nel localino.
Un’unica stanza con ai lati panchette e tavolini molti bassi ed in fondo il bancone con dietro i vari fornelli e piastre per la brace.
Esiste un menu, scritto nella lingua locale , quindi incomprensibile a noi astanti. Ci venne in soccorso un ragazzo italiano che si presentò come Luigi e che ci presentò la sua ragazza di Sarajevo.
In trenta secondi ci raccontò la sua splendida  storia: venuto in vacanza al mare dalle parti anche lui di Makarska tre anni prima, si è “pazzamente innamorato della sua bella donna slava” e si è trasferito a Sarajevo vivendo con lei, studiando a Roma, e facendo la guida turistica in Jugoslavia. Erano felici, si vedeva da come si guardavano.
Ci consigliò un panino, dal nome irripetibile, così confezionato: panino arabo, farcito di ćevapčići, salse piccanti, formaggio greco, la feta, e cipolle. E come bibita dell’ottimo jogurt greco. Niente birra – aggiunse- meglio lo jogurt. E dopo un caffè alla turca..ma non qui. - disse.
Accogliemmo la proposta di Luigi con entusiasmo. La sua donna lo osservava con occhi tenerissimi. Era innamoratissima. Lui avrà avuto 20-22 anni, lei sui 18 o ancora meno. Splendida, di carnagione chiara, classica biondina con oggi grigi chiarissimi, un bel seno appuntito e due gambe intriganti. Mia moglie si accorse del mio sguardo e mi pestò il piede destro, quello che fa sempre male perché allora si era già rotto due volte.
Luigi ordinò e nell’attesa ci fumammo la solita Marlboro, però non quella jugoslava, finta, ma quella italiana, vera. Almeno in quello il capitalismo era superiore, bisognava ammetterlo.
Lo spuntino fu gustoso. Lo jogurt si accompagnava bene. Parlammo dei progetti di Luigi. Lui voleva laurearsi e poi portare il “suo amore” in Italia. Non era comunista, lei nemmeno, ed erano molto preoccupati della crisi che si percepiva. - Se comincia la guerra – aggiunse - resto qui. -
Guerra: che parola strana, assurda e  grande sembrava in quel momento!
E venne l’ora del caffè.
Il caffè alla turca
Luigi con la sua ragazza ci guidava nei vicoli. Entrò in una porticina, al termine del piccolo corridoio si apriva uno splendido cortile. - Qui si prende un ottimo caffè alla turca, gusterete una bontà! –
Finalmente riuscivamo a carpire il segreto del mitico caffè alla turca, declassato dalle nostra parti a “caffè al pentolino” che la nonna ci faceva ogni volta che si andava a trovarla, non usando né la napoletana né la Bialetti.
Delegammo Luigi all’ordinazione. Parlò in bosniaco, o meglio credo si dica in serbo-croato. Nell’attesa ci raccontò di due posti da vedere: la biblioteca di Sarajevo, un’antichissima istituzione, e il Ponte Latino, luogo dell’attentato all’arciduca Francesco Ferdinando. Arrivarono sei tazzine, tre zuccheriere (in ceramica bianca ma  messo dentro altrettanti contenitori ottonati o di ottone)  e tre bricchi, sempre ottonati, con manico laterale a forma di tronco di piramide. Contenevano il caffè in polvere e l’acqua bollente.
I trucchi del caffè alla turca sono: un’ottima miscela di caffè macinato non troppo fine e una dolce attesa (4-5 minuti), in modo tale che la polvere di caffè si depositi sul fondo del bricco lasciando nella parte superiore la bibita. Una certa cautela nel versare il liquido nella tazzina, molto lentamente, lasciando il fondo di caffè nel bricco. E questa era la vera abilità. Luigi somministrò con dovizia il caffè, ci invitò a zuccherarlo secondo necessità e a gustarlo sempre lentamente. Un rito decisamente rilassante. Ogni tanto un pasticcino mandorlato e una sigaretta. Insomma passò quasi un’ora. Alla fine eravamo tranquilli e quasi felici.
Non c’era paragone con il caffè che preparava la nonna con il pentolino, tutto di frette e che ti lasciava il fondo amaro del caffè in bocca. E ci avviammo alla biblioteca.

