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L’atomica divide ancora, tra deterrenza e disarmo

Il 2021 si apre con due eventi chiave per la non proliferazione e il disarmo: a tre mesi dalla cinquantesima ratifica, entra in vigore il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari

| Scritto da Redazione
L’atomica divide ancora, tra deterrenza e disarmo

Il 5 febbraio scorso – a poco più di due settimane dall’insediamento di Joe Biden – è stata resa nota la decisione di rinnovare per altri cinque anni l’accordo tra Stati Uniti e Russia sulla limitazione degli armamenti nucleari strategici New START. Una svolta decisiva e attesa, che segna un cambio di passo rispetto alla precedente Amministrazione, a pochi giorni dall’entrata in vigore del Trattato sulla proibizione delle armi nucleari (TPNW) del 22 gennaio.

Perché conta? Per diverse ragioni. Innanzitutto apre la possibilità a nuove negoziazioni sulla progressiva riduzione degli armamenti nucleari delle due potenze che, ancora oggi, possiedono la maggior parte delle testate nucleari attive al mondo (stimate nel complesso superiori alle 13mila). In secondo luogo arriva dopo una stagione di incomprensioni e crescenti conflittualità tra Washington e Mosca che, seppur sistemiche e persistenti, non hanno compromesso il dialogo su un tema così delicato. Un’eventualità, quest’ultima, che avrebbe altresì aperto le porte a una pericolosa proliferazione verticale delle testate strategiche – armi a gittata inter-continentale, virtualmente in grado di colpire qualsiasi obiettivo sul territorio nazionale della controparte.

Dall’annessione della Crimea nel 2014, infatti, il Cremlino ha assunto una postura sempre più assertiva in politica estera, alzando progressivamente il livello della sfida all’Occidente. Un rapporto piuttosto teso, quello con l’Alleanza atlantica, gravato anche dalle violazioni russe al Trattato sulle forze nucleari di raggio intermedio (INF) – l’accordo che, nel 1987, pose fine alla lunga e complicata crisi degli euromissili. Di qui le accuse statunitensi, poi fatte proprie dalla NATO, e il conseguente annuncio di Trump che gli USA avrebbero denunciato l’accordo. Recesso puntualmente avvenuto nel 2019, stesso anno del ritiro unilaterale della Casa Bianca da un altro importante accordo in materia: il Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), raggiunto con l’Iran nel 2015.



UNO SGUARDO ALLA STORIA

Ma l’INF non è stato il primo accordo a cadere con il muro di Berlino. Prima vittima della distensione post guerra fredda fu il Trattato anti missili balistici (ABM) del 1972: già messo in discussione da Reagan negli anni Ottanta, con l’ambizioso e mai realizzato progetto della Strategic Defense Initiative (il cosiddeto “scudo spaziale”), venne infine denunciato da Bush nel 2002. Il che introdusse uno scomodo elemento di instabilità nei delicati equilibri della sicurezza atomica globale, con non secondarie ripercussioni sulla complessiva solidità del sistema. Il muro portante di questa infrastruttura, tuttavia, ancora regge: il Trattato di non proliferazione nucleare (NPT). Firmato nel 1968 ed entrato in vigore nel 1970, esso può essere pacificamente considerato, con i suoi 191 membri, il primo accordo multilaterale veramente universale in tema di non proliferazione e disarmo. Preceduto nel 1963 dal Trattato sulla messa al bando parziale degli esperimenti nucleari (PTBT), negoziato nel clima di dialogo instauratosi tra le due superpotenze nell’ambito delle discussioni bilaterali di SALT I e II (dal 1969 al 1972 e dal 1972 al 1979) e probabilmente motivato anche dal test nucleare cinese del 1964, il trattato riuscì a cristallizzare lo status quo, ponendo finalmente un argine legale alla proliferazione orizzontale.

La fine dell’URSS sembrò in effetti stimolare un ottimismo senza precedenti in tema di disarmo, con la massiccia riduzione degli arsenali strategici dell’ex blocco sovietico e degli Stati Uniti sancita dal Trattato di riduzione delle armi strategiche (START I) del 1991. Un idillio rivelatosi però assai fragile, messo presto in crisi dalle guerre balcaniche. Sostanziale fu il fallimento dello START II: siglato nel 1993, ma ratificato dalla Duma solo nel 2000 dopo una serie di rinvii, venne infine denunciato dal Governo russo in reazione al recesso statunitense dall’ABM e sostituito, nel 2002, dal Trattato di Mosca (Strategic Offensive Reductions Treaty – SORT).

