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Il terzo assedio di Macallè

L’Onu: proteggere i civili vittime della guerra nel Tigray. Il dramma delle donne e delle ragazze rifugiate

| Scritto da Redazione
Il terzo assedio di Macallè

Il primo assedio di Macallè, durante la guerra di Abissinia tra il Regno d’Italia e l’Impero d’Etiopia, durò dal 15 dicembre 1895 al 22 gennaio 1896, fino a quando la guarnigione coloniale italiana resistette all’esercito etiope guidato dal negus Menelik II in persona.

Un affronto che fu lavato l’8 novembre del 1935 dalle truppe fasciste e dagli ascari eritrei e somali che, dopo aver assediato, bombardato con l’iprite e avvelenato col gas Macallè, la unirono all’effimero impero africano italiano che entro pochi anni sarebbe stato spazzato via dagli inglesi e dagli abissini. Come testimoniò l’imperatore etiope Hailè Selassiè a Ginevra il 30 giugno 1936, di fronte alla Società delle Nazioni, «fu all’epoca dell’accerchiamento di Macallè che il comando italiano, temendo una disfatta, applicò il procedimento che ho il dovere di denunciare al mondo. Dei diffusori furono istallati a bordo degli aerei in modo da vaporizzare, su vaste distese di territorio, una sottile pioggia micidiale. A gruppi di 9, di 15, di 18, gli aerei si succedevano in modo che la nebbia emessa da ciascuno formasse una coltre continua. Fu così che, a partire dalla fine di gennaio 1936, i soldati, le donne, i bambini, il bestiame, i fiumi, i laghi, i pascoli, furono di continuo spruzzati con questa pioggia mortale. Per uccidere sistematicamente gli esseri viventi, per avvelenare con certezza le acque e i pascoli, il comando italiano fece passare e ripassare gli aerei. Questo fu il suo principale metodo di guerra».

In questi giorni – tra il disinteresse della politica italiana, anche di quella che canticchia di nascosto “Faccetta Nera” o che ce l’ha come suoneria dello smartphone – sta avvenendo il terzo assedio di Macallè, che nel frattempo ha riconquistato il suo nome pre-coloniale di Mekele/Mekelle ed è diventata capitale dello Stato regionale etiope ribelle del Tigray. Gli assedianti sono i soldati, i carri armati e gli aerei dell’esercito federale etiope (e le milizie amhara e forse truppe eritree che li appoggiano), gli assediati sono i miliziani del Tigray People’s Liberation Front (TPLF – teoricamente marxista-leninista), colpevoli di aver indetto – e vinto con il 98% dei voti – elezioni che il governo di Addis Abeba ha considerato un illegale atto di ribellione secessionista, approfittandone poi per regolare i conti con i tigrini che dal 1991 avevano dominato con pugno di ferro la politica etiope, dopo aver rovesciato la dittatura militare comunista del DERG di Mengistu Hailemariam.

Nel Tigray si combatte dal 4 novembre e la regione è tagliata fuori dal resto del mondo mentre il primo ministro etiope e Premio Nobel per la pace, Abiy Ahmed ha dato ordine di spazzare via la resistenza da Mekele/Macallè e la stessa Onu che lo aveva elogiato per la pace fatta con l’Eritrea ora lo mette in guardia dal procedere ad attuare quella che ha tutta l’aria di essere già una carneficina. Infatti, a prevalere è il linguaggio marziale e  il portavoce dell’esercito etiope, il colonnello  Dereje Tsegaye, ha avvertito chi vive a Mekele: «Salvatevi dagli attacchi dell’artiglieria e liberatevi della giunta (del TPLF). Dopo non ci sarà pietà».

Dopo queste dichiarazioni, la coordinatrice umanitaria dell’Onu in Etiopia, Catherine Sozi ha detto alla Reuters, di essere molto preoccupata «per la protezione dei 525.000 civili che vivono a Mekele» e Laetitia Bader, responsabile di Human Rights Watch per il Corno d’Africa ha aggiunto su Twitter che  «rattare una città intera come un  obiettivo militare sarebbe non solo illegale, ma potrebbe essere considerato come una forma di punizione collettiva, vale a dire un crimine di guerra». La pensa così anche Susan Rice, l’ex ambasciatrice Usa all’Onu e consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti durante l’Amministrazione di Barack Obama.

