Giovedì, 25 aprile 2024 - ore 06.43

La Brexit cinque anni dopo il referendum

| Scritto da Redazione
La Brexit cinque anni dopo il referendum

Doveva risolvere una volta per tutte la questione dei rapporti con l’Unione europea, dopo 40 anni di partecipazione sì ma sempre riluttante, un piede dentro al blocco e uno mezzo fuori. Almeno così promettevano Nigel Farage e Boris Johnson. Sono passati cinque, lunghissimi anni dal referendum sulla Brexit ed è avvenuto l’esatto contrario.

Abbiamo avuto la guerra delle capesante per la pesca nelle acque della Manica e la guerra delle salsicce per il movimento delle merci tra Irlanda del Nord e Gran Bretagna; in questi giorni si discute se le serie tv britanniche debbano essere acquistate in Europa. Nemmeno una pandemia che ha messo il mondo in ginocchio ha fatto dimenticare la Brexit: dopotutto, il successo della campagna vaccinale è dovuta al divorzio dalla Ue, dicono i Brexiteer (e non hanno tutti i torti); di contro il premier Johnson è stato accusato di aver tentennato nel blindare le frontiere con l’India nonostante l’emergere di una nuova variante di coronavirus per non indispettire un Paese con cui deve negoziare un accordo commerciale post-Brexit. La Brexit pervade ogni aspetto della cosa pubblica. Tutto è Brexit.

Sono passati cinque anni dal referendum del 23 giugno 2016, ma ancora non ne vediamo appieno le ripercussioni, in parte nascoste nelle pieghe della devastazione economica e sociale da Covid, in parte di là da venire. E non solo ripercussioni economiche. La Brexit minaccia la tenuta del Regno Unito: ha di fatto separato l’Irlanda del Nord dal resto del Paese, con un confine in mezzo al mare che allarma gli unionisti e rinvigorisce le spinte per l’unificazione irlandese. Per non parlare della Scozia, tirata fuori dall’Ue suo malgrado e adesso decisa, almeno nelle intenzioni del partito nazionalista di Nicola Sturgeon, a chiedere un nuovo referendum d’indipendenza. Un sondaggio del Sunday Times all’inizio dell’anno ha rivelato come i britannici tutti siano convinti che l’addio di Edinburgo sia inevitabile: in tutte e quattro le nazioni del Regno, la maggioranza degli elettori si aspetta che la Scozia abbandoni entro i prossimi 10 anni.

Se si votasse oggi

Né il Paese, che nel 2016 aveva votato 52% contro il 48% a favore del divorzio, è oggi più unito sul tema. Secondo una rilevazione di uno dei massimi esperti britannici, John Curtice, oltre l’80% di elettori, sia per Leave sia per Remain, voterebbe oggi come aveva fatto originariamente. “Pochi tra quanti hanno votato nel 2016 hanno cambiato idea, con il risultato che il Paese resta spaccato sulla questione dell’uscita dall’Europa”, dice Curtice. L’ipotesi di un nuovo referendum non è praticabile politicamente e nessuno oggi lo chiede, ma per la metà dei cittadini la delusione non è ancora smaltita.

Il terremoto Brexit ha cambiato il Paese profondamente, diventando tema identitario più dell’affiliazione politica che durava magari da generazioni. Le aree tradizionalmente rosse del nord Inghilterra che hanno votato Leave sono rimaste con Johnson alle elezioni del 2019, che non a caso si sono concluse con la più ampia maggioranza Tory dai tempi di Margaret Thatcher. Il panorama politico è stato completamente ridisegnato. E sulle nuove divisioni create dalla Brexit, generazionali e ideologiche, è ora intervenuta la culture war, la guerra sui valori, sul passato imperiale e i suoi simboli, che i conservatori hanno fatto propria. Con un partito Tory più che mai saldo al governo, il Labour (il cui ex segretario, l’euroscettico Jeremy Corbyn, della Brexit è stato uno dei padri, più o meno volontariamente) deve ricostruirsi come alternativa di governo credibile agli occhi degli elettori, come partito portatore di valori in cui si possano riconoscere non solo le colte aree metropolitane. Un processo che potrebbe richiedere un paio di tornate elettorali, salvo ulteriori colpi di coda della pandemia.

La scommessa della “Global Britain”

All’esterno, la “Global Britain” di Johnson è alla ricerca di un’identità che vada oltre gli slogan e la nostalgia delle glorie imperiali. E che risolva le contraddizioni di un Paese che vuole essere globale e promuovere i valori democratici, ma che tuttavia ha voltato le spalle ad un libero mercato di 500 milioni di persone alle porte di casa. E che rischia di ritrovarsi in una situazione di potenziale conflittualità continua con gli “amici europei”, per usare la terminologia preferita dal premier. Basti vedere le dispute sorte dall’inizio dell’anno, quando la Brexit, con la fine del periodo di transizione, è divenuta effettiva; basti vedere come le contese sull’Irlanda del Nord abbiano pesato sul G7 appena concluso.

Se alcune questioni si risolveranno, altre presumibilmente spunteranno qua e là, con ciascun Paese attento al proprio elettorato. Se spingere sull’aspetto nazionalistico, di contrapposizione a Bruxelles, giova a Johnson a fini interni, difficilmente potrà aiutare i rapporti con l’Europa. Lord Frost, il negoziatore cui Johnson ha sostanzialmente delegato ogni decisione sulla Brexit, ha detto alla vigilia dell’anniversario che non si aspettava una relazione tanto complicata con Bruxelles.

La scommessa di Johnson è che un Paese più snello e agile possa agire velocemente e acquisire un vantaggio competitivo su blocchi più potenti, ma anche più macchinosi e più lenti. Il caso dei vaccini è emblematico e, nelle speranze di Johnson, paradigma e modello per il futuro.

Se da una parte la Brexit è dunque compiuta, dall’altra molto resta ancora da scrivere. A distanza di cinque anni, quello storico voto ha prodotto un Regno che da anni non era così disunito e concentrato su se stesso, alle prese con un vicino europeo guardingo, in un clima di reciproca sfiducia. Lungi dall’aver risolto la questione dei rapporti con l’Europa, la Brexit l’ha resa questione dominante, lacerante, per chissà quanto tempo ancora.

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