In stallo dal 1996 è poi il Trattato sulla messa al bando totale degli esperimenti nucleari (CTBT), progetto che avrebbe dovuto sostituire e ampliare il divieto parziale del PTBT (che, com’è noto, lascia la possibilità di condurre test sotterranei), in tal modo limitando fortemente – sebbene non escludendo del tutto – la possibilità di modernizzare gli arsenali o testare armi nuove. Dall’entrata in vigore del SORT si dovette però attendere il 2010 perché Federazione russa e Stati Uniti giungessero a un nuovo accordo sulla riduzione dei propri armamenti strategici, accordo che venne significativamente denominato New START. Il quale, come si è detto, ha peraltro rischiato di non essere rinnovato. Fatte queste premesse, è dunque più agevole cogliere la portata dell’intesa raggiunta a febbraio tra Washington e Mosca, la quale ha di fatto salvato l’ultimo vero vincolo – al di fuori del framework dell’NPT – alla limitazione degli armamenti nucleari delle due potenze.

IL TPNW E I SUOI LIMITI

Ma le complessità sono ulteriori. Come noto, i cinque nucleari “legittimi” sanzionati dall’NPT (Cina, Francia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti) non sono gli unici a possedere un arsenale nucleare. Anche Corea del Nord, India, Israele e Pakistan hanno realizzato dei programmi militari atomici e l’Iran potrebbe in futuro aggiungersi a questo elenco. E poi c’è la NATO: oltre ai membri possessori di armi proprie, diversi Alleati ospitano testate nucleari nei rispettivi territori nazionali sulla base dei cosiddetti accordi di nuclear sharing. In questa prospettiva il dibattito aperto dalla recente entrata in vigore del TPNW tocca il cuore della sicurezza nordatlantica.

Il TPNW, infatti, apre una stagione che può dirsi inedita nell’ambito del disarmo: è la prima fonte convenzionale a essere entrata in vigore a prevedere un’esplicita messa al bando delle armi nucleari, senza eccezioni. Frutto dei lavori di alcune conferenze sugli effetti umanitari dell’atomica, dell’iniziativa sulla human security austriaca e dell’impegno di attori non-statali come l’ICAN – International Campaign to Abolish Nuclear Weapons (per questo insignita del Nobel per la pace nel 2017), il TPNW è stato fin dai suoi primissimi negoziati in seno all’Assemblea Generale dell’ONU osteggiato da parte dei Paesi nucleari e dei loro alleati. Ciononostante il 24 ottobre scorso, con la cinquantesima ratifica apposta dall’Honduras, è iniziato il decorso del termine di 90 giorni per l’entrata in vigore del trattato, ad oggi ratificato da 54 Stati, avvenuta poi il 22 gennaio. Fatto che comporta una serie di conseguenze che meritano di essere analizzate. Innanzitutto la posizione della NATO. Quest’ultima, in linea con Washington, ha in più occasioni manifestato la propria contrarietà al TPNW, opponendosi ad esso in ogni fase, dall’elaborazione all’approvazione. Gli Alleati infatti, con l’eccezione dei Paesi Bassi, non hanno neanche preso parte al negoziato, coerentemente con i propri impegni nell’ambito dell’Alleanza.

Oltre alla ostensibile opposizione dei Paesi nucleari (ufficiali e non), tuttavia, il trattato si prospetta ben più divisivo – anche per l’Unione europea: ventuno membri su ventisette, infatti, aderiscono alla NATO, e pure tra questi ultimi sussistono percezioni di sicurezza non sempre omogenee. Si delineano così pericolose fratture tra Stati UE membri della NATO e fautori del disarmo per tappe, da un lato, e quelli invece proiettati verso una proibizione assoluta e immediata delle armi nucleari, dall’altro. Non solo. Tale divisione rischia di ripercuotersi anche sul piano interno, ampliando la distanza tra i Governi e le rispettive opinioni pubbliche, generalmente meno sensibili al vincolo atlantico che alle istanze del disarmo. A tal proposito un sondaggio condotto in Italia da YouGov, e diffuso dall’ICAN nel novembre 2020, dimostrerebbe come la popolazione italiana sia maggiormente propensa all’adesione al trattato che al mantenimento delle armi atomiche sul territorio nazionale: l’87% degli intervistati vorrebbe infatti che l’Italia aderisse al TPNW e il 74% che le testate nucleari statunitensi venissero rimosse.