La biblioteca di Sarajevo
La denominazione esatta è “Biblioteca Nazionale ed Universitaria di Bosnia ed Erzegovina”. Uno splendido edificio in stile moresco costruito fra il 1892 ed il 1894. Venne aperta per la prima volta nel 1945 e conteneva circa 1 milione e 500 mila libri in varie lingue e di varie culture. E’ stata progettata da alcuni architetti serbo-bosniaci” E’ Luigi che parla con passione indicandoci le particolarità dello stile moresco, andando orgoglioso che “questo edificio sia il simbolo della nuova Jugoslavia, che appunto dal dopoguerra ad oggi ha fatto passi da gigante verso la totale integrazione religiosa ed etnica”. E’ convinto di questo anche se è molto preoccupato dei venti di guerra e dell’odio crescente che stanno seminando a Sarajevo, dove molte famiglie sono multietniche e religiose.
Non potemmo entrare, ma ci è bastato l’entusiasmo di Luigi per capire quanto quell’edificio fosse importante non solo per la città ma anche per l’intera area..La passeggiata si chiuse sul Ponte Latino.
Il Ponte Latino  è il luogo dove avvenne nel lontano 28 giugno 1914 l'assassinio dell'arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d'Austria-Ungheria. A questo episodio gli storici fanno risalire l’inizio della fase che sfociò poi nella prima guerra mondiale. Non ho le competenze per evidenziare i motivi delle tensioni di allora, sta di fatto che, come ci ha fatto vedere Luigi, quella targa di ottone ormai scurito ricorda una data, un fatto che segnò tragicamente la storia dell’umanità.
Salutammo Luigi e la sua ragazza. Ci scambiammo gli indirizzi certi che si saremmo ritrovati. Un abbraccio suggellò quell’incontro. Lui baciò la sua ragazza e si incamminò lungo il centro, noi andammo verso l’albergo a ritirare macchina e bagagli per ripartire alla volta di Makarska, dove avremmo terminato le ferie.
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Nel 1992 si scatena la guerra fratricida
Giunti in Italia seguimmo i tragici avvenimenti della guerra civile che coinvolse l’intera ex Jugoslavia. Nella notte tra il 25 e il 26 agosto 1992, durante l'assedio di Sarajevo, l'esercito della Republika Srpska attaccò con bombe incendiarie e cannonate l'edificio della Vijećnica che ospitava la Biblioteca Nazionale. L'attacco durò per tre interi giorni, mentre decine di vigili del fuoco, bibliotecari e volontari cercavano di mettere in salvo i libri dalle fiamme, nonostante i cecchini e le antiaeree continuassero a colpire l'edificio. In quell’occasione una giovane bibliotecaria, Aida Buturović, perse la vita a 32 anni dopo essere stata colpita da una scheggia di granata, mentre cercava di salvare parte dei libri custoditi tra le mura della Vijećnica. Alla fine solo un decimo dei libri conservati nella Biblioteca Nazionale riuscì a salvarsi dalle fiamme.
Vidi la biblioteca in fiamme alla televisione. Mi vennero in mente quei due ragazzi con i quali perdemmo ogni contatto, le loro speranze, la loro voglia di vivere in un mondo di pace con le guerre messe al bando. Ma così non fu. La tragedia jugoslava fu davvero terribile, difficile fu la ricerca della pace, difficile ancora oggi è la coesistenza fra etnie e religioni  diverse.
Il ritorno a Sarajevo nel 2006.

Come ho scritto sono ritornato a Sarajevo 15 anni dopo. Siamo arrivati in pullman attraversando la ex Jugoslavia, vedendo i resti delle rovine dei bombardamenti, attraversando diverse frontiere. A distanza di anni si mescolavano i ricordi alla realtà, che ci faceva  toccare con mano le ferite ancora aperte.
