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Lavoro forzato, 21 milioni di vittime

| Scritto da Redazione
Lavoro forzato, 21 milioni di vittime

Secondo le nuove stime dell’Ilo, tre persone su mille al mondo sono costrette a svolgere un lavoro che è stato loro imposto mediante coercizione o inganno. Di questi, 4,5 milioni (22%) sono vittime di sfruttamento sessuale
Tre persone su mille sono vittime del lavoro forzato. Ventuno milioni in tutto il mondo. Lo segnala l’Ilo, l’Organizzazione internazionale del lavoro, in un rapporto pubblicato il 1 giugno 2012. La maggior parte, 18,7 milioni (il 90%), è sfruttata nell’economia privata. Di questi, 4,5 milioni (22%) sono vittime di sfruttamento sessuale e 14,2 milioni (68%) sono vittime di sfruttamento lavorativo in attività economiche come l’agricoltura, le costruzioni, il lavoro domestico e l’industria manifatturiera. Il restante 10%, 2,2 milioni di persone, è composto da persone sottoposte a forme di lavoro forzato imposte dallo Stato, ad esempio in carcere in condizioni che violano le norme dell’Ilo, oppure da eserciti nazionali o da forze armate ribelli.
Cos’è il “lavoro forzato”
L’espressione “lavoro forzato” è utilizzato dalla comunità internazionale per descrivere situazioni in cui le persone coinvolte — donne e uomini, bambine e bambini — sono costretti a lavorare contro la loro volontà, obbligati dal loro reclutatore o datore di lavoro tramite, ad esempio, la violenza o minaccia di violenza, oppure tramite mezzi più subdoli come i debiti accumulati, la confisca dei documenti di identità o la minaccia di denuncia alle autorità responsabili per l’immigrazione. Queste situazioni possono anche comprendere casi di tratta di essere umani o pratiche simili alla schiavitù, che sono simili ma non identiche dal punto di vista giuridico. Secondo la legislazione internazionale l’imposizione di lavoro forzato costituisce un crimine che deve essere perseguito con pene proporzionate alla gravità del reato.

Per quanto riguarda l’età, 5,5 milioni (26%) dei lavoratori forzati hanno meno di 18 anni. Il tasso di prevalenza, cioè il numero di lavoratori forzati per 1.000 abitanti, è più elevato in Europa centrale e sudorientale e nella Comunità degli Stati Indipendenti (CSI), con un rapporto di 4,2 per 1000 abitanti, e in Africa con un rapporto di 4,0 per 1.000 abitanti. Il tasso è più ridotto, 1,5 per 1000 abitanti, nelle economie industrializzate e nell’Unione Europea. La prevalenza relativamente alta in Europa centrale e sudorientale e nella Csi deriva dal fatto che la popolazione è meno numerosa rispetto, ad esempio, all’Asia mentre, allo stesso tempo, risultano essere numerosi nella regione i casi di tratta (trafficking) per lavoro e per sfruttamento sessuale e casi di lavoro forzato imposto dalla Stato.
La regione Asia-Pacifico conta il maggior numero di lavoratori forzati nel mondo — 11,7 milioni (56%) del totale mondiale. Al secondo posto l’Africa con 3,7 milioni (18%), seguita dall’America Latina con 1,8 milioni di vittime (9%). I paesi sviluppati e l’Unione Europea contano 1,5 milioni (7%) di lavoratori forzati, mentre i paesi dell’Europa centrale e sudorientale e della CSI ne contano 1,6 milioni (7%). Si stimano in 600.000 le vittime nel Medio Oriente.
«Abbiamo fatto parecchia strada negli ultimi sette anni da quando presentammo le prime stime sul numero di persone vittime di lavoro o di servizi forzati nel mondo. Progressi incoraggianti sono stati registrati anche nell’assicurare che la maggior parte dei paesi adottassero una legislazione contro il lavoro forzato, la tratta di esseri umani e la pratiche simili alla schiavitù», ha affermato Beate Andrees, responsabile del Programma Ilo di azione speciale per combattere il lavoro forzato. Secondo Beate Andrees, occorrerebbe concentrare ora l’attenzione su una migliore identificazione e perseguimento del lavoro forzato e dei reati connessi come la tratta di essere umani.