Capendo di aver detto più di quel che voleva, il governo etiope ha cercato di rimediare dicendo che il bellicoso colonnello Tsegaye  si riferiva unicamente ai capi del TPLF (che probabilmente non sono più nemmeno a Mekele) e Abiy Ahmed ha assicurato che verranno prese tutte le misure necessarie per assicurare che i civili r

Quello che è certo è che l’esercito etiope ha lan ciato la«fase finale» e che Abiy Ahmed si è già scordato di quanto disse il 10 dicembre 2019 nel suo discorso di accettazione del Premio Nobel della Pace: «La guerra è l’incarnazione dell’inferno per tutti quelli che vi partecipano. Ci sono passato e ne sono tornato. Ci sono quelli che non hanno mai visto la guerra ma che la glorificano. Non hanno visto la paura e la distruzione. Né hanno sentito il triste vuoto della guerra dopo la carneficina». Ora Abiy Ahmed è alla testa di un esercito che vuole distruggere quelli con cui il premier etiope ha combattuto fianco a fianco nella guerra contro l’Eritrea.

Nessuno sa cosa sta succedendo davvero nel Tigray: il governo ha interrotto ogni tipo di comunicazione e le due parti belligeranti sfornano bollettini di vittoria e di freciproche accuse di atrocità contro i civili. La resistenza però rischia di trasformarsi in guerriglia che renderà difficile la vita agli etiopi anche dopo la conquista di Mekele/macallè: secondo l’International Crisis Group, il governo statale del Tigray  – la regione più militarizzata dell’Etiopia – dispone di circa 250.000 combattenti, compresi quelli delle milizie locali, l’Ethiopian National Defense Force ha 150.000 uomini e una gran parte erano già nel Tigray quando è scoppiata la rivolta. Il leader cdel TPLF, Debretsion Gebremichael, ha pron messo «Aspri combattimenti» per fermare l’avanzata dell’esercito etiope. «Continueranno a pagare per ogni mossa», ha detto all’Agence France-Presse.

La guerra del Premio Nobel per la Pace sembra aver preso alla sprovvista la comunità internazionbale: solo il 21 novembre l’Unione Africana – che ha sede nella capitale etiope –  ha annunciato che invierà un inviato speciale per mediare tra il governo federale di Addis Abeba e il TPLF, annuncio subito derubricato a fake news da Abiy

Gli Usa hanno definito il peggioramento della situazione in Etiopia un imminente disastro umanitario.   Michelle Bachelet, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, ha espresso la sua preoccupazione per la retorica guerresca di entrambe le parti in vista della grande battaglia per la capitale regionale, Mekele: «E’ pericolosamente provocatoria e rischia di mettere a rischio civili spaventati e in grave pericolo, Temo che tale retorica porterà a ulteriori violazioni del diritto internazionale umanitario. Tale retorica suggerisce possibili violazioni dei principi cardine di distinzione, proporzionalità e precauzione nella condotta delle ostilità che sono stati pensati per garantire la protezione della popolazione civile».

L’Onu è preoccupata anche perché dal Tigray arrivano notizie che i combattenti del TPLF si stanno posizionando tra la popolazione civile, ma la Bachelet av verte che «Tuttavia, questo non dà al governo etiope carta bianca per rispondere con l’uso di artiglieria in aree densamente popolate perché cerca di prendere il controllo della regione. Secondo il diritto internazionale, le parti in conflitto dovrebbero prendere tutti possibili misure per proteggere i civili.  Ricordo a tutte le parti coinvolte nel conflitto che l’obbligo di rispettare il diritto internazionale non è subordinata al  comportamento della controparte. Tutte le parti in conflitto sono tenute a rispettare il diritto internazionale umanitario e il diritto dei diritti umani, ove applicabile. La protezione dei civili è fondamentale».

Nel frattempo, in Sudan continuano ad affluire rifugiati etiopi, che ormai hanno superato i 40.000 dall’inizio della crisi e il portavoce dell’Unhcr, Babar Baloch, ha avvertito che »Le esigenze umanitarie stanno superando la capacità di risposta.  Siamo stati in grado di fornire e distribuire aiuti salvavita, compreso il cibo, a più persone. Ma la risposta umanitaria continua ad affrontare sfide logistiche e rimane eccessiva. Non c’è abbastanza capacità di accoglienza per soddisfare le crescenti esigenze».  Baloch si è detto anche preoccupato per la situazione dei civili, compresi gli sfollati e gli operatori umanitari nella regione del Tigray è ha ribadito l’appello a tutte le parti in conflitto «affinché consentano la libera e sicura circolazione delle persone colpite in cerca di sicurezza e assistenza, anche attraverso i confini internazionali e nazionali, indipendentemente dal loro background etnico».