Dopo la guerra  la città appare quasi tutta ricostruita. Il centro arabo, con il suo mercato e la sua moschea, è di nuovo raggiante di colori. Il mercato dove una bomba serba aveva fatto una strage è stato anch’esso ricostruito. I giovani si vestono e ascoltano canzoni all’occidentale. Apparentemente la normalità è tornata e la città ha ripreso a sorridere e forse a ridere. Ritrovo anche la caffetteria, sempre la stessa dove somministrano con il solito rito del buon caffè. La strada dell’integrazione e del superamento dell’odio è ancora molto lunga. Noi europei non dobbiamo investire sulle differenze ma su un modello di integrazione che ridia fiducia a quei giovani che in allegria riempiono oggi le strade di questa meravigliosa città.
Ripercorrendo gli stessi luoghi confronti quello che vedi con i ricordi. Rivedi la moschea le cui mura sono graffiate dalle granate, entri  e ritrovi lo stesso odore di piedi sotto le panche, l’altare è allo stesso posto e anche il muezzin sembra lo stesso, e magari lo è. Il negozio che vendeva le stringhe delle scarpe c’è ancora, così pure la locanda dove abbiamo incontrato Luigi e la sua splendida ragazza. Ma di loro nessuna traccia. O meglio altri giovani hanno preso il loro posto e sicuramente sognano le stesse cose.
Che tristezza però vedere la biblioteca nazionale ancora quasi completamente distrutta e venire a conoscenza che in molte località della Bosnia gli studenti frequentino scuole etniche.
Il Ponte Latino c’è ancora , la targa pure. Noti  però molti militari dell’ Onu che presidiano le strade. Di soldati con la stella rossa sul baschetto non ne vedi più. Scomparsi, cancellati dalla storia.
Il tram rosso transita regolarmente sui suoi binari.
Ti accorgi della sofferenza e delle ferite della città quando sei sulle colline. Ci portano a pranzare in alto, un luogo con vista incantevole sulla città.
Un locale caratteristico dove, pensate un po’, sono appese ancora delle foto di Tito, considerato ancora il padre della patria in pace, dello stato multietnico. Sono felici che la guerra sia finita , ma sono felici anche di parlare male dei serbi e di Milošević.
Non mancano i ćevapčići, la birra e la grappa di ciliegie. Tutto è rinato.
Ma restano evidenti i segni della guerra fratricida. Se guardi dall’alto vedi la tragedia: grandi macchie bianche che all’inizio non capisci. Poi guardi con il cannocchiale e vedi tanti, tantissimi cippi bianchi. Sono i cimiteri dei mussulmani di Sarajevo morti durante l’assedio e sepolti nei parchi, nei campi di calcio, in tutti gli spazi che allora erano liberi.
Certo ora a Sarajevo regna la pace. Forse regna la tregua.
Visita a ZAVIDOVIĆI
Zavidovići dista da Sarajevo circa 130 chilometri.
La nostra delegazione, guidata dall’assessore provinciale Anna Rozza, aveva lo scopo di incontrare quella comunità per verificare  lo stato di avanzamento del progetto “ serre”  ideato dall’Associazione ADL (Ambasciata della Democrazia Locale), dall’ARCI e dalla CGIL di Cremona, col sostegno della Provincia di Cremona.
Quel comune fu oggetto di forti scontri fra la comunità serba e quella bosniaca di religione mussulmana. La città porta ancora i segni delle guerra con i muri segnati dalle pallottole delle raffiche di mitra e delle granata sparate dai cannoncini e dai carri armati.
Quelle zone, all’atto dei patti di pace, furono assegnate interamente alla comunità musulmana e quindi i serbi dovettero abbandonare le loro case per altre destinazioni. I morti furono alcune centinaia e la città fu oggetto di scontri anche molto duri fra le varie milizie.

La tappa prevedeva:
- Incontro con l'Amministrazione Comunale di Zavidovići;
- Visita alla locale moschea;
- Visita ad una cooperativa del progetto “serre”
- Tappa a Gornji Vakuf 
- Cena bosniaca organizzata dall'Associazione giovanile «CeKER»
Incontro con l'Amministrazione Comunale di Zavidovići
L’incontro avvenne nella sala del consiglio comunale. Lo scambio di convenevoli fu molto sobrio. Belle parole di accoglienza da parte del Sindaco della città che ringraziava per l’iniziativa e per la collaborazione che durava da anni con Roncadelle, cittadina gemellata, e con le varie associazioni. Mi colpirono le sue parole volte al futuro e ai giovani. I concetti che esprimeva erano gli stessi di Luigi prima della guerra, ovvero l’obiettivo era quello di vivere in una comunità pacifica per sviluppare la convivenza fra le varie etnie e religioni, superare gli odi e guardare al progresso ed allo sviluppo di quei territori. I giovani erano per l’appunto il mezzo per realizzare ciò che i loro padri avevano distrutto.
