Martedì, 19 marzo 2024 - ore 07.51

Il modello patriarcale genera mostri

Il linguaggio con cui i media descrivono i delitti di genere dimostra che non si è ben compreso né il meccanismo alla base degli episodi di violenza né i rischi connessi con una narrazione distorta, funzionale solo a conquistare click e a vendere più copie. Abbiamo a che fare con un problema enorme, che si manifesta sotto molte forme, e non si può più essere superficiali.

| Scritto da Redazione
Il modello patriarcale genera mostri

Una giovane vita è stata spezzata a due passi da casa nostra: si chiamava Elisa Pomarelli ed aveva 28 anni.

Dolore e indignazione per l’ennesima donna uccisa proprio perché donna, dall’ennesimo assassino proveniente dalla cerchia delle conoscenze della vittima, lasciano il posto ad una rabbia profonda non appena si aprono i giornali e si leggono le notizie relative a quello che è, in base al conteggio fatto tramite il database de Il Corriere, il femminicidio n°59 dall’inizio dell’anno.

Testate come Libero o Il Giornale ci hanno abituato ad un linguaggio violento e sessista, ma definire chi ha confessato l’assassinio un “gigante buono incapace di fare del male” è semplicemente indecente. Anche altre testate però hanno utilizzato un linguaggio assolutamente inappropriato, tendente a solidarizzare con il carnefice, sottolineandone gli stati d’animo, le sofferenze, rendendolo il protagonista di una storia e facendo passare in secondo piano la vittima, quella vera, sulla quale viene subdolamente scaricata una parte della colpa. Sotto questo punto di vista, un capolavoro (in senso negativo) è dato dall’articolo apparso su La Repubblica, nel quale ha un ruolo centrale la descrizione dello stato d’animo, della gestualità di un uomo che dice di aver fatto una “stupidaggine”. E anche se il titolo è stato poi modificato, sui social è rimasta, in bella vista, quella parola: “stupidaggine”, e nel testo è sempre lì la descrizione delle “sue manone da tornitore” che “mulinano nell’aria sopperendo alle parole che non vengono”, manco si trattasse della sceneggiatura di un noir.

E non è finita: circola in rete uno stralcio di un articolo de Il Resto del Carlino, nel quale, parlando di Elisa (lesbica dichiarata), viene utilizzata l’espressione “confusione sessuale", espressione che applicata in questo contesto fa parecchio schifo, anche ammesso di non sapere che viene usata per indicare un metodo di contrasto alla diffusione di insetti dannosi.

Le parole sono importanti, in questi casi ancora di più, perché è nella narrazione tossica dei conflitti che permangono pregiudizi, giustificazioni, che germogliano atteggiamenti che, se sottovalutati, portano alle tragedie. Perché se ci sono persone, anche donne, che arrivano a dire che se un uomo fa del male ad una donna deve per forza aver subito chissà cosa (si vedano ad esempio i commenti seguiti all’aggressione di Albignasego, risalente a qualche settimana fa), vuol dire che abbiamo un problema culturale enorme. E, come osserva il collettivo Giulia Giornaliste, l’utilizzo di termini inadeguati è una violazione del Manifesto di Venezia, sottoscritto da molte giornaliste e giornalisti ma ancora poco conosciuto e (soprattutto) poco applicato.

Ma c’è di più. La violenza sulle donne è solo un aspetto connesso con una cultura fortemente patriarcale ancora viva nella nostra società, nella quale parecchi, troppi uomini vivono il rapporto uomo-donna come fortemente asimmetrico e connotato più dal possesso che dal rispetto. Questa cultura, nella quale l’uomo viene spesso giustificato se commette atti di violenza (“raptus”, “troppo amore”, “respinto”, “se l’è cercata lei” sono solo alcune delle espressioni ricorrenti), mentre viene eretto un muro a difesa delle NOSTRE donne quando a commettere lo stesso reato è un cittadino straniero, è connessa con molti altri aspetti. Nel libro “I nostri corpi come anticorpi”, scritto da Beatrice Brignone e Francesca Druetti ed edito da People, viene analizzato il contesto nel quale si muovono i promotori di iniziative come il DDL Pillon: persone che si riconoscono nell’associazionismo cattolico conservatore, omofobo, pro-vita, intimamente connesso con ambienti di destra anche estrema, nel quale il ruolo della donna viene considerato funzionale alla cura, alla famiglia, nell'ompbra della figura del capofamiglia. Il DDL Pillon si propone come fortemente limitante delle libertà della componente più debole dell’unione familiare (tipicamente la donna), rendendo difficili ed onerose le separazioni anche in caso siano stati segnalati episodi di violenza, utilizzando i figli come armi di ricatto (si veda il riferimento alla PAS, teoria non riconosciuta dalla comunità scientifica).

Non dobbiamo però sottovalutare un altro aspetto: le vittime di questa mentalità non sono solo le donne, o i bambini. Anche gli uomini si trovano a vivere situazioni conflittuali, stretti fra lo schema comportamentale imposto da famiglia e società, che richiede ostentazione della propria virilità, e il proprio essere, come segnalato in un interessante articolo pubblicato su thevision.com. Ed è così che gli aspetti non sufficientemente “rudi”, “maschi” vengono nascosti, forzando atteggiamenti che non si percepisce come propri solo perché “gli altri” si aspettano quello. E ci sono alcuni studiosi che mettono in connessione tutto questo con una maggiore propensione dei maschi al suicidio.

Purtroppo nel linguaggio corrente, anche fra persone che si reputano progressiste, gli atteggiamenti maschilisti la fanno da padrone, l’ostentazione del potere nei confronti di chi si trova in una situazione di maggior debolezza sono all’ordine del giorno. Se non si comincia con una specie di “ecologia del linguaggio” a togliere queste scorie velenose, che fanno da substrato a violenze di vario genere, non ne usciamo più. E in questo passaggio culturale il ruolo dei canali di informazione è fondamentale.

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