Le statistiche permettono anche di valutare il numero di persone che si trovano intrappolate nel lavoro forzato a seguito di una migrazione. Sono 9,1 milioni (44% del totale) le vittime che si sono spostate sia all’interno del proprio paese o al di là dei confini. La maggior parte, 11,8 milioni (56%) sono sottoposti al lavoro forzato nella loro regione di origine o di residenza. I movimenti transfrontalieri sono molto spesso associati allo sfruttamento sessuale forzato. Al contrario, la maggioranza dei lavoratori forzati in altre attività, e quasi tutti quelli sottoposti al lavoro forzato dallo Stato, non si sono allontanati dalla loro regione di origine. Secondo il rapporto, « la migrazione può diventare un importante fattore di vulnerabilità per alcuni gruppi di lavoratori, ma non per altri ».
La metodologia è stata riveduta e migliorata dopo le prime stime dell’Ilo nel 2005, ragione per cui non è possibile mettere a confronto le stime del 2012 con quelle del 2005 per stabilire l’evoluzione temporale del fenomeno. I diversi paesi dovranno ancora fare molti sforzi per migliorare la misurazione di un fenomeno tanto complesso. «Le cifre pubblicate oggi forniscono una stima più precisa dell’estensione del lavoro forzato, in quanto basate su una metodologia più affidabile e un maggior numero di fonti di dati», ha spiegato Beate Andrees. «Abbiamo realizzato queste nuove stime a livello globale e regionale a partire da una vasta serie di fonti secondarie, integrate con i risultati delle indagini nazionali effettuate in collaborazione con partner locali. Questo ci ha consentito di estrapolare i dati provenienti dai mezzi di comunicazione e da altre fonti indirette. Tuttavia siamo ancora lontani da una situazione ideale nella quale i paesi possano procedere a propri rilevamenti. L’Ilo si impegnerà a rafforzare la capacità dei paesi a intraprendere un lavoro così complicato».
Le convenzioni Onu
La Convenzione sul lavoro forzato (n. 29) del 1930 vieta tutte le forme di lavoro forzato o coatto che viene definito come «lavoro o servizio estorto a una persona sotto minaccia di una punizione o per il quale detta persona non si sia offerta spontaneamente». Sono previste eccezioni per il lavoro o servizio « richiesto dalla legge sul servizio militare obbligatorio», che fa parte «dei normali obblighi civili dei cittadini di un paese», «richiesto a una persona a seguito di una condanna del tribunale (a condizione che tale lavoro o servizio venga eseguito sotto la vigilanza e il controllo delle pubbliche autorità e che la persona non sia impiegata o messa a disposizione di singoli privati, o di imprese e società private)», «richiesto in situazioni di emergenza», «i piccoli lavori di interesse collettivo, cioè i lavori eseguiti dai membri di una comunità nell’interesse diretto della comunità stessa». La Convenzione stabilisce anche che «il fatto di esigere illegalmente il lavoro forzato o obbligatorio [sia] passibile di sanzioni penali e [che] ogni Stato membro che ratifichi la [...] convenzione [abbia] l’obbligo di assicurarsi che le sanzioni imposte dalla legge siano realmente efficaci e rigorosamente applicate».
La Convenzione sull’abolizione del lavoro forzato (n. 105) del 1957 vieta, invece, il lavoro forzato o coatto «come misura di coercizione o di educazione politica o quale sanzione nei riguardi di persone che hanno o esprimono certe opinioni politiche o manifestano la loro opposizione ideologica all’ordine politico, sociale ed economico costituito, come metodo di mobilitazione o di utilizzazione della manodopera a fini di sviluppo economico, come misura di disciplina del lavoro, come sanzione per aver partecipato ad uno sciopero, come misura di discriminazione razziale, sociale, nazionale o religiosa».
Inoltre, il lavoro forzato o coatto dei minori di 18 anni fa parte delle peggiori forme di lavoro minorile secondo quanto stabilito dalla Convenzione sulle peggiori forme di lavoro minorile (n. 182) del 1999.

fonte: http://www.rassegna.it/articoli/2012/06/1/88231/lavoro-forzato-21-milioni-di-vittime

Segnalato da
www.welfarenetwork.it

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