L’assessore Rozza ricambiò con parole forti l’accoglienza ed elencando gli impegni della provincia di Cremona in quella direzione. In regalo la nostra delegazione portò una grande bandiera della pace che fu aperta  nella sala e immediatamente stesa sul palco.
Il Sindaco, con l’ausilio di un traduttore, apprezzò quel dono e nelle sue brevi parole pronunciò anche una frase di ringraziamento alle forze dell’ONU che garantivano “ ancora la pace in quei luoghi”. Quella frase fu poi, nella delegazione, oggetto di discussione. L’opinione prevalente è che quelle popolazioni fossero sì in pace, ma appunto per la presenza delle forze dell’ONU, e che ci sarebbero voluti anni per dimenticare i vari eccidi ben sapendo, da parte nostra, che la responsabilità storica ricadeva sulle politiche nazionaliste del serbo Milošević.
Visita alla locale moschea
Molto interessante fu la visita alla  moschea che dista poche centinaia di metri dal palazzo comunale. Fino a quel momento avevo una conoscenza superficiale della moschea. Vista solo come luogo di preghiera e col minareto simbolo inequivocabile della religione islamica, come i campanili con la croce per le varie religioni cristiane.
Un giovane muezzin ci accolse e  ci guidò nella visita. Entrammo nel “salone delle preghiere”, dove appunto i fedeli si raccolgono in preghiera su tappeti e rivolti all’altare che guarda verso La Mecca. Ci parlò di tre preghiere quotidiane ma quella solenne, come è noto, è il venerdì pomeriggio, credo alle 17.
Le donne partecipano, ma restano nelle ultime file, dietro gli uomini. Non so chi chiese all’interprete il perché di questa dislocazione logistica. L’interprete, apparentemente imbarazzato, rivolse la domanda al muezzin che rispose con tono tranquillo e con voce forte: - le donne pregano dietro gli uomini in quanto, diversamente, gli stessi uomini potrebbero essere invogliati a commenti e stimolazioni poco rispettose nei confronti della donne, vedendo essi il loro deretano. E’ un modo di rispettare le donne. -
Non ci avevo pensato. In effetti, poiché la preghiera dei mussulmani, in ginocchio, li porta a inchinarsi in avanti, di fatto mettendo in mostra il deretano a chi si trova dietro, questo potrebbe provocare commenti e distrazioni.
Certo bisognerebbe sapere il perché di questo modo di pregare. Ma tant’è. Come si dice ne prendiamo atto. E’ un po’ come l’uso  del velo. Noi occidentali diamo un significato  di costrizione, di subordinazione della donna; le donne mussulmane, non tutte, lo vivono invece come una modalità di rispetto nei loro confronti, anche se vi è un forte movimento di donne, nei paesi arabi, contro l’uso del velo o del burka.
Via via abbiamo poi visitato tutti gli altri locali della moschea. Per lo più sale di studio dove si legge e si studia il corano. Queste sale, se ho ben capito, sono organizzate per ospitare i fedeli organizzati per età. Però non ci giurerei su quest’interpretazione.
Quello che ne esce è comunque che  la moschea, come del resto le chiese cattoliche, aggregano una comunità che non è solo religiosa ma anche sociale.
Sale di studio, sale per le conferenze, per discutere anche di politica. Insomma un centro culturale che in Italia spaventa la destra che vorrebbe che in questi luoghi non si parlasse arabo ma solo italiano.
La moschea dunque è un punto di riferimento culturale fortissimo per quelle comunità che le formano, che educano. Né più ne meno che per le nostre comunità cattoliche o  per quelle luterane.