Secondo l’United N ations Office for Coordination of Humanitarian Affairs (Ocha) a Mekele ci sono ancora sitto l’assedio etiope circa mezzo milione di persone, tra cui circa 200 operatori umanitari e il portavioce dell’Ocha Jens Laerke, ha affermato che «Le Nazioni Unite e i nostri partner in Etiopia restano pronti a fornire assistenza alle persone colpite dal conflitto. E’ urgentemente necessario un accesso umanitario libero, sicuro e senza ostacoli. L’Ocha ha finalizzato un piano di preparazione umanitaria inteso ad aiutare 2 milioni di persone con assistenza nelle regioni del Tigray, dell’Afar e dell’Amhara, che include i casi umanitari esistenti e un ulteriore 1,1 milioni di persone che dovrebbero aver bisogno di assistenza a causa del conflitto. Per sostenere questo piano, saranno ancora necessari circa 76 milioni di dollari per finanziarlo».

La maggioranza dei rifugiati sono donne e bambini: »Ho visto uomini massacrati davanti ai miei occhi. Non posso dimenticarlo»,  ha detto una giovane donna ai funzionari dell’United Nations sexual and reproductive health agency (Unfpa) nel campo sudanese di Um Raquba – Sono scappata da casa quando stavano sparando. Non so ancora dove siano mio padre e i miei fratelli».

Molte delle donne e delle ragazze rifugiate hanno paura per la loro sicurezza: durante le crisi umanitarie, spesso aumenta la violenza di genere aumenta spesso. Un rifugiato di 37 anni ha detto all’ Unfpa: «Quando me ne sono andato, sono fuggito con 7 bambini. Abbiamo viaggiato per quattro notti a piedi attraverso la boscaglia e la foresta. Durante il giorno ci siamo nascosti. Ho due figlie di 20 e 18 anni. Non riesco a dormire sonni tranquilli perché sono in ansia per la sicurezza delle mie figlie».

Inoltre, i rifugiati non hanno servizi igienici sicuri e docce, per espletare i loro bisogfni corporali le donne e le ragazze vanno a una certa distanza dall’insediamento dei rifugiati per liberarsi all’aperto, il che le espone a potenziali violenze. L’Unfpa e i suoi partner stanno intervenendo per prevenire e rispondere alla violenza di genere. L’Agenzia ha detto che «Il pronto soccorso psicologico e la consulenza per i traumi sono urgentemente necessari».

La struttura sanitaria di riferimento più vicina in grado di fornire cure post-stupro o cure ostetriche di emergenza è a circa 40 minuti da Um Raquba. Massimo Diana, rappresentante dell’Unfpa in Sudan, raccionta che «Una donna ha perso il suo bambino dopo 9 mesi di gravidanza a causa della mancanza di servizi La donna era arrivata al centro sanitario troppo tardi per partorire in sicurezza. Nessuna donna dovrebbe affrontare tutto questo e stiamo lavorando per garantire che siano disponibili i servizi per salvare vite umane».

L’Unfpa stima che delle rifugiate appena arrivate ​​in Sudan più di 700 siano probabilmente incinte e potrebbero esserci circa 150 sopravvissute alla violenza di genere che necessitano di assistenza. Questa stima si basa sui calcoli del Minimum Initial Service Package for Reproductive Health in Crisis che prevedono che circa il 2% delle donne in età riproduttiva subiranno violenza sessuale. Si stima che oltre 7.500 rifugiati siano donne in età riproduttiva.

L’Unfpa sta lavorando per creare spazi sicuri per queste donne e ragazze, dove possono trovare supporto psicosociale e riferimenti per la salute e ad altri servizi. Con i suoi partner, l’Unfpa sta anche lavorando per distribuire kit dignità, che contengono forniture per l’igiene come assorbenti, vestiti, sapone, indumenti intimi e altre necessità.

L’Unfpa ha anche fornito kit per il parto pulito contenenti forniture di base per facilitare un parto sicuro, tra cui crema antisettica, un rasoio per tagliare il cordone ombelicale, un lenzuolo sterile per il parto e una coperta per riscaldare il bambino. Kit di emergenza per la salute riproduttiva più completi vengono forniti agli operatori sanitari e alle cliniche che vengono allestite in loco.

Natalia Kanem, direttrice esecutiva dell’Unfpa, conclude: «La situazione per queste donne e ragazze è estremamente difficile e il trauma è diffuso. Stiamo lavorando urgentemente con i nostri partner per fornire servizi di salute sessuale e riproduttiva salvavita e supporto psicosociale e per proteggere donne e ragazze dai pericoli. Con molte più persone che dovrebbero attraversare il confine, un ulteriore supporto sarà fondamentale per soddisfare le crescenti esigenze».

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