Venerdì, 29 marzo 2024 - ore 11.46

Io e il prode Orlando | Agostino Melega

Quanto l’amavo quell’album di figurine che mi parlava degli Indiani d’America!

| Scritto da Redazione
Io e il prode Orlando | Agostino Melega

Io e il prode Orlando | Agostino Melega

Quanto l’amavo quell’album di figurine che mi parlava degli Indiani d’America! Per raccogliere piccole tessere colorate che mi facevano sentire amici e compagni di gioco Geronimo, Toro Seduto e Kocise, e cavalcare con loro in modo sconfinato dal Nuovo Messico al Nord Dakota, avevo dovuto nutrirmi con una quantità infinita di surrogati di cioccolato “Ferrero”, a quindici lire lo spicchio, dal quale, appunto, si staccavano le piccole immagini della collezione. Ebbene, nonostante tale metodica applicazione di merende l’una uguale all’altra, non potei resistere, in quell’ormai remoto 1957, nel voler scambiare quel mio tesoro di praterie, bisonti e Manitù, con un giocattolo irresistibile: un burattino, il più bel burattino del teatro di Turtiróol (Tortiroli), di quell’uomo misterioso che di sera trasformava la sua bottega d’artigiano falegname come Geppetto, nel tempio dell’immaginario, della fantasia, della salace risata collettiva. E riusciva a portare in quel camerone, sito in un angolo di un piccolo paese padano, Annicco (CR), il centro del mondo.

Già, lo scambio che mi si offriva era un’occasione d’oro, irripetibile. Quel burattino stupendo, era lì a portata di mano, a portata di uno sgualcito album d’ormai inutili figurine. Avevo di fronte nientemeno che il burattino di Orlando, di Orlando in persona, del prode Orlando, figlio di Milone di Aglante e di Berta, sorella di Carlo Magno.

Sì, mi avevano letteralmente estasiato ed estraniato, negli anni ’54 e ’55 i “figli di legno” di Turtiróol, i paladini di Francia, in una serie di sequenze coinvolgenti, identificanti, che ti immedesimavano nella rocambolesca nascita di Orlando sino alla tragica “Rotta di Roncisvalle”. Lui, infatti, Orlando, “ero” io; e Rinaldo, l’altro paladino, “era” il mio amico seduto di fianco, sulla sedia che bisognava portarsi sa casa, Amilcare. La cosa più ingiusta, certamente, era quando dovevamo morire in scena.

Ma di questo però, del morire, non eravamo del tutto convinti, perché eravamo sicuri che Turtiróol fosse nascosto lì sotto e che stesse facendo per finta, e che ci stesse manipolando con dei rantoli sin troppo esagerati. E poi eravamo matematicamente sicuri, io e Amilcare, o meglio io-Orlando e lui-Rinaldo, che saremmo stati ancor più forti la sera dopo, contro il Sultano e i Mori, e contro la pagana Dama Ravanza. Avremmo combattuto, io e Amilcare, non per finta, come Orlando e Rinaldo perdenti, ma sul serio, sì, proprio così. Alla pari di Gioppino, burattino dai tre gozzi col bastone sempre in mano nelle fasi finali delle farse. È ovvio che “noi” non eravamo parti del mondo della farsa, troppo ridicolo e sguaiato per essere vero, troppo caratterizzato dalla voce di Turtiróol, a volte goffo acrobate nel suo dire, passando in un baleno dal dialetto bergamasco di Gioppino e Brighella a quello bolognese di Balanzone, o a quello addirittura napoletano di Tartaglia.

Turtiróol era splendido, invece, quando spariva, quando insomma entravano in scena i cavalieri di Carlo Magno, i Paladini di Francia, quando per dirla tutta entravamo in scena noi due, Amilcare ed io.

Purtroppo venne un giorno, all’improvviso, che il signor Tortiroli chiuse per sempre il suo teatro di legno. Ed a me non rimase che il cioccolato, il surrogato con appiccicate le immaginette degli Indiani lontani. E stranamente il destino volle che, di lì ad un anno, il prode Orlando tornasse a me, ed io a lui, grazie alla mediazione di Cesare, figlio del sarto. Ma io ed il prode burattino rimanemmo l’uno nella parte dell’altro, per molto poco. Il sipario dell’infanzia stava ormai calando...

Agostino Melega (Cremona)

                                   

 

 

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