Nasce un’altra domanda. “ Ma sono molti i praticanti della vostra religione?” Il muezzin capisce al volo ed inizia a rispondere con un “Purtroppo no. I praticanti sono circa il 15-20% della popolazione e questo è un problema che ci dobbiamo porre. Pochi sono i giovani, attratti da altri valori”.
La stessa risposta che avrebbe dato un prete cattolico di qualsiasi nostra parrocchia.
Infine, prima del congedo, la domanda che pongo io. “Ma i rapporti con le altre confessioni religiose come sono?” . La sua risposta è “ Difficili, molto difficili, anche oggi che siamo in tempo di non guerra “. Ha usato proprio “ non guerra”, non “ pace”. Forse è stato il traduttore a non dire pace. Ed ha aggiunto “ Cerchiamo di migliorarli con incontri periodici mensili che si svolgono con il Sindaco”.
Beh certo, dopo che si sono ammazzati per anni non sarà facile recuperare una solido rispetto delle idee altrui e “ la concorrenza” è forte e sicuramente non sempre leale.
Visita ad una cooperativa del progetto “serre”
Non saprei dirvi la località dove ci ha portato il pullman. Era una zona di periferia della cittadina immensa in montagne  molto verdi con ampi spazi pianeggianti.
Gli accoglie una donna senza velo sui trent’anni, e ci porta verso le serre. La cooperativa è di produttori che vivono nelle case vicine (una volta abitate dai serbi che o sono tornati al loro paese o sono in altre zone (enclavi) tutte omogenee. Parla di questa cosa con naturalezza senza forse cogliere l’impatto che avrebbe avuto su di noi. Insomma gli effetti della pulizia etnica sono questi. Ora molte zone sono abitate da persone che sono della stessa etnia e religione. Un modello di convivenza anche questo.
Ovviamente le famiglie che ora vivono in queste case con relativo appezzamento di terreno sono state cacciate a loro volta da altre zone. Il governo bosniaco ha dato loro la casa ed alcuni animali, cioè un minimo per farli ripartire.
Le serre sono della cooperative i cui soci sono gli agricoltori. Con gli aiuti del progetto avevano già costruito tre serre ed in programma ve ne erano altre tre.
A capo della cooperativa vi sono dei giovani botanici  italiani coadiuvati da giovani locali. Ci illustrano il progetto con grande entusiasmo e ringraziano per gli apporti internazionali che permettono questo.
Ne ricavo una bella sensazione. Li in effetti vedi come le giovani generazioni costruiscono il loro futuro consapevoli che non bisogna guardare al passato ma solo al futuro. Ogni famiglia ha avuto più di un lutto e non pensano ai loro lutti, ma a come vivere al meglio e dimenticare quel terribile passato.
Salutiamo  e vediamo alcune vecchiette, potrebbero anche essere centenarie dalle rughe che hanno, che raccolgono il fieno in teloni e a fatica se lo riportano sulla schiena. Fieno,dal profumo intenso, sicuramente per i conigli che hanno nelle gabbie nei locali delle loro case.
Tappa a Gornji Vakuf
 Il pullman si ferma ad un crocicchio lungo un percorso. Lì una guida ci dice che il 29 maggio 1993 i tre volontari italiani Sergio Lana, Fabio Moreni  (cremonese) e Guido Puletti sono stati uccisi mentre erano insieme ad Agostino Zanotti e Cristina Penocchio, i due sopravvissuti all'eccidio, ed erano diretti a Zavidovići per portare aiuti umanitari alle popolazioni colpite dal conflitto.
A Zavidovići li attendevano anche 62 donne e bambini pronti a partire per l'Italia, per essere accolti da famiglie di Brescia, Alba, Cremona e di altri territori. Ma a Gornji Vakuf, sono stati fermati da truppe paramilitari che li hanno derubati di mezzi, materiali e documenti e hanno impedito la loro missione, uccidendo barbaramente tre di loro. Zanotti e Penocchio sono riusciti miracolosamente a fuggire e successivamente ad avviare anche un processo contro il comandante di quella banda che attualmente sta scontando la sua pena, 15 anni di reclusione, in carcere.