LA POSIZIONE DELL’ITALIA

In questo quadro si inserisce quindi l’Italia. Membro dal 1962 di tutti gli organismi multilaterali che precedettero l’NPT, essa è però anche parte della NATO, nel cui contesto aderisce al programma di nuclear sharing – così come Belgio, Olanda, Germania e Turchia. Per questo motivo il Governo di Roma, richiesto dal Parlamento di vagliare eventuali profili di compatibilità del TPNW con “gli obblighi assunti in sede di Alleanza atlantica”, ha dovuto optare per la risposta negativa. Il trattato sulla proibizione delle armi nucleari, infatti, non consente neppure il semplice “stazionamento” di armi nucleari – il che porrebbe l’Italia nella posizione di non poter più ospitare le testate americane sul proprio territorio, con gravi ripercussioni in termini di sicurezza nazionale e internazionale.

Tutto ciò sarebbe dunque in evidente contrasto con il concetto strategico della NATO, la cui effettività è ancora largamente fondata sulla deterrenza garantita dall’ombrello nucleare statunitense (come ribadisce anche il rapporto NATO 2030). L’Alleanza infatti, pur auspicando il disarmo, lo colloca in un tempo futuro, subordinandolo alla persistente e prevalente logica della sicurezza. Logica oggi forse più attuale che mai, visti i rapporti in rapido deterioramento tra USA e Russia, l’incognita cinese, il precario accordo con l’Iran e l’imprevedibile Corea del Nord, tra gli altri.

IN AGENDA: REVISIONE NPT, CTBT E CINA

Un mondo privo di armi nucleari appare, dunque, una realizzazione ancora lontana – a dimostrazione di come in geopolitica continuino a prevalere le realtà di potere sulle dichiarazioni di principi. Non basterà un trattato a bandire le armi nucleari, soprattutto se a questo non aderiranno coloro i quali le possiedono. E ciò non è verosimile che accada, almeno fintantoché l’ecosistema securitario rimarrà così gravido di minacce e tensioni. Come ribadito anche dalla Farnesina in occasione dell’entrata in vigore del TPNW, l’unica via realistica di perseguire il disarmo sembrerebbe essere invece un “percorso a tappe”, con la collaborazione delle potenze nucleari, che tenga conto “oltre che delle considerazioni di carattere umanitario, anche delle esigenze di sicurezza nazionale e stabilità internazionale”. Attesa sarà in proposito la 10° Conferenza di riesame dell’NPT, prevista per maggio 2020, ma rinviata ad agosto 2021 a causa della pandemia, dopo che quella del 2015 si concluse senza l’adozione di un documento finale condiviso, non riuscendo gli Stati membri ad accordarsi sulla spinosa questione della denuclearizzazione del Medio Oriente.

Cosa attendersi nel prossimo futuro? Da un punto di vista multilaterale, l’Alleanza atlantica cercherà probabilmente di rilanciare l’NPT, continuando a ostacolare al contempo il TPNW, nel tentativo di preservare la salute del regime vigente. Un regime che ci si proporrà poi di integrare con l’entrata in vigore del CTBT, il quale fornirebbe ulteriori e più solide garanzie al mantenimento dello status quo orizzontale. Per quanto riguarda la dimensione bilaterale, invece, è ragionevole aspettarsi una crescente consapevolezza che l’attuale sistema a due – eredità della Guerra Fredda – presto non sarà più rappresentativo della reale allocazione del potere globale. Per dirsi veramente effettivo, infatti, richiederà il pieno coinvolgimento della Cina nel dialogo tra Russia e Stati Uniti, in una sorta di New START da Washington a Pechino. Questo, tra l’altro, consentirebbe anche un più adeguato contenimento della proliferazione verticale – piano dalle vere potenzialità rivoluzionarie, in cui il primato tecnologico premia sulla potenza di fuoco. Ricondurre anche l’ascendente asiatica nel recinto delle superpotenze, in ultima analisi, appare come il vero nodo per la sopravvivenza a lungo termine dell’attuale equilibrio nucleare. Se ciò non dovesse accadere, al contrario, altri Stati potrebbero sentirsi ingiustamente discriminati e, temendo per la propria sicurezza, avviare un più vasto riarmo. Pertanto, in un tale scenario, il rischio di sprofondare in una pericolosa corsa agli armamenti non può essere ignorato.

(Julian Richard Colamedici, Il Caffè Geopolitico cc by nc nd)

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