Secondo il rapporto annuale della Federazione internazionale dei giornalisti (IFJ) quest’anno nel mondo sono stati uccisi 42 giornalisti e operatori dei media mentre svolgevano il loro lavoro, due dei quali in Europa, in Svezia e in Russia. Altri 235 sono in carcere per questioni legate al loro lavoro. Il Messico è il paese con il maggior numero di reporter uccisi quest’anno, tredici, ed è in cima alla lista per la quarta volta in cinque anni, davanti al Pakistan con cinque. Tre vittime sono state registrate in Afghanistan, India, Nigeria e Iraq.
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L’IFJ iniziò a tenere il conto delle vittime tra gli operatori dell’informazione nel 1990, quando i morti furono 40. In questi trent’anni il conto è cresciuto a dismisura e raggiunge l’incredibile cifra di 2.658 ammazzati, due ogni settimana. La gran parte di loro è stata assassinata per il loro lavoro: ben il 75% sono giornalisti locali che hanno fatto reportage scomodi per qualcuno e sono stati uccisi di proposito con armi da fuoco o da taglio, o dopo essere stati rapiti e torturati. E tristemente nel 90% dei casi indagini e processi, se ci sono stati, non hanno portato a nessun colpevole, dimostrando che uccidere giornalisti è un crimine che paga e non comporta rischi.
In questi tre decenni il Messico, che pure ha un numero altissimo di morti (178), è superato dall’Iraq, il paese che si è dimostrato il più pericoloso per fare informazione sul campo: 340 sono i caduti in trent’anni. Altri 160 sono rimasti uccisi nelle Filippine, 138 in Pakistan e 116 in India. L’Europa, nel suo complesso, dal 1990 ad oggi conta 373 morti, quasi un terzo dei quali in Russia (110).
«Queste non sono solo statistiche. Sono nostri amici e colleghi che hanno dedicato la loro vita e pagato il prezzo più alto per il loro lavoro di giornalisti. Non ci limitiamo a ricordarli, ma perseguiremo ogni caso, spingendo i governi e le forze dell’ordine a consegnare i loro assassini alla giustizia», è il commento a questi numeri di Anthony Bellanger, segretario generale dell’IFJ.