Mercoledì, 08 maggio 2024 - ore 23.11

Due o tre cose che ho imparato dalla guerra in Ucraina

| Scritto da Redazione
Due o tre cose che ho imparato dalla guerra in Ucraina

In questi tristi giorni di arruolamento sul divano, di feroci giornalisti embedded nelle ben riscaldate redazioni o negli studi televisivi mentre i loro colleghi – magari free lance – rischiano la vita sul fronte ucraino o la galera in Russia (senza parlare delle altre oltre 50 guerre dimenticate in giro per il mondo), spesso mi ritrovo a guardare, per caso o per pigrizia, trasmissioni come quella di sabato su Rai 3 dove una pletora di esperti – a cominciare dall’ineffabile Rampini che quando era inviato di Repubblica in Cina ci raccontava le meraviglie del socialismo di mercato cinese e ora, inviato del Corriere della Sera negli Usa, sempre con le stesse bretelle, ci mette in guardia contro il pericolo letale del socialismo di mercato cinese – che nella stessa frase riescono a dire che Putin in Ucraina sta perdendo, ma che la guerra finirà solo quando Putin avrà distrutto l’Ucraina perché l’esercito russo è troppo più forte e meglio armato di quello ucraino.

Ogni tanto su YouTube e Facebook mi imbatto nel professor Alessandro Orsini – che si vede non vorrebbe essere lì – che con triste, mite, scientifico e cinico realismo cerca di riportare la situazione a un quadro geopolitico internazionale nel quale non è certamente solo lo stato-mercato militare di Putin a fare schifo.

Si vede che questo timido ma caparbio intellettuale – che tra l’altro si dichiara un fervente sostenitore dei valori occidentali e che non sembra avere molta simpatia per i migranti – soffre nel circo Barnum mediatico montato sulla tragedia Ucraina (ma perché ci sta in quel circo?), da dove passano predicatori fondamentalisti cristiani in disaccordo col Papa pacifista, rosso-bruni filoputiniani – fortunatamente pochi, ma che scelti accuratamente per la loro incompetenza – militari in pensione o in attività (di solito molto più prudenti e moderati dei giornalisti) e uno come Parenzo che, di fronte al professor Orsini che dolentemente ricordava che gli Usa, l’Europa e l’Italia hanno fatto negli anni passati (e anche attualmente), in Paesi come Iraq, Afghanistan, Libia, e ancor prima in Vietnam e in Sudamerica… le stesse cose che fa Putin in Ucraina e che è difficile parlare di democrazia se continuiamo a sostenere ed armare regimi abominevoli come quello dell’Arabia Saudita che fa una guerra di invasione nello Yemen e decapita gli oppositori… Di fronte a questo Parenzo ha detto – lo ha proprio detto – che le nostre guerre sono diverse perché sono fatte per portare la democrazia. A Orsini – e anche a me – sono cascate le braccia (e probabilmente sotto il tavolo anche qualcos’altro): basta andarsi a fare un giro nei Paesi dove avremmo portato la democrazia per vedere quanto successo abbiamo avuto. Più o meno il livello di democrazia in Afghanistan, Iraq e Libia è quello delle zone bombardate dai russi in Ucraina. Lo Yemen invaso e bombardato da 7 anni dai nostri amici sauditi ed emiratini (con armi nostre) è considerato la più grande catastrofe umanitaria del XXI secolo.

Dicono Parenzo e colleghi che le due cose sono imparagonabili perché noi siamo i buoni e i russi i cattivi. Ecco, la propaganda di guerra è questa. Fin dal tempo del ratto delle Sabine. E’ roba tribale con i missili ipersonici. D’altronde anche Putin vuole portare la democrazia, visto che dice che denazificherà l’Ucraina.

Il terreno è scivolosissimo, tanto più ora che la neve e il fango si sono mischiati al sangue.

Ora lasciando da parte un carrozzone mediatico – del quale faccio anche io indegnamente e minimamente parte – che si è arruolato a gratis in una guerra che aveva praticamente ignorato per 8 anni e che aveva ignorato che l’Italia stava esportando – violando un embargo – armi, spumante e pesche noci in cambio di gas e petrolio di Putin, mi sono ritrovato a chiedermi: dove sarei io, oggi, se fossi un ucraino o un russo? Cosa farei e cosa farebbero i miei colleghi embedded se fossimo ucraini o russi?

E mi sono trovato a rispondermi che se fossi un ucraino probabilmente sarei o con un fucile in mano, magari già morto e abbandonato ai cani, o più probabilmente, vista l’età, sarei con quegli intrepidi vecchietti e vecchiette e mamme che, prima di fuggire in Europa, hanno tentato di fermare a mani nude i carrarmati e i blindati russi mettendosi in mezzo alla strada. Forse avrei svuotato il conto in banca per permettere a un qualche figlio disertore di scappare da questa folle guerra nazionalista, di andarsi a cercare un futuro di pace. Forse sarei con i pacifisti ucraini che a questa follia non hanno mai creduto ma dei quali nessuno parla, preferendo sentire i bellicosi proclami di qualche mercenario.

Vorrei, come tutti gli ucraini normali, che questa guerra finisse prima che si può, ma, in qualche modo, non vorrei arrendermi. Questo penso, mettendomi nei panni di un ucraino.

Se fossi russo sarei probabilmente tra chi protesta e va in galera per le strade di Sanpietroburgo, di Mosca o di altre cento città della grande Russia, se fossi un giovane soldato russo sarei probabilmente uno dei disertori di questa guerra che non volevo.

