Parlare di AIDS oggi è qualcosa di profondamente diverso rispetto a quanto non fosse nei primi anni che seguirono la scoperta del virus HIV e la sua identificazione come causa della malattia. Per quasi due decenni la positività all’HIV ha significato un’inesorabile progressione dell’infezione, caratterizzata dalla compromissione del sistema immunitario e dalla comparsa di gravi patologie correlate che conducevano alla morte del paziente.
L’introduzione, nel 1996, dei primi farmaci antivirali ha gradualmente consentito la trasformazione dell’AIDS in una malattia cronica, con un’aspettativa di vita alla diagnosi che si avvicina a quella della popolazione generale e con la possibilità di tenere sotto controllo le coinfezioni, migliorando così lo stato di salute complessivo.
Le terapie si sono in seguito perfezionate ulteriormente ma rimane aperto il grande problema dell’accesso alle cure che nei Paesi più poveri, soprattutto nell’Africa subsahariana, è un diritto ancora ampiamente negato. Dei circa 38 milioni di persone positive al virus HIV, solo 25,4 milioni ricevono le adeguate terapie (dati Unaids aggiornati al 2020). Il che significa che oltre 12 milioni di persone stanno ancora aspettando di potersi curare.
Quanto alle nuove diagnosi, rileva sempre il rapporto Unaids, dal 2010 ad oggi le infezioni a livello globale si sono ridotte di oltre il 23% ma il 2019 si è concluso con circa 1,7 milioni di nuovi casi di contagio, un dato che mostra l’impossibilità di raggiungere l’obiettivo delle 500.000 infezioni annuali, fissato per il 2020 dal Programma dell’Onu per l’HIV e l’AIDS.
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