Giovedì, 18 aprile 2024 - ore 17.56

Guerre dimenticate, leggi da cambiare e cose che non cambiano mai

Un anno fa la Turchia iniziò a bombardare i curdi in Siria, minacciò l’Europa di inviare milioni di profughi, ma intanto continuava a comprare armi e noi a vendergliele. Ma c’era un sacco d’altro e ce lo siamo dimenticati.

| Scritto da Redazione
Guerre dimenticate, leggi da cambiare e cose che non cambiano mai


Questa è la terza puntata di Fixing News, un progetto di Blogo in collaborazione con Slow News. Esce una volta a settimana e se vuoi saperne di più puoi cliccare qui per leggere il “manifesto”. Se hai suggerimenti, idee, richieste per le prossime puntate, scrivici a fixingnews@blogo.it.

Che settimana è stata la seconda di ottobre 2019? A vederla da qui, 12 mesi dopo, la prima cosa a cui pensiamo come evento centrale della settimana è probabilmente l’attacco turco al Rojava, foriero di una ondata di indignazione sia dal basso dei social che dall’alto delle diplomazie internazionali, ma soprattutto di centinaia di vittime e dell’ennesima e terribile emergenza umanitaria in Medio Oriente. Fu un momento di grande tensione, che oscurò – o quantomeno ha oscurato nella memoria di chi scrive – gli affari politici nostrani, tipo l’approvazione alla Camera del taglio dei parlamentari o le eterne discussioni sulla manovra economica, nonché le polemiche di basso profilo, perse nel tempo come lacrime nella pioggia.

Sul quel fronte quella settimana fecero discutere molto un’intervista sessista del Corriere, una surreale decisione che alla fine non fu una decisione ma fu surreale e che sembrava cancellare la dicitura Alto Adige a favore di quella Sud Tirol (ad oggi si continua a chiamare Alto Adige, ed è sempre più autonomo tanto da aver rifiutato di recepire il Dpcm con le nuove restrizioni anti-Covid), il Nobel per la Letteratura (per la prima volta doppio, dopo l’anno sospeso per lo scandalo molestie) a Peter Handke, accusato di leggerezze politiche un paio di decenni abbondanti prima e addirittura una pre-polemica – genere apparentemente assai gradito non solo per la chiacchiera davanti a un caffè, ma anche al giornalismo tradizionale – sulla potenziale ma ovviamente mai avvenuta assegnazione del Nobel per la Pace a Greta Thunberg.

Come dicevamo poc’anzi, se il ciclo ininterrotto delle news online e offline servisse veramente a farci ricordare qualcosa piuttosto che a catturare e tenere in ostaggio la nostra attenzione sparando news a raffica, della settimana tra l’8 il 15 ottobre 2019 probabilmente ricorderemo soprattutto l’invasione da parte della Turchia di Erdogan del territorio curdo della Siria del Nord, il Rojava, e i bombardamenti sui civili, e le fughe dei profughi.

 

La notizia apparve sui giornali da subito, bisogna ammetterlo, ma ai titoloni non seguì granché e non appena venne inquadrato l’elefante nel corridoio — le armi che la Turchia usa contro i curdi sono in parte, e pure larga, italiane — l’opinione pubblica cascò come una pera matura nella polemica calcistica (eh, signora mia, in Italia il calcio tira più di un carro di buoi), quella dei giocatori turchi che facevano il saluto militare.

A un certo punto, mentre le bombe esplodevano sui curdi, la surrealtà volle che si creasse persino un alterco in cui, nella parte dell’eroe figurarono l’ex giocatore dell’Inter Hakan Sukur e lo juventino Claudio Marchisio che, su Facebook, citò Anna Frank. Ovviamente, eroi per chi la pensa come loro. Nemici per la fazione opposta. Esattamente come allo stadio.

Fin qui tutto ordinario. Ma possiamo provare a farci qualche domanda. Per esempio: da chi le compra, le armi, la Turchia? Da tutti. L’Italia, nel 2018, aveva la Turchia come terzo acquirente nelle sue esportazioni del comparto di punta più taciuto del Made in Italy e, a un anno di distanza, fa pensare il fatto che le fabbriche di armi non abbiano smesso di funzionare nemmeno durante il lockdown. Ne ha scritto Avvenire, così: le industrie delle armi restano in funzione, «perché essenziali».

Come se non bastasse, il business delle armi è più florido che mai. E il Recovery Fund, che potrebbe essere una delle più straordinarie opportunità per ridisegnare un’Europa che pensi prima di tutto alle persone, alla loro prosperità, al pianeta, alle partnership internazionali, alla pace (le 5 “p”, i cinque principi dell’Agenda 2030), a quanto pare, verrà utilizzato anche per le spese militari. Sì, anche in Italia: si ipotizzano 25 miliardi stanziati.

La Corte europea per i diritti umani l’8 ottobre 2019 aveva dichiarato definitivamente inammissibile il ricorso dell’Italia sull’ergastolo ostativo dell’Italia, che ora dovrà adeguarsi e rivedere la legge. Non è la prima volta e in teoria dovrebbe essere l’ultima. Ma noi non ce ne ricordiamo e non ce ne ricorderemo.

Non sarà ricordata perché il dibattito sull’ergastolo ostativo, in Italia, sostanzialmente non esiste.

 

Per renderlo possibile, per prima cosa servirebbe spiegare che cos’è l’ergastolo ostativo: una forma di detenzione a vita per chi commette reati particolarmente gravi (per esempio mafiosi o legati a pedopornografia), che impedisce a chi la subisce di godere di benefici penitenziari se sceglie di non collaborare con la giustizia.

