In Africa occidentale, la migrazione di ritorno è un fenomeno in crescita che genera dinamiche sociali, economiche e psicologiche che possono diventare ostacoli al reinserimento di coloro che, dopo un periodo all’estero, hanno deciso di tornare al contesto di origine. I programmi di assistenza di ritorno volontario esistenti, sono spesso incentrati solo sull’assistenza economica e tralasciano tutti quei valori individuali e sociali che risultano determinanti per il reinserimento dei ritornanti nel Paese.
Nell’ambito del progetto M.I.G.R.A., Migrazioni, Impiego, Giovani, Resilienza, Autoimpresa, realizzato in Senegal, Guinea-Bissau e Guinea Conakry, un team di psicologi clinici ha collaborato alla creazione e implementazione di un sistema di supporto psicosociale per rispondere in modo specifico ai bisogni sociali e psicologici di una popolazione di migranti vulnerabili di ritorno.
Questo asse di intervento si integra alle altre attività di progetto che sostengono il reinserimento socio economico dei soggetti vulnerabili nei contesti di intervento attraverso il rafforzamento e la promozione di iniziative di microimprese.
Abbiamo intervistato Davide Giannica, dottore in psicologia e ricercatore, che con la collega AureÌÂlie Maurin Souvignet, insegnante e ricercatrice dell’Università Sorbonne Paris Nord, hanno ideato nell’ambito del progetto M.I.G.R.A. un dispositivo di accompagnamento psico sociale (chiamato proprio MIGRA) che lavora sull’impatto che la migrazione di ritorno ha sulle relazioni e sui legami sociali.
Dott. Davide Giannica: Il dispositivo MIGRA non è l’unico nel suo genere. Negli ultimi anni diversi attori sociali hanno sviluppato una sensibilità e una certa attenzione verso questo argomento. La particolarità di MIGRA è quella di aver progettato e realizzato uno strumento articolato in diverse attività che mirano a uno stesso obiettivo: il reinserimento socio-psicologico dei migranti di ritorno. Per prima cosa, abbiamo realizzato una formazione al personale locale dei Paesi di riferimento che già lavora nell’ambito dell’accompagnamento alla persona. Nei territori dove lavoriamo non c’è del personale specializzato e, con la formazione, abbiamo deciso di dare strumenti operativi alle persone che avrebbero poi incontrato i soggetti vulnerabili (migranti).
LVIA: Il progetto M.I.G.R.A. è iniziato nel 2020 e nei primi mesi di implementazione, è stato necessario adattare alcune attività alla restrizioni dovute allo scoppio della pandemia di Covid-19.
D.G.: Sì, infatti le prime formazioni sono state organizzate a distanza con tutte le difficoltà del caso tra la lingua e le connessioni non sempre funzionanti. Nonostante tutto siamo rimasti molto sorpresi dalla partecipazione e dallo spirito di gruppo che si è creato tra gli operatori che è stato fondamentale per la buona riuscita delle attività. Sempre a causa dei ritardi dovuti al Covid, abbiamo dovuto rimandare i colloqui individuali con i migranti di ritorno, ma in questo modo abbiamo potuto dedicare più tempo alla progettazione del dispositivo che è stato il risultato di lunghe discussioni ed incontri con tutti gli operatori coinvolti. La partecipazione è andata al di là di quello che è normalmente l’approccio professionale: l’implicazione degli operatori locali è stata enorme e il risultato è il prodotto di queste dinamiche di scambio e confronto.
LVIA: In quali diverse attività si sviluppa il dispositivo MIGRA?
D.G.: MIGRA è organizzato su 3 dimensioni di intervento interdipendenti e interconnesse tra loro: una dimensione individuale, una gruppale e una collettiva o istituzionale.
Sul piano individuale abbiamo creato in ciascuno dei 3 paesi delle celle di ascolto gestite dal personale locale che abbiamo noi stessi formato all’inizio del progetto.
Dai colloqui individuali con i migranti di ritorno emerge spesso l’elemento della vergogna come qualcosa che caratterizza la loro esperienza. Lavorare su questa dimensione non è una cosa semplice: è un lato che viene tenuto nascosto, sia in ambito sociale che in ambito familiare e ha delle conseguenze molto importanti sul benessere delle persone. Il fatto di essere riusciti ad espatriare e poi essere tornati a mani vuote è fonte di un sentimento di vergogna nella quale i ritornanti rimangono intrappolati, poiché quello che loro percepiscono come un fallimento non può essere esposto e condiviso.
Il nostro dispositivo attiva un meccanismo in cui il sentimento della vergogna viene affrontato in modo più intimo nei colloqui individuali, e, successivamente, nei gruppi di mutuo aiuto con la condivisione della propria esperienza ad altri migranti. Con questo tipo di approccio, vogliamo far crollare il muro della vergogna che isola le persone e ne impedisce il reinserimento sociale.
LVIA: Cosa significa invece intervenire sulla dimensione gruppale e su quella collettiva?
D.G.: L’intervento sulla dimensione gruppale si realizza intorno alla creazione di gruppi di mutuo aiuto composti interamente da migranti di ritorno. I gruppi hanno svolto diverse attività tra le quali gruppi di parola e atelier di mediazione artistica. I prodotti di questi laboratori creativi sono stati in seguito condivisi con la cittadinanza tramite le attività che abbiamo chiamato dialoghi intergenerazionali: ossia dei momenti in cui siamo intervenuti nel dibattito pubblico per cercare di far emergere e modellare le rappresentazioni sociali negative presenti nelle società di origine, spesso fonti di discriminazioni.
LVIA: Senegal, Guinea-Bissau e Guinea Conakry sono confinanti ma hanno peculiarità diverse. Com’è stato lavorare in 3 diversi Paesi su questo argomento?
D.G.: Ogni Paese ha delle specificità diverse e lavorare insieme agli operatori locali ci ha permesso di adattare e modellare il dispositivo a seconda delle necessità di ciascun contesto. Ad esempio in Guinea Bissau, nonostante le numerose difficoltà legate alla lingua e ai problemi tecnici come mancanza di rete e luce, gli operatori locali hanno svolto un lavoro eccellente. In questo Paese abbiamo utilizzato molto la radio come mezzo di diffusione dei dialoghi intergenerazionali poiché è uno strumento che funziona benissimo. I migranti hanno potuto raccontare la loro esperienza migratoria in alcune trasmissioni e hanno ricevuto delle telefonate degli ascoltatori che raccontavano la propria. Ciò ha permesso di fare un passo verso il cambiamento della narrazione rispetto ai pregiudizi che solitamente si hanno sui migranti di ritorno.
LVIA: Ora che il progetto M.I.G.R.A. sta volgendo al termine, vi potete dire soddisfatti del lavoro fatto fino ad ora?
D.G.: Migra è un progetto di ricerca-azione assolutamente riuscito tanto sul piano dei risultati concreti che abbiamo osservato in termini di benessere delle persone assistite e tanto nei termini di ricerca. Dopo aver messo a punto questo strumento che si è rivelato così efficace e così performante, speriamo di poter proseguire nel suo ulteriore perfezionamento così da poterlo eventualmente riproporre sui medesimi territori ad una popolazione più ampia di beneficiari o in nuove regioni di intervento.