Quel che penso e che pensiamo è contraddittorio perché fortunatamente non siamo noi quelli sotto le bombe, non siamo ucraini, non siamo russi, non siamo libici, siriani, tigrini, kurdi, congolesi, birmani, kashmiri… Siamo però esseri umani che dovrebbero stare dalla parte degli esseri umani, non tracciare linee di appartenenza e confini, facendo finta di piangere.

Poi mi sono ritrovato a pensare a tutti quegli espertoni e giornalistoni italiani, dimentichi stranamente di quanto e quanti politici italiani che appoggiano erano/sono amici di Vladimir Putin, e a chiedermi dove sarebbero se fossero russi.

La risposta che mi è venuta di botto è: molti. parecchi, la maggioranza, sarebbero dalla parte di Putin. Sarebbero nelle redazioni embedded russe a tessere le lodi dell’”operazione speciale”, sarebbero stati allo stadio per celebrare il capo. E con loro ci sarebbero stati molti italiani, se fossero stati russi.

Perché? Perché è così, la guerra è una malattia virale che colpisce prima di tutto i cervelli e le coscienze. Ci schiera come militi.

Perché durante il fascismo l’informazione – salvo pochi e perseguitati coraggiosi al confino, in esilio e in galera – era tutta fascista e anche in democrazia i giornali, gli editori dei giornali e i redattori dei giornali, stanno solitamente dalla parte di chi comanda, ne condividono e amplificano la narrazione, magari con diverse sfumature e pubblicando qualche critica. Ma questo fanno i giornali dei direttori e vicedirettori che oggi affollano le televisioni a raccontarci – senza sfumatura alcuna – quel che succede in Ucraina e a interpretare i pensieri di Putin e dei cinesi, in un Paese come il nostro noto per la trascuratezza e ignoranza della sua stampa per la politica estera. Un Paese che si è perfino dimenticato che aveva delle colonie africane e che non si ricorda nemmeno che quelle colonie oggi sono tutte – TUTTE – in guerra.

Non ce li vedo quelli che se ne stanno comodi e schiumanti invettive e sdegno nei talkshow italiani interrompere con un cartello contro la guerra il telegiornale in prima serata di un regime autoritario in guerra. Non vedo tante Marine Ovsyannikova in giro, anche se non mancano certo giornaliste/i coraggiose/i, come quelli che sono sotto le bombe russe in Ucraina. Ma è una minoranza tenuta in una nicchia, come animali rari in una riserva. Come il cinicamente dolente professor Orsini nei talk show.

Me li ricordo invece i giornalisti embedded con l’elmetto di oggi quando ai bei tempi del bunga bunga seguivano con la bandana, con allegra simpatia, le bisbocce sarde e nell’isba russa di Putin e Berlusconi e i G8 con Putin ospite d’onore. Mi ricordo i servizi estivi ammirati sui megayacht degli oligarchi russi putiniani, sulle magaville in Costa Smeralda e a Forte dei Marmi, sulle mance da migliaia di dollari lasciate nei ristoranti… anche se Putin intanto stava facendo la guerra in qualche angolo dimenticato e poco glamour del mondo, tipo la Cecenia. l’Ossetia del sud (dove si dice nacque Stalin) o l’Abkhasia, o occupava con una missione di “pace” la Transinistria, una striscia di terra ai confini tra Ucraina e Moldova, a pochi chilometri da Odessa, uno stato-mafia dove sventola ancora la falce e martello sovietica.

Un’ultima cosa ho imparato: quella sulle armi e i partigiani.

Se fossi ucraino, se non fossi scappato o non mi fossi arreso, probabilmente vorrei avere un’arma per difendermi. E mi fa emozionare che anche a Kiev e nelle città assediate si canti “Bella ciao”, diventata un inno di libertà in tutto il mondo ma che qualcuno in Italia considera di “parte”, “comunista” e ciarpame ideologico del passato, roba da buttare nella pattumiera di una storia da riscrivere. Tra questi ci sono anche molti giornalisti e politici italiani embedded nella guerra ucraina che ora si sono trasformati improvvisamente in esegeti della lotta di liberazione italiana dal fascismo e ci spiegano cosa volevano quei partigiani che fino a qualche settimana fa consideravano un reperto fossile della preistoria pre-liberista. Quelli stessi che ora chiamano Putin fascista, ma che fino a tre settimane fa dicevano che il fascismo appartiene al passato, non esiste più, non è più un pericolo…

Ma i Partigiani italiani non erano difensori della patria fascista, erano quelli che non si erano fatti abbindolare dalla propaganda nazionalista mussoliniana, del sangue e della fede. Quella stessa propaganda che, con diversi accenti trabocca, spesso con le stesse parole, sia nei discorsi di Putin che di Zelensky. L’eterna retorica che giustifica la guerra.

I partigiani erano patrioti di una patria nuova, ancora tutta da conquistare e che alla fine non fu mai conquistata. Erano disertori, renitenti alla leva, fuggiaschi, soldati sbandati, ebrei, oppositori politici, preti e donne che volevano la pace, che volevano prima di tutto che la guerra finisse. Erano uomini e donne che sognavano il socialismo o la democrazia liberale, la Repubblica o la monarchia, il sol dell’avvenire o lo scudo crociato. Uniti, insieme, con un fucile in mano o pedalando su biciclette sgangherate, perché la pace arrivasse il prima possibile.

Per i fascisti e per i nazisti che ci avevano occupato erano semplicemente traditori della patria, complici degli invasori americani, britannici e sovietici. E, fino a che le città del nord non sono cadute nelle mani dei Partigiani la stampa di regime li chiamava banditi.

Dove sarebbero oggi quei partigiani? Dove sono stati anche dopo la fine della seconda guerra mondiale: a combattere per la pace e il progresso umano. Il contrario della guerra.

 

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