Poi dovremmo cercare di capire come mai in Europa siamo i soli a prevedere una pena non scontabile e non accorciabile, che per la Corte Europea è un reato di tortura.

Infine bisognerebbe discuterne senza mandarla in vacca e magari senza il fuoco di fila di opinioni che accusano l’Europa addirittura di voler fare un favore alla mafia. Quella settimana, era andata proprio così: 1, 2, 3, 4, 5, 6… Ma sotto tutta questa polemica, come spesso accade, si nasconde la superficialità e il tifo da stadio.

Nel frattempo come sta andando a finire? Visto che la Corte Europea non è un social network, quella decisione dell’ottobre 2019 ha avuto delle conseguenze e ora si sta aspettando il verdetto della Corte costituzionale, o un intervento legislativo.

Due o tre volte all’anno scoppia la polemica sulla sicurezza sul lavoro. Facci caso, di solito una cade nella seconda settimana di ottobre, come l’anno scorso per esempio. Sai perché? Perché l’11 ottobre è la giornata nazionale per le vittime degli incidenti sul lavoro, quella in cui escono dati, statistiche e le associazioni che se ne occupano tutto l’anno riescono a fare inquadrare dai distratti occhi di bue dell’informazione il gigantesco problema. Le altre volte, per occuparsene, deve capitare una tragedia immane, oppure c’è qualche osservatorio che fa uscire dei nuovi dati particolarmente allarmanti.

La realtà qual è? I morti sul lavoro, da quando l’Inail tiene i conti, in realtà scendono di anno in anno, ma restano ancora circa 3 al giorno. È questo il dato che fa di questa piaga una sostanziale non-notizia. Perché il concetto stesso di news, per come lo vediamo applicato nel contesto dei media mainstream, è che una notizia è tale se è qualcosa di unico o di esagerato rispetto alla normalità. È difficile, con questo approccio, raccontare qualcosa che accade ogni giorno, continuamente, quasi silenziosamente e diventano notizia solo se succede un incidente clamoroso o se qualche studio le denuncia.

Per questo, per capire una dinamica del genere, forse è meglio leggersi un libro.

Facci caso, contro il reddito di cittadinanza si trova una polemica praticamente ogni settimana. E gli attacchi arrivano da ogni parte, anche da chi, come Carlo Cottarelli, pretende di passare per “tecnico” e quindi, a suo dire, “obiettivo”.

Ne parliamo questa settimana perché venne fuori anche quella settimana, esattamente il 13 ottobre del 2019, quando il bersaglio furono i brigatisti e mafiosi. Fai mente locale e pensa un secondo a qualche settimana fa. Ti ricordi? A creare lo scandalo furono i genitori dei fratelli accusati dell’omicidio di Willy Monteiro Duarte. Ma di esempi ce n’è veramente di continuo: a dicembre un focolaio di “furbetti“ a Caserta, a maggio la moglie di un boss; a gennaio un addirittura un “esercito di furbetti” era stato scoperto nella Locride; a settembre dei detenuti per usura a Pescara; e così via.

Cambiano i piccoli bersagli e i motivi (in gergo giornalistico si dice i ganci) ma il bersaglio grosso è sempre lo stesso: il reddito di cittadinanza.

Aiutare i deboli dà fastidio? Messa giù così così la domanda è malposta e persino pericolosa, rischia di farci scivolare verso il complottismo.

Slow News sull’argomento ha cercato di andare un passo più in avanti e ha stretto una partnership con Percorsi di secondo welfare, una associazione che si occupa del tema, e ha intervistato durante il lockdown la ricercatrice Chiara Agostini. Puoi rivederla e risentirla qui.

Cosa si scopre andando più in profondità? Che il reddito di cittadinanza è solo una delle misure possibili. Che ha diverse tipologie di applicazione. Che non è detto che una singola tipologia sia la migliore. Che la pratica è migliorabile di molto, ma, soprattutto, che qualsiasi tema, se trasformato in un confronto tra tifoserie, diventa una palude.

Visto che questa dinamica dei “finti bersagli” capita anche con altri temi, mica solo con il reddito di cittadinanza, con la card di questa settimana ti proponiamo 4 consigli anticorpo per difenderti dalle news che servono a distrarci dalla luna che sorge.

Quando vedi una correlazione “facile”, scappa via.

L’esempio l’hai visto qua sopra: due accusati di un omicidio associati al reddito di cittadinanza. Cosa scatta nella tua testa quando vedi una correlazione simile?

Penserai alle ingiustizie, al fatto che il reddito di cittadinanza foraggia persone che non vogliono lavorare e che poi delinquono. È umano. Ecco: quando parte questo meccanismo, prova a fermarti e a pensare a questa rubrica, a questa immagine che abbiamo preparato.

I giornali si nutrono di queste correlazioni, che sono, di fatto, delle iper-semplificazioni. Spesso sono molto simili alle cosiddette fake news. Se pensiamo prende il reddito di cittadinanza → delinque stiamo dimenticando il contesto storico, sociale, culturale, informativo, di istruzione nel quale il singolo fatto che stiamo giudicando si è svolto.

Non possiamo più fare finta che i singoli fatti siano slegati da tutto il resto: la realtà non è a compartimenti stagni e abbiamo davvero bisogno di un giornalismo che unisca i puntini e che ce lo ricordi.

 

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