Sul luogo vi era solo una croce ed una targa, immerse in un paesaggio verde. Nulla poteva far pensare che in quel luogo fu commesso un atroce quanto efferato delitto che ricordava i comportamenti assunti dai nazisti in Italia negli ultimi giorni di guerra. Anche Cremona ebbe un episodio che nella forma ricorda quella tragedia: la fucilazione da parte dei tedeschi di alcuni vigili del fuoco a Bagnara, ora ricordati appunto come “i martiri di Bagnara”. A distanza di anni l’uomo era ridiventato “ bestia”.
Anche se molto triste quel momento ci fece meditare. Sul pullman si aprì una discussione sul come evitare che la storia si potesse ripetere. Tutti fummo d’accordo che bisogna allargare le frontiere dell’Europa e che anche la Serbia e tutta la penisola ex Jugoslava (Albania compresa), dovessero partecipare a questo processo di emancipazione e di pace. Purtroppo non ci siamo ancora arrivati e forti rischi minano la democrazia europea. Basti pensare a tutti quei movimenti di destra, fascisti e nazisti, che si stanno affermando, per gli effetti nefasti della crisi in vari paesi europei, Grecia compresa.
Cena bosniaca organizzata dall'Associazione giovanile «CeKER»
Prima della cena incontrammo i giovani di questa associazione di giovani (non saprei dirvi il nome della stessa) la cui caratteristica è quella di essere un gruppo giovanile multireligioso e multietnico. Ma direi anche laico. Il loro vestiario è all’occidentale, usano spesso OK come intercalare. Molti parlano inglese e sanno più di me, o meglio di noi, delegazione un poco anzianotta, delle tendenze musicali contemporanee. Fumano all’incredibile ma sono bravi, molto bravi. Mentre noi parlavamo con i responsabili che ci illustravano le varie attività culturali e ricreative, la maggior parte di loro era in cucina a preparare la cena ed impegnata ad allestire i tavolini all’aperto.
L’attività  del gruppo, che ha rapporti con le associazioni promotrici italiane, spazia dalle sportive (anche lì si svolge la manifestazione VIVICITTA’) a quelle culturali in senso stretto (organizzazione di conferenze) a quelle musicali. Come  magari vi è noto, vi sono diversi gruppi musicali che partendo dalla tradizione e dai ritmi della penisola balcanica hanno ripreso e sviluppato ritmi occidentali. Insomma la musica, come ieri (parlo dei miei tempi della gioventù) trasmette messaggi universali di coesione e di identificazione, rompe i confini e apre le menti agli uomini. Questi giovani ambiscono a divenire europei. Hanno venti anni o poco meno, ma sanno dell’Europa e ne colgono il significato strategico meglio di noi.
Studiano chi alle superiori, chi già all’università, ma svolgono in contemporanea lavori anche umilissimi. Sanno che in quelle condizioni date il loro futuro si conquista sul campo.
Non tutti hanno il telefonino ma lo vogliono. Non tutti hanno il computer ma lo desiderano. Non tutti hanno la moto ma lavorano per acquistarsela. Guardano con grande ammirazione alle organizzazioni di volontariato italiane, ne apprezzano gli obiettivi, ne capiscono le finalità, ma non accettano di essere accuditi. Accompagnati si. Ma vogliono al più presto essere liberi.
Intanto che si parla arriva la cena. Non saprei descriverla, se non  per i soliti e buonissimi ćevapčići, formaggi locali, salse piccanti, un piatto forse di riso forse di orzo molto saporito e molta ma molta birra locale, della zona e come si direbbe oggi a chilometro zero. Arriva anche la grappa di ciliegie. Io mi controllo e non mi ubriaco, ma nessuno di noi italiani anzianotti lo fa. Questi giovani alzano i gomito, per noi la festa si chiude verso le 23, per loro continua con la loro musica ad alto volume e con le giovani coppie che si compongono cominciando a pomiciarsi. Insomma la  vita prende il sopravvento.
Ovviamente il nazionalismo in guerra si esaspera in ogni fazione, è stato quindi anche croato e musulmano. La mia forte critica ai serbi è che abbiano tentato di tenere in piedi la Jugoslavia con l’esercito , con la forza, con la violenza. Per questo ritengo che abbiano una pesante responsabilità storica.
Cremona 22 maggio